Giornata per l'approfondimento e lo studio 
del dialogo tra cattolici ed ebrei
17 gennaio 2005

Pontificia Università Lateranense - Roma
Intervento Mons. Gianfranco Ravasi

In questo momento storico segnato dall’odio, striato di sangue e lacerato dalle divisioni, Ebrei e Cristiani trovano nella Parola di Dio una comune fonte di ispirazione. Tema della Giornata Dt 6,4-5 «Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore ... Amerai il prossimo tuo come te stesso» - scarica la locandina in formato.pdf

Ho ascoltato con attenzione e interesse il Rabbino Di Segni e devo dire che quanto più egli si inoltrava nel suo discorso tanto più sentivo vero per me un detto della tradizione araba. Questo detto è lapidario. Afferma: “Chi parla per ultimo nel consiglio dei sapienti, è meglio che si alzi, taccia ed esca”. Questo perché effettivamente il suo discorso, anche al di là dell’ampia esegesi rabbinica che fatto ai due testi intrecciati tra loro, indubbiamente già copriva l’orizzonte che anch’io avrei voluto sviluppare. È per questo motivo che ho pensato di fare, da parte mia, cercando di rivolgermi anche al Nuovo Testamento, quasi una sorta di divertissement, attorno a questo tema. Dopotutto il tema dell’amore, per sua natura, suppone anche la gioia, la festa. Anzi è suggestivo che siamo accompagnati anche da musiche che non sono tutte rituali, ma appartengono anche alla festa e alla gioia comune (1). Vorrei fare una premessa e poi inizierò questa specie di divertissement testuale.

Una premessa

La premessa è questa: un invito che rivolgerei a tutti è quello di rileggere il testo che è stato preparato da Rav Laras e da Mons. Paglia per questa giornata. È uno scritto di grande intensità e ricchezza, anche tematica e testuale, e dichiara che la “voce di Mosè e la voce di Cristo parlano all’unisono”, riconoscendo che l’amore è l’anima profonda della Legge. Da quello scritto vorrei estrarre soltanto due passi biblici citati. Il primo è il Salmo 86, 5 che dichiara “Tu sei buono, o Signore, perdoni, sei pieno di hesed per chi ti invoca”. Suggestivo è l’uso di questo vocabolo, che noi siamo sempre imbarazzati a tradurre per le sue iridescenze dal punto di vista semantico.

Il secondo è un testo che interessa molto gli esegeti anche per la sua collocazione cronologica molto discussa. Si trova nel libro di Isaia (Is 19, 25) ma sicuramente è un testo tardo, da alcuni attribuito al Secondo Isaia, da altri portato nientemeno che all’epoca ellenistica, una inserzione tarda dunque. Il manto dell’amore di Dio, della sua benedizione amorosa si stende non soltanto su Israele: “Benedetto sia l’egiziano, mio popolo” (con un titolo che è tipico della berit, dell’alleanza), “l’assiro opera delle mie mani” e, al centro, “ Israele, mia eredità”. Appare la funzione di Israele nella sua elezione non come privilegio, ma come missione. L’elezione non è esclusiva, ma inclusiva.

A questo punto propongo una sorta di piccolo gioco, affidandomi alla tecnica gematrica: andare alla ricerca dei numeri e sulla base dei loro valori simbolici costruire una riflessione che non sia però del tutto allegorica. Evocherò quattro equazioni, distribuite in modo tale da costituire quasi una sorta di spettro cromatico dell’amore. Partiremo dal violetto, che è il colore gelido, il colore della negazione, perché indubbiamente, l’amore ha anche l’altro volto, oscuro, quando viene cancellato. Anzi sappiamo che esiste una letteratura all’interno di tutte le culture riguardo al trapasso inesorabile e inverificabile dall’amore all’odio (pensiamo alla Sonata a Kreutzer di Tolstoj).

