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Le parole di Gesù
Conversazione di Don Bruno Forte con gli studenti del Liceo "Cartesio" di Giugliano


STUDENTE: Ringraziamo il nostro ospite Don Bruno Forte per essere qui con noi e, prima di iniziare il nostro dibattito, guardiamo una scheda introduttiva.

"Né in cielo né in terra, né nell'abisso né nei traviamenti del pensiero più fantastico - scrive Kierkegaard in "Esercizi del Cristianesimo" - c'è, umanamente parlando, la possibilità di una combinazione più folle". La folle combinazione cui il filosofo Kierkegaard si riferisce è quella di un Dio che si fa uomo e compagno di uomini; un Dio che si abbassa e attraversa la solitudine, la sofferenza e la morte; un Dio che sulla croce grida l'abbandono e nella resurrezione, scoperchiato il sepolcro, proclama la vittoria sulla morte. Questa vicenda di vita e di morte, di amore e di dolore, di speranza e di attesa, ha segnato la storia dell'Occidente. Noi che viviamo nell'alveo di questa storia nel suo progetto di libertà e nelle sue fortune tragiche, viviamo ancora nell'eco delle parole pronunciate da Gesù di Nazareth più di duemila anni fa. E questo accade anche se a quelle parole possiamo anche non credere. Quelle parole ci attraversano comunque, ci impegnano ci interpellano, ci interrogano. Attraverso di esse ricerchiamo il senso della vita e della morte. Diamo ordine e immagine al mondo. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Le lettere di Paolo non sono altro che il nostro lessico, la grammatica essenziale con cui l'Occidente ha parlato. Non la sola ovviamente. La Grecia dei filosofi e dei tragici è un'altra poderosa radice dell'Occidente, insieme all'Israele dei patriarchi e dei profeti. L'Occidente nasce e si sviluppa dalla folle combinazione di questi racconti.

STUDENTESSA: Professore, secondo Lei ci troviamo ancora nella storia cui si riferisce la scheda filmata o quella di oggi è un’altra storia?.

DON FORTE: Si e no. Si, nel senso che tutti apparteniamo a questa tradizione culturale dell'Occidente che è stata profondamente segnata dal grande codice che è la Bibbia, dunque la parola di Dio nella tradizione ebraico-cristiana. No, nel senso che il fatto di appartenere a questa grande tradizione non significa che sia data per scontata per noi, anzi dobbiamo continuamente riscoprirla. L'incontro con Cristo è sempre un'avventura nuova che non si può dare per presupposta; è questo il rischio e la bellezza della nostra libertà, l'audacia a cui siamo continuamente chiamati nella vita, perché la vita stessa abbia significato e passione.

STUDENTESSA: Secondo Lei l'Occidente deve di più alla radice greca o a quella ebraica?

DON FORTE: Certamente le due radici si sono profondamente incontrate. Ai Greci dobbiamo la potenza di porsi le grandi domande che hanno fatto e fanno il pensiero d'Occidente, ma queste domande hanno avuto degli orizzonti di risposta che sono stati sovvertiti e arricchiti dal Cristianesimo e dall'Ebraismo. In modo particolare due grandi apporti vengono da questa tradizione ebraico-cristiana. Il primo è il concetto di persona, cioè che ognuno di noi è un io singolare dal valore infinito e irripetibile. Il secondo valore è quello del Dio personale, secondo cui, davanti a noi, non c'è semplicemente un universo luminoso, astratto, ma un Dio che ci interpella, che vuole un legame d'amore, dando così un senso alla nostra storia. Rispetto al mondo greco siamo usciti dal ciclo dell'eterno ritorno dove tutto si ripete, per entrare, con l'Ebraismo e col Cristianesimo, nella storia orientata ad un futuro dove ognuno di noi deve situarsi, nella libertà della sua avventura personale.

STUDENTESSA: Lei non pensa che sia stata proprio questa doppia radice della nostra religione ad aver creato il conflitto e la contraddizione nell'anima dell'Occidente?

DON FORTE: È vero che le due anime non si combinano facilmente, basti solo pensare al trauma, per la cultura greco-romana, causato dall'immissione del Cristianesimo e alle reazioni di violenza scaturite da questo incontro, come le persecuzioni. Tuttavia non è a causa del conflitto tra la tradizione biblica e la tradizione greca che in noi abitano costantemente tensioni ed inquietudini, perché l'uomo è un essere che porta dentro di sé una ferita aperta, la ferita della grande domanda: perché? Se pensiamo alla vita, essa sembra un grande cammino verso le tenebre, verso la morte, ma quando affrontiamo la grande domanda ci accorgiamo che la scissione che abbiamo dentro è una sorgente di ricerca, di pensiero. Io dico spesso che il pensiero nasce dal dovere e dalla morte, nasce da questa ferita dell'anima, dalle contraddizioni che abbiamo in noi e solo chi accetta di viverle può dare alla sua vita un senso.

