Il 15 ottobre 2003, presso a Fondazione Culturale AMBROSIANEUM di Milano, si è tenuto un incontro sul tema Una vita per il dialogo. Una conversazione con Martin Buber. L'appuntamento era con HOLGER BANSE, Pastore della Chiesa evangelica di Renania. Siamo lieti di pubblicare il suo testo, grazie alla cortesia dell'Autore e dell'Arcidiocesi di Milano - Ecumenismo e dialogo.


  1. Tu e Io
2.  I primi anni a Vienna
3. La nuova casa a Lemberg
4. Alla ricerca
5. La vita è santificazione
6. La vita è dialogo
7. La vita è incontro
8. La vita è imparare ad ascoltare


1. Tu e Io      torna all'indice

Caro Martin Buber, questo colloquio con te doveva essere una conferenza, ma non sarebbe stato possibile, anche a fronte delle mie sempre più intense frequentazioni del tuo pensiero, dei tuoi libri, dei tuoi dialoghi. Come avrei potuto stendere una relazione sulla tua vita, descrivere la tua opera, offrire un rapporto dettagliato del tuo insegnamento, quando tu stesso una volta hai detto che non avevi nessun insegnamento, che semplicemente conducevi un dialogo...

Perciò questa conferenza non può che essere un dialogo, un dialogo tra te e me e un gran numero di uditori che poi forse, quando sarà il tempo, potranno partecipare al dialogo, oggi o più tardi, con tutta calma. Io so, caro Martin, che sei d’accordo con questo mio proposito. Io ti vedo, sì, sento distintamente che interrompi per un momento il tuo dialogo con Dio e con coloro che vi fanno corona intorno, per guardarmi amichevolmente: dal Regno dei Cieli, mi fai cenni, annuisci benevolo; sento che ti concedi per i prossimi minuti al dialogo con me - e non ti limiti a prestare orecchio a me, a noi; ce li presti entrambi, gli orecchi, e ancora di più: tu ti rivolgi a noi con tutta la tua attenzione, con tutto il tuo IO e noi, proprio per questo, diventiamo per te un TU, il TU che con il tuo IO costituisce la prima delle due parole fondamentali, di cui tu una volta hai spiegato l’importanza. E proprio da qui si può avvertire, e di fatto si avverte, la tua Presenza, anche se tempo e spazio ci tengono lontani. Presenza, anche se ci immergiamo nel passato: consapevoli, però, del fatto che non è la morte che impedisce la Presenza o la relazione (la vera relazione) o il dialogo, ma la perdita di relazione - che di per sé significa la morte nella vita. Ma di questo parleremo dopo più dettagliatamente.

2. I primi anni a Vienna        torna all'indice

Sì, caro Martin, occasione del nostro dialogo oggi è il tuo compleanno. Quest’anno sono 125 anni dalla tua nascita. Vieni al mondo l’8 febbraio del 1878, a Vienna. L’anno della tua nascita era già il trentesimo del regno di Francesco Giuseppe che da questa metropoli europea reggeva i destini di più di 50 milioni di persone, dei più diversi popoli, dai Balcani fino all’odierna Russia. Ma lo Stato “multietnico” pareva già nell’anno della tua nascita un vaso con parecchie crepe, tenute insieme in qualche modo con il filo di ferro. Il suo Reich si sta sgretolando: gli Ungheresi riescono a far valere i loro diritti, i Cechi ottengono il riconoscimento della loro lingua, parificata con il tedesco, scoppiano conflitti in Croazia e in Slovenia. Anche a Vienna l’industrializzazione richiede la sua vittima sacrificale: nel giro di trent’anni falliscono quasi 40.000 imprese artigianali. 

La gente cerca di prevenire come può la minaccia onnipresente. In ogni popolo dell’impero asburgico si risveglia un forte nazionalismo e con esso l’antisemitismo, causato dalla diffidenza verso tutti gli stranieri - dei quali - come spesso accade - l’ ‘Ebreo’ fornisce un ottimo emblema. L’emancipazione degli Ebrei era stata promossa dall’ influenza personale dell’ imperatore stesso e dalla sua politica egualitaria: già nella seconda metà del XIX secolo si contava un gran numero di Ebrei nella parte orientale di Vienna, tanto che in poco tempo la minoranza ebraica della città quadruplicò fino a raggiungere l’8% dell’intera popolazione viennese. Nei loro lunghi caftani, nei loro capelli particolari, con quel modo di vestirsi così fuori dal comune, gli Ebrei non potevano passare inosservati, tanto più che in alcuni quartieri raggiunsero una proporzione numerica pari a un terzo del totale. Ma non era solo il loro aspetto stravagante che metteva paura, più ancora colpiva la loro influenza sulla stampa e sulla finanza e la loro idea di vivere in modo positivo, razionale e metropolitano, atteggiamento che appariva piuttosto sospetto alle coscienze tradizionaliste viennesi.