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Cominciamo perciò con la prima equazione: sette a settantasette. Il testo a cui faccio riferimento è Gn 4, 23-24, questo terribile canto di Lamech, quasi il canto delle spade, che contiene una definizione straordinariamente incisiva della vendetta, della spirale oscura dell’odio: “Io ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, Lamech lo sarà settantasette volte”. Ecco quindi una prima equazione tragica, drammatica, che dobbiamo ricordare e che è stata purtroppo talora, anche nell’interno delle nostre relazioni inter-religiose. E’ l’oscura pulsione dell’odio, della tensione, della negazione dell’altro. Qui è espressa con questa opulenza: sette a settantasette! Già quel sette era un tentativo di esaltare ma anche di controllare la vendetta; ma ora essa dilaga e assume questa espressione innumerabile.

A proposito di questa equazione, vorrei leggervi solo una battuta, un commento che fa un poeta, Charles Péguy. Nel suo Mistero dei Santi Innocenti, di fronte alla violenza di Erode, egli mette in bocca a Dio queste parole: “Gli uomini preparavano tali errori e mostruosità che io stesso ne fui spaventato. Ho dovuto perdere la pazienza, eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto trattenermi, era più forte di me: io ho anche un volto di sdegno”. Questo aspetto dello sdegno nei confronti del male, dell’ingiustizia, della violenza è una virtù e non un vizio! Vizio è magari la collera, la reazione furibonda. Lo sdegno di fronte al male, di fronte a questa equazione terribile, settantasette, può avere sicuramente un significato e un valore. Se noi leggiamo certe pagine dei Vangeli lo scopriamo. Per es. Cristo talora ci presenta un volto di sdegno: si legga il capitolo 23 del Vangelo secondo Matteo, con quei famosi “guai!” che sono maledizioni, nella linea dei grandi “guai!” del capitolo 5 di Isaia .

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La seconda equazione ci permette di andare sempre di più avanti nello spettro, verso il colore dell’amore: uno a uno. Questo uno a uno lo vorrei rappresentare, in maniera simbolica, in negativo e in positivo. E’ un elemento che di solito noi cristiani leggiamo, nel libro dell’Esodo, con molta perplessità e con fatica. Si tratta di Es 21, 23, la famosa legge del taglione: talis culpa, talis poena. Uno a uno: “vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido”. A questo punto la nostra reazione è istintivamente negativa.

Vorrei spezzare una lancia a favore di questa legge, al di là della formulazione così icastica e impressionante, perché siamo in presenza della giustizia distributiva. La giustizia non è un elemento che deve essere cancellato dall’orizzonte dell’amore. Essa viene certamente travalicata, però è fuor di dubbio che la giustizia è una componente necessaria nell’interno delle relazioni interpersonali. È per questo che noi ascoltiamo sempre con grande venerazione e passione la voce dei profeti. Cito solo tra le mille, l’espressione di Amos 5,24: “Scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne”. La giustizia deve essere sempre fresca nell’interno della comunità dei credenti. Il nostro Dio, il Dio della Bibbia, è un Dio morale, che distingue bene e male e giudica bene e male.

Naturalmente noi sappiamo che questa legge della giustizia, allargando lo sguardo al Nuovo Testamento, è stata considerata da Gesù un gradino all’interno di un itinerario ulteriore. Gli esegeti hanno ripetutamente affermato dall’inizio del ‘900 che le famose “sei antitesi” del Discorso della montagna - “è stato detto ma io vi dico…” - non sono in realtà, nella concezione di Cristo, delle opposizioni radicali, ma il tentativo di far tendere quel precetto antico al massimo possibile inverando orizzonti ulteriori. Quando Cristo, attorno alla legge del taglione, aggiunge quei tre esempi famosi della guancia, della tunica e del miglio, ci invita a ricordare che la giustizia non si cancella, ma si deve andare oltre la mera giustizia distributiva.