STUDENTESSA: Don Forte, secondo Lei di che cosa è simbolo Gerusalemme?

DON FORTE: Io amo immensamente Gerusalemme perché, secondo la tradizione ebraica, è lì l'ombelico del mondo. C'è una bellissima tradizione dei rabbini che dice così: "Quando Dio creò il mondo di dieci misure di bellezza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo; di dieci misure di saggezza nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo; di dieci misure di dolore, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo". È il destino di questa città santa, santa per le tre religioni monoteistiche: l'Ebraismo, il Cristianesimo, l'Islamismo. Essa è dotata di una straordinaria bellezza, di una straordinaria sapienza, ma anche di uno straordinario dolore. Tutti siamo in qualche modo nati a Gerusalemme e tutti vi ritroviamo le nostre radici. Gli ebrei perché è la città di Davide, i cristiani perché è la città della passione, morte e resurrezione di Cristo, i musulmani perché il profeta ha legato il suo nome a Gerusalemme. Dunque Gerusalemme è la città che ci dice che nella terra degli uomini Dio ha abitato e continua ad abitare chiamando gli uomini a decidersi per lui. Essa è la terra del paradosso, dove l'amore dell'eterno si è fatto presente, ma dove è più difficile amarsi fra gli uomini; forse perché più intensamente si avverte la ferita di questa decisione da prendere, la fatica di doverla prendere insieme rispettandosi, convivendo nella giustizia e nella pace.

STUDENTESSA: Perché i grandi monoteismi, pur avendo un patrimonio in comune, sembrano comunque destinati ad un conflitto mortale?

DON FORTE: I monoteismi sono uniti dalla fede di quest'unico Dio che è il senso della vita e della storia e questo unisce l'ebreo, il cristiano e il musulmano, ma c'è una tentazione innata in ogni esperienza religiosa così forte, così radicale, di assolutizzarsi. L’obiettivo per tutte è di assolutizzare Dio, perché Dio è un assoluto ed è allora che nascono i conflitti. In realtà dovremmo avere sempre la misura della distanza infinita che c'è fra il Creatore e la creatura. Anche quando lo incontriamo, lo amiamo, anche quando il nostro cuore è raggiunto e rapito da questo possibile e impossibile amore, dovremmo mantenere un senso profondo di umiltà. Io amo ripetere che la verità non è qualcosa che si possiede; è qualcuno che ci possiede, è il Dio vivente. Se si entra in questa logica, sia che siamo ebrei o cristiani o musulmani, allora, mentre vivi la fedeltà alla tua identità, sai anche rispettare la verità dell'altro. Quindi, da una parte siamo noi cristiani che annunciamo la verità di aver conosciuto e amato il Cristo e dall'altra dobbiamo cogliere tutti i semi di verità che sono negli altri.

STUDENTESSA: E, secondo Lei, verrà il giorno in cui sarà possibile un sincretismo fra le diverse religioni?

DON FORTE: Ebbene, io spero che di sincretismo non si debba mai parlare, perché questo termine indica una mescolanza confusa, mentre auspico che ci sia un incontro e un dialogo veri, in cui ciascuno sia sé stesso e nello stesso tempo sia capace di donarsi all'altro e di accoglierlo nella verità, perché la verità è qualcosa che, anche quando fa male, ci aiuta a crescere. Ecco, punterei su questo. Lo stile dell'incontro di Assisi che il Papa ha vissuto qualche tempo fa e che ha convocato all'inizio di questo nuovo millennio scenario di guerre di religioni, è servito per dire al mondo che i conflitti non sono di religione, ma anzi che tutti gli uomini credenti devono lavorare insieme per la pace. La ragione profonda nasce da questo: che il dialogo e il rispetto dell'altro sono per il credente una condizione della stessa autenticità della sua vita inseparabile dalla testimonianza della verità in cui crede.

STUDENTESSA: Volevo sottoporLe questa citazione tratta, dal Vangelo di Luca:"Sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra" . Ecco, secondo Lei che fuoco è stato il Cristianesimo?