Il contesto storico in cui capiti, dunque, è tutto fuorché tranquillo. Forse una delle cause della separazione dei tuoi genitori, avvenuta quando tu avevi appena 4 anni, può essere annoverata nell’inquietudine e nell’insicurezza dei tempi?

Parli poco di tuo padre Carl. E certo: hai potuto andare a trovarlo, nel podere che lui stesso dirigeva, solo quando avevi su per giù 9 anni, dopo una lunga separazione. Tuo padre si era risposato e si era trasferito da Vienna alla provincia di Lemberg. Stai bene con lui. E a 14 anni lasci la casa dei nonni, nuova casa tua dopo la separazione dei tuoi genitori, e ti trasferisci di nuovo presso di lui, definitivamente. E apparentemente come di nascosto, senza volerlo, tuo padre diventa il tuo grande maestro sulle questioni che riguardano il comportamento verso le cose che ci circondano. La sua pura, sincera gaiezza, che gli veniva naturale, il suo attivo, responsabile rapporto con la natura, la sua partecipazione umana alla vita degli amici, degli uomini che lavoravano per lui, dall’ affittuario al piccolo contadino, il modo in cui si prendeva cura di loro - tutto ciò ti colpisce profondamente. Da lui capisci che cosa significa il prendersi cura degli altri, di cui tu una volta scrivesti che essa è “pura, essenziale cura, quando pone l’essenza di un uomo in relazione con l’essenza di un altro uomo, quando non si limita alla mutua assistenza per correggere un difetto”. E un’altra cosa impari da tuo padre: il gusto del racconto. Perché nessuno come lui riusciva a raccontare in modo così semplice e immediato. Il puro avvenimento, senza fronzoli, l’evento che si svolgeva tra due creature umane, erano il contenuto dei suoi racconti. E ti ricordi ancora di quell’altro fatto che hai vissuto nella proprietà di tuo padre? Ti ha segnato profondamente nella coscienza. Hai 11 anni, quella volta che entri non visto nella stalla del cavallo e accarezzi il grande dorso pomellato grigio e bianco. Quindi, mentre gli gratti dolcemente la criniera, sperimenti per la prima volta l’Altro che ti si offre immediatamente nel suo TU.

Il rapporto con tua madre Elisa si svolge invece in modo meno fortunato. È una profonda delusione per te. Ami tua madre: quando se ne va, speri in un prossimo ritorno. Non puoi credere alle tue orecchie, quando una ragazzina più grande di te ti dice: no, lei non tornerà mai più. La vedrai ancora una volta, nel 1911, quando con le sue due figlie (anche lei si è risposata nel frattempo) giunge da S. Pietroburgo per vederti e conoscere la tua famiglia. Quando più tardi ripensi a questa visita, comprendi che non si è trattato di un incontro. Così crei un neologismo: “disincontro” (Vergegnung). Come deve essere stata triste quella visita, dal momento che tu sentivi che anche allora tua madre non ti stava realmente incontrando e che forse non voleva nemmeno farlo... Ma attraverso questa esperienza negativa, di non accettazione, di rifiuto nei confronti del tuo essere, del tuo volere, dei tuoi desideri e sentimenti, nasce in te l’idea fondamentale a partire dalla quale hai poi determinato, nel corso degli anni, la definizione di vero incontro.

La ricerca della madre ti ha accompagnato, la ricerca di una relazione autentica.

Forse, anche se sei solo un bambino di tre anni, riesci a capire quanto sia difficile la relazione tra i tuoi genitori, anche se in casa non si dice niente; ma tu lo sai, non si comunica solo ciò che si dice esplicitamente: anche i sentimenti, soprattutto quelli inconfessati, trovano la loro via espressiva. E forse è proprio a tre anni che la vicenda dell’infelice rapporto dei tuoi genitori lascia in te una traccia ben distinta. Forse è così che nasce, come una pellicola al negativo, ciò che si svilupperà in forma positiva, il tuo tema vitale che non ti lascerà mai più.

3. La nuova casa a Lemberg       torna all'indice

Ma come comunque sia, proseguiamo. Quando tua madre se ne va, tuo padre decide di affidarti alle cure dei tuoi nonni che abitano a Lemberg, a quasi 800 km da Vienna. Lemberg era austriaca dalla prima secessione dei Polacchi del 1772 e rimase la capitale della Galizia asburgica fino al 1918. Era la più orientale delle città mitteleuropee. Qui si incontravano le più svariate culture e confessioni religiose dell’Europa occidentale e orientale che diedero vita a una simbiosi creativa. Nel 1918, tu allora stavi già a Heppenheim, i Polacchi e gli indipendentisti ucraini ingaggiarono una battaglia in città. Ne pagarono le conseguenze i molti cittadini ebrei che vennero considerati politicamente sospetti.