Ed è per questo motivo che l’equazione “uno a uno” può essere anche positiva. Infatti: ama il prossimo tuo come e stesso. Pensiamo alle belle riflessioni che ha sviluppato su questo parallelo tra io e tu un filosofo ebreo, Lévinas, proprio per indicarci che questa è una parità che alla fine ci fa comprendere che non si può vivere di sola giustizia. Che è necessario cioè che la giustizia diventi un uno a uno di amore.

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E arriviamo ad una terza equazione che vorrei proporre. Questa equazione numerica è “sette a mille”. Prendiamo ancora un testo dell’Esodo (Es 34, 6-7). Un esegeta francese, A. Gelin, ha definito questa frase divina - si tratta infatti di un’autodichiarazione - “la carta di identità di Dio”. Essa è interessante perché ci permette di passare dall’orizzonte della giustizia a quello dell’amore e l’orizzonte dell’amore travalica, come si vedrà subito, quello della giustizia che però non deve essere elisa.

“Dio clemente e misericordioso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà. Certo Egli castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione…” (“tre e quattro” vengono scissi per raggiungere simbolicamente quel numero, il sette, che è un numero di perfezione). Quindi la punizione, il castigo divino, la giustizia sono una esigenza perfetta e giusta. Però il Signore “perdona la colpa, la trasgressione e il peccato conservando il suo hesed, fino alla millesima generazione” e mille e il numero dell’infinito, il numero senza numero.

E’ a questo punto che allora possiamo veramente intravedere nell’interno del volto divino quale sia la sua tendenza, quale sia il profilo che Egli ama di più, quale sia la sua identità profonda, l’amore infinito, che giunge fino alla millesima generazione. Si potrebbero cercare tanti testi dell’AT in cui si intravede in maniera nitida questa continua manifestazione di amore di Dio. E non soltanto all’interno di pagine note. Voglio citare, ad esempio, una dichiarazione di Ezechiele che è significativa per mostrare la logica di Dio: “Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?” E ancora: “Io non godo della morte di chi muore” (18, 23.32).

A questo punto entriamo nel NT. In Gv 13, 34 sappiamo che quell’uno a uno, “ama il prossimo tuo come te stesso”, in Giovanni viene mutato con una nuova equazione che per il cristiano che legge è, tendenzialmente, l’uno a mille. Infatti si dice: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”, non più quindi tra di voi con il vostro amore, ma con un amore che è l’amore stesso divino, un amore che giunge fino alla donazione totale ed assoluta.

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Arriviamo così alla quarta equazione che paradossalmente ci permette di ritornare alla prima, ma in una maniera del tutto trasformata e trasfigurata. Siamo all’interno del vangelo secondo Matteo (Mt 18, 21-22): “sette a settanta per sette”. Forse c’è una allusione al paradosso di Lamech, naturalmente in tutt’altra prospettiva. “Signore, quante volte dovrò perdonare il mio fratello se pecca contro di me?” domanda Pietro, “fino a sette volte?”. E Gesù gli risponde: “Non dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Ed è a questo punto che entra in scena, come è facile capire, l’amore di Dio anche nell’amore umano, un amore che non ha in sé perimetri e frontiere.

Questa equazione del “sette al settanta per sette” e che è lo stravolgimento dell’iniziale “sette a settantasette” di Lamech, la potremmo idealmente commentare con le parole che Cristo pronuncia nei discorsi dell’ultima cena. Quei discorsi sono significativi perché uno dei fili conduttori dominanti è il filo dell’amore, in una quarantina di evocazioni. C’è quella frase che Cristo pronuncia in quell’ultima sera della sua vita terrena, frase di grande suggestione e potenza e che ha sempre impressionato non soltanto i credenti. Si trova in Gv 15,13: “Non c’è amore più grande del dare la vita per gli amici”, per la persona che si ama. In un certo senso quell’“uno a uno” viene ormai travalicato, portato a mille, a “settanta volte sette” perché l’amore del prossimo, parallelo all’amore che io ho per me stesso, di per sé non dovrebbe condurmi a negare me stesso. In questo caso infatti, se dovessi sacrificare me stesso, l’equazione non terrebbe più.

