Una recente interessante intervista del
      nuovo Rabbino Capo di Milano
            
      «Il volontariato è la
      sfida del futuro: non credo che tutti i problemi possano essere risolti
      dalle istituzioni». Si presenta così Alfonso Arbib, nuovo rabbino capo
      di Milano, insediatosi da pochi giorni: «Dobbiamo imparare dai cattolici,
      loro hanno una grande esperienza in questo campo e sono molto bravi».
      Insegnante, nato a Tripoli, in Libia, 47 anni fa, il successore di
      Giuseppe Laras spiega: «Il lavoro dei volontari diventa sempre più
      importante, e questo deve essere incrementato e sviluppato. Soprattutto
      per rivolgersi agli elementi più deboli della nostra comunità. Che ci
      sono anche se non appaiono: questo è un aspetto particolare della
      comunità di Milano dove la povertà o le persone in difficoltà appaiono
      di meno. Ma allo stesso modo e con lo stesso spirito dobbiamo muoverci
      verso l’esterno. E allora possiamo collaborare con le altre componenti
      della società, possiamo lavorare insieme. Per dare il nostro contributo,
      che non potrà essere enorme perché siamo una piccola comunità, ma
      possiamo anche noi aiutare la parte più debole della città».
      
      Anche questo rientra nel dialogo interreligioso?
      «Perché no?… Lavorare insieme è importante per conoscersi. Noi
      diamo ormai per scontato il dialogo interreligioso. Ma va tenuto presente
      che è un processo recentissimo, che va sviluppato».
      
      Quindi, a quarant’anni dalla Nostra
      Aetate (la Dichiarazione Conciliare che ha auspicato una nuova era nei
      rapporti interreligiosi), avanti nel solco aperto da Laras e Martini…
      «Sì. Noi lo continueremo. Il cardinale Tettamanzi mi ha scritto una
      lettera molto bella per il mio insediamento. Parlarsi è importante per
      conoscersi e per affrontare il problema dell’antisemitismo».
      
      Un fenomeno duro a morire, che ha spesso manifestazioni violente. Ma
      come crede di riuscire a parlare con chi la odia?
      «L’antisemitismo è una questione complicata. Contiene alcuni
      elementi irrazionali che non si risolvono in alcun modo. È molto
      difficile dare una risposta razionale a chi non lo è: contro l’odio
      irrazionale c’è poco da fare. Però nel pregiudizio antiebraico ci sono
      anche elementi razionali e questi con il dialogo, la conoscenza e il
      rapporto personale si possono superare. Il dialogo serve a questo. Ma
      serve anche il rispetto delle identità: delle diverse identità
      religiose. E su questo c’è il consenso sia da parte ebraica che da
      parte cristiana. Il dialogo non deve annullare le identità, anzi deve
      avere come obiettivo lo sviluppo delle diversità religiose: questo può
      arricchire. Mentre l’omologazione impoverisce».
      
      Che cosa bisogna spiegare a chi non sa nulla dell’ebraismo? Per
      esempio nelle scuole milanesi che cosa bisogna dire ai giovani?
      «Ci dobbiamo concentrare su chi sono gli ebrei più che sul problema
      dell’antisemitismo in sé. Bisogna far capire che quando parliamo di
      ebrei non stiamo parlando di marziani e che la diversità è fonte di
      ricchezza per la città. Così come bisogna far capire i punti di contatto
      e il ruolo che ha avuto l’ebraismo nella costruzione dell'identità
      europea. La diversità non è un male ma approfondimento della propria
      identità: è nel confronto con gli altri che rafforziamo noi stessi.
      Questa è la sfida. Da una parte esaltare i punti in comune, dall’altra
      non nascondere le diversità».
      
      Lei ha parlato di ebrei e cristiani. Ma i musulmani?
      «Il dialogo c’è già. È complicato perché non esiste un
      organismo che rappresenti la totalità della comunità islamica. Parlare
      di dialogo generalizzato oggi è difficile. Per quanto ci riguarda abbiamo
      un buon rapporto con il Coreis di Pallavicini. In realtà il dialogo
      religioso non è particolarmente complicato: l’Islam è una religione
      monoteista. Dal punto di vista religioso ci sono molti elementi comuni.
      Purtroppo il confronto è reso complicato dagli elementi politici, la
      questione mediorientale e il problema dell’antisemitismo nei Paesi
      arabi».
      
      Da tempo la battaglia della Chiesa cattolica è contro la
      secolarizzazione. È un’emergenza anche dal punto di vista ebraico?
      «Per noi è un po’ più complicato. L’ebraismo è un popolo, è una
      religione, è un modo di vivere: è tante cose insieme. Il messaggio che
      dobbiamo far passare è che tutto questo fa parte della identità ebraica.
      Prendere solo una parte del "pacchetto" è un impoverimento dell’ebraismo.
      Dire faccio parte del popolo ebraico senza far parte della religione
      ebraica è togliere un elemento fondamentale all'identità ebraica. È il
      messaggio ebraico per eccellenza: fa tutto parte di un unicum che va preso
      nel suo insieme. È quello che dobbiamo spiegare agli ebrei milanesi che
      si sono allontanati dalla comunità. Noi dobbiamo andarli a cercare, ma
      dobbiamo anche stare attenti a non avere un atteggiamento paternalistico.
      Non possiamo dire loro: vengo a salvarti. L’atteggiamento giusto è
      quello dell’esempio e della conoscenza reciproca».