Nell’autunno del 1938, l’anno in cui tu lasciasti la Germania per raggiungere Gerusalemme, Lemberg divenne sovietica, in conseguenza del patto tra Hitler e Stalin. Anche se gli Ebrei erano stati vittime di numerose persecuzioni da parte dei Sovietici, i Polacchi e gli Ucraini li considerarono comunque collaboratori del regime comunista.

E dalla Palestina avrai udito ciò che accadde il 30 giugno 1941, era un lunedì: una divisione tedesca dei “cacciatori delle Alpi” attaccò la città. Trovano in tre carceri 4000 prigionieri uccisi dai sovietici. Con l’appoggio delle truppe tedesche un battaglione di Ucraini, aggregati ai tedeschi e forniti di uniformi tedesche, con il nome di “Nachtigall” (‘Usignolo’) organizza un pogrom contro gli Ebrei della città. Si giunge a terribili violenze e uccisioni. Le truppe tedesche assicurano le prigioni e controllano le uscite, mentre gli Ucraini costringono gli Ebrei a strisciare in ginocchio sui cadaveri e lavarli. Donne e ragazze ebree devono prima spogliarsi. Compiuto questo terribile lavoro, i soldati ucraini si schierano in due file al comando dei tedeschi e spingono in mezzo gli Ebrei, infilzandoli e pungolandoli con le baionette. Molti Ebrei vengono uccisi. Seguono ulteriori abusi su Ebree ed Ebrei. Quando il 2 luglio la prima Divisione Cacciatori di Montagna lascia la città verso oriente, 4000 Ebrei di Lemberg sono caduti nel pogrom.

Ma torniamo alla tua biografia. Lemberg diventa la tua nuova casa, tuo nonno Salomon ti fa da padre. Tuo nonno è consigliere della Camera di Commercio e direttore di due banche. Da molto tempo è preposto alla comunità religiosa israelitica di Lemberg. Contemporaneamente però, e questo è proprio il fulcro delle sue attività, è uno dei più grandi conoscitori e interpreti del midrash. In lui confluiscono le tradizioni talmudiche dell’Europa orientale e occidentale, insieme a una conoscenza straordinaria della lingua ebraica che egli ama intensamente, e che utilizza nello scritto e nel parlato con una competenza superiore a chiunque altro.

Dal canto suo, caro Martin, imprime il suo stampo su di te e sull’argomento della tua vita, tua nonna Adele, con la sua profonda, pura e emotiva sensibilità. Tanto tuo nonno è un filologo nel senso etimologico del termine, quanto tua nonna incontra la parola in un amore puro e devoto. Non lo dimenticherai mai.

Non hai nemmeno dimenticato la comunità chassidica di Sadagora, vicino a Lemberg. Ti ci hanno portato i tuoi nonni. E quando vedi il Rabbi che danza con la Torah tra le braccia, in mezzo ai discepoli in èstasi, prende forma in te l’idea che “il rispetto e l’intima gioia l’uno dell’altro sono i fondamenti dell’autentica comunità umana”. Qui, nello scenario dei Carpazi, nel XVIII secolo sorse un centro del chassidismo, quella variante orientale della mistica ebraica che declina sulla gioia in Dio una devozione per il mondo, affermando il mondo così come è, perché Dio è contemplabile e riconoscibile nel mondo, in ogni cosa del mondo, e raggiungibile tramite ogni azione pura. Al tempo della tua infanzia, è rimasta solo una parte della grandezza originaria dei chassidim. Eppure esisteva la comunità chassidica e l’esperienza di essa ha contribuito a far crescere in te un seme di fede vitale e decisiva.

Fino ai 10 anni tua nonna si occupa della tua istruzione con lezioni private. Parli già tedesco, ebraico, yddish, inglese, francese e italiano. A 14 anni frequenti il ginnasio polacco, impari la lingua del locale e, attraverso la letteratura polacca, accedi all’universo culturale slavo. Le lingue, nelle loro diverse tonalità, e la filosofia, sono per te stabili compagni di viaggio, fin dalla giovinezza.

4. Alla ricerca    torna all'indice

A 18 anni ritorni a Vienna per iscriverti all’università, è l’autunno del 1896. Ti cali nel superficiale salotto culturale di una Vienna borghese e antisemita un po’ troppo ben disposta, verso la fine del secolo, ad accordare tutto il reale sulle note del romanticismo. Il mondo dell’ebraismo, il suo spirito e la sua religiosità, si appannano ai tuoi occhi. Studi filosofia, soprattutto lo Zarathustra di Nietzsche, e frequenti seminari di storia dell’arte. All’università sperimenti un approccio al sapere del tutto diverso rispetto