Cristo invece ammette la possibilità di una donazione totale e assoluta e noi sappiamo che l’unità di misura che Gesù introdurrà per la verifica escatologica, per il giudizio finale divino (cf Mt 25), l’ultima grande visione verso la quale dobbiamo andare, e sotto la quale dobbiamo passare per avere il giudizio divino, è proprio l’amore per il prossimo. L’amore perciò diventa alla fine il nodo d’oro che tiene insieme non soltanto tutta la morale ma anche tutta la teologia e la speranza escatologica.

Una considerazione conclusiva

Siamo partiti dal colore violetto, gelido di Lamech, siamo passati attraverso un colore già positivo, quello “dell’uno a uno” della giustizia, siamo entrati nell’orizzonte dell’amore, il “sette a mille” o il “sette a settanta volte sette”. Questo colore estremo, rosso, dello spettro dell’amore, ci permette di fare una considerazione proprio sul suo eccesso, sul suo andare oltre la logica immediata. Ci permette di comprendere come le religioni, nella maniera più autentica, più generosa e profonda, ci invitino a rispettare tutte le norme della giustizia, ma anche ci propongano una dimensione che sostanzialmente è di utopia.

Questa parola adesso non bisognerebbe pronunciarla perché è oggetto di tanti equivoci, ha generato tante contraddizioni. Però le religioni di loro natura non sono destinate a gestire soltanto l’ordinario giusto. Esse ci invitano, a tendere verso quell’infinito che è l’infinito amore di Dio, quel Dio che la Prima Lettera di Giovanni definisce appunto come Agape. Cristo nel Discorso della montagna, quando invita il discepolo a scegliere un modello di imitazione, non usa il modello del santo, di un altro uomo, ma dice: “Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro” (Mt 5, 48). Quindi l’utopia, la tensione verso l’infinito, verso la pienezza deve essere sempre l’anima che sorregge la nostra spiritualità, l’ebraica e la cristiana.

E’ in questa luce che concludo con due battute. La prima non è presa dalla Bibbia, ma da uno scrittore francese, Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo principe, che ha delle pagine molto suggestive su questa libertà assoluta, su questa generosità estrema, non calcolata, dell’amore. L’amore di sua natura sciala, non calcola. Saint-Exupéry dice: se tu devi formare un navigatore, non devi insegnargli soltanto come si costruisce la barca, con le doghe, la pece, l’albero maestro, con le mappe nautiche, ma devi cercare di instillare in lui la nostalgia del mare spazioso e infinito. Solo così avrai fatto un vero navigatore. Nello stesso modo, le religioni dovrebbero instillare proprio questa nostalgia del mare infinito dell’amore, del mille, del settanta volte sette, pur riconoscendo che è necessario prima allestire la barca della giustizia.

La seconda battuta è presa da un testo biblico del Canone cattolico. Il sapiente Ben Sira, che rappresenta in maniera suggestiva il giudaismo del II secolo a.C., è interessante perché è sicuramente un ebreo che respira le spore dell’ellenismo, ma al tempo stesso le verifica in maniera vigorosa sulla base dell’eredità e del patrimonio ebraico. Questo autore, che sa stare sul crinale, meth’orios, come sanno stare i sapienti, ha lasciato un verso che idealmente dovremmo un po’ tutti sognare di avere come epigrafe conclusiva della nostra storia, della nostra vicenda umana. Scrive in 48, 11: “Beati coloro che si sono addormentati nell’amore”.
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(1) Mons, Ravasi fa riferimento agli intervalli musicali che sono stati eseguiti durante l’incontro dal duo di musica israeliana “Progetto Davka” di Roma.

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