DON FORTE: Ma distinguerei vari livelli di questo fuoco. C'è anzi tutto un fuoco che ti arde dentro. Ricordo una frase molto bella del poeta Geremia, al Capitolo XX, in quella che viene chiamata Le Confessioni di Geremia che ha conosciuto il Signore, quando dice: "Tu mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre. Ho combattuto, ma tu hai vinto. Volevo fuggire, ma un fuoco mi ardeva, mi bruciava dentro". Chi nella vita almeno una volta ha veramente incontrato Dio, sa che questo incontro è come un fuoco che gli arde dentro. Ecco il primo livello del fuoco che Gesù ci è venuto a portare. Lui ci arde dentro dal momento che Lo si conosce, dal momento in cui ci si è lasciati raggiungere, rapire, amare da Lui. Poi c'è un secondo livello, che è quello dell’estensione di questo fuoco alla comunità. Dio non si incontra in una sorta di solitudine individualistica, ma in una comunione, in un rapporto d'amore con gli altri. Io ripeto spesso un proverbio napoletano che dice così: "S' pò campà senza sapé pecché, ma nun s' pò canpà senza sapé pe’ chi", che significa: "Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi". Questo chi è anzi tutto il Dio vivente, ma è anche l'altro, l'altro che ogni giorno siamo chiamati ad amare, con cui costruisci un dialogo, un rapporto d'amore. Questo è il secondo fuoco. E poi c'è un terzo fuoco, che, vorrei dire, è quello che ci coinvolge sui grandi scenari del mondo, davanti a ciò che accade nella storia. Per esempio dire, davanti alle guerra e agli episodi di terrorismo che negli ultimi mesi ci hanno segnati dolorosamente, che si tratta di avventure senza ritorno, che solo la pace e la giustizia sono degni di essere perseguite con tutta la passione e l'amore, dire questo, come lo sta dicendo il Papa, è certamente accendere un fuoco. Come dire: non le bombe, non la guerra, ma un maggiore impegno di giustizia per tutti, soprattutto per i poveri della terra. Questo sarà il vero modo di costruire una pace per tutti, presente e futura.

STUDENTE: Per Lei il Cristianesimo riesce a placare l'angoscia oppure la moltiplica?

DON FORTE: Quando si incontra il Signore nella nostra vita c'è un senso, c'è una gioia molto grande. Io Lo ho incontrato quasi trentacinque anni fa e posso dire che da quel momento c'è nella mia vita una gioia più grande di tutte le inquietudini e le sofferenze. È Lui che me la dà. Però, paradossalmente, questa gioia è sempre inseparabile dalla passione, dalla lotta, dalla fatica di ricominciare ogni giorno. Io il credente lo definisco un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, che ogni giorno vive la sua lotta con Dio, una lotta che per certi versi è angosciosa, quando per esempio il dolore bussa alla tua porta o tocca i bambini, quando qualcuno che ami se ne va dalla vita visibile o, ancora, quando qualcuno subisce ingiustizia. Ebbene, l'angoscia non va esorcizzata. L'angoscia va accolta e vissuta con quella prospettiva di speranza e di amore più grande che la fede riesce a darti. Si tratta di un’esperienza da vivere come uomo di pace, in pace, ma anche inquieto e tormentato. Le due cose stanno insieme. Ma non è forse questo il paradosso dell'amore?

STUDENTESSA: Nel Gesù di Franco Zeffirelli, Egli dice : "E voi chi dite che io sono?" Simone risponde: "Io dico che Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente". E Gesù: "Per quello che hai detto, Simone, figlio di Giona, sarai per sempre beato fra gli uomini. Questa verità non te l'ha rivelata la carne, né il sangue, ma il Padre mio che è nei cieli" Ecco, Don Forte, voglio soffermare l'attenzione proprio sulla parola Messia, quanto essa è importante per il Cristianesimo?

DON FORTE: Effettivamente il regista ci descrive un Gesù troppo sdolcinato. In realtà, nelle tre redazioni di questo racconto: Matteo, Marco e Luca, c’è una tensione drammatica più forte che interessa il povero Simon Pietro, il quale aveva sognato del Messia tutt'altra cosa rispetto a quello che Gesù sta annunciando. Gesù gli dice: il Messia dovrà soffrire molto, verrà persino messo a morte rifiutato dagli uomini, tanto che Pietro chiama Gesù in disparte e gli dice:"ma sei impazzito, che stai dicendo? Io ho creduto in te perché sei il Messia, cioè uno che vince, non uno che perde". E Gesù gli risponde: "Vai via da me, Satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". Lo stesso Gesù che promette proprio a Pietro:"Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa". Abbiamo un Gesù che si svela in tutta la verità, senza celare né l'infinito dolore che per amore nostro accetterà, né la vittoria sulla morte che il Padre gli darà. Pietro Simone è umano e come tutti noi umani proietta su Gesù i suoi desideri, le sue attese. Ora il desiderio di un popolo oppresso che cos'è? La libertà. Di un popolo schiavo? La giustizia. Ecco Simone è generoso, desidera queste cose e dunque non può fare a meno di chiedersi come potrà realizzare tutto questo un Messia sconfitto. È questo che Pietro non riesce veramente ad accettare. Tuttavia è proprio da questo paradosso che Gesù trae il grande messaggio del Cristianesimo; è questo credere alla debolezza che vince la forza, la morte, che vince l'odio. È il paradosso della sapienza di Dio che si affaccia come stoltezza, ma che è più saggia della sapienza degli uomini. Tutto questo intrigo di tensione, di passione dell'amore, che forse nel film di Zeffirelli emerge un po' meno, nel Vangelo è invece preponderante, perché lì è descritta tutta la forza di questo incontro-scontro, che è poi la passione di credere.

STUDENTE: Lei non crede che la Chiesa abbia talvolta elaborato dei vincoli e dei condizionamenti che hanno imprigionato la vita dei suoi fedeli?

DON FORTE: La Chiesa ha anche il diritto e il dovere di proporre delle esigenze, perché se non lo facesse, io credo, non avrebbe nessuna dignità, nessuna consistenza. Ciò significa che se io credo in Cristo e se Egli mi ha detto: "Chi vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua", io devo cercare di vivere questo, ma devo anche dirlo agli altri. La Chiesa che è la comunità dei discepoli di Gesù non può non annunciare al mondo queste esigenze forti, spesso così costose da sembrarci quasi impossibili. Ci accorgiamo però che questa testimonianza, queste esigenze di Dio non sono accompagnate dall'annuncio gioioso di quell'aiuto, di quella grazia, che rende possibile l’amore impossibile. Allora se vediamo le due cose insieme, ovvero la Chiesa che ti chiede certamente tanto in certi momenti, ma che ti dà anche un San Francesco, una Maria Teresa di Calcutta, cioè che ti testimonia inseparabilmente il prezzo dell'amore e la possibilità dell'impossibile amore, allora forse si riesce a vedere le cose in modo diverso. Io posso dire che da tanti anni vivo intensamente nella Chiesa e posso direi che è bella, perché riesce a darmi questo incontro con Cristo che è la verità fatta persona.

STUDENTESSA: Spesso viviamo il contrasto tra quello che noi vorremmo e quello che lo spirito invece ci dice. Dunque il desiderio della carne e quello dello spirito sono diversi, anzi sono continuamente in antitesi tra di loro. Qual'è la via giusta da seguire?

DON FORTE: Chiariamo subito che cos'è la carne e che cosa lo spirito. Non sono due pezzi separati. La carne nella visione biblica, soprattutto ne Il Nuovo Testamento, è tutto l'uomo, dunque carne, ossa, sangue, intelligenza, cuore; lo spirito è tutto l'uomo aperto alla chiamata di Dio. Se si coglie questa distinzione ci accorgiamo che allora il vero problema non è privilegiare una parte dell'uomo rispetto all’altra. Quando il Signore ci chiede qualcosa che può apparirci costoso ed esigente, se è Lui che ce lo chiede allora quella è anche la nostra gioia più grande; cioè tutto il nostro essere, carne e spirito, che si realizza nell'amore. Dunque l'uomo non è un’anima che va deambulando in un corpo, ma piuttosto un essere morale che è chiamato, nella totalità del suo essere - carne, spirito, intelligenza -, a vivere una risposta al Dio vivente che lo chiama. Così come una qualunque passione amorosa ci coinvolge totalmente, altrettanto totalmente ci coinvolge quella per Dio, ma se si avverte il conflitto tra corpo e anima, allora questa esperienza non la si può vivere, perché il nostro cuore non è ancora pienamente, completamente deciso per Lui e quindi per gli altri. Allora il problema è di vincere la resistenza che è in noi, impegnandoci con più decisione verso Dio.

STUDENTESSA: Alla luce delle riflessioni che oggi sono emerse, professore, secondo Lei il prossimo millennio sarà comunque un millennio cristiano?

DON FORTE: Io sono inguaribilmente un uomo di speranza e lo sono per tre motivi fondamentali. Il primo perché credo in Dio, il Dio di Gesù Cristo. Il secondo perché conosco abbastanza la vita e la storia degli uomini per sapere che, come sosteneva il grande Giovan Battista Vico, la storia riserva sempre nuove sorprese. E il terzo motivo perché sono napoletano e Napoli nella storia è stata legata a pensatori come Vico, Tommaso d'Aquino e Alfonso Liguori che ci hanno trasmesso un senso profondo della storia. Per cui io ho un atteggiamento fondamentale di fiducia e di speranza verso il futuro. Questo però non significa che non sarà difficile, perché la vittoria del bene, della giustizia, della pace è un bene futuro arduo, ma possibile a conseguirsi. Questa è la definizione della speranza.

[Fonte: Rai Educational - "Il Grillo" del 16.01.2002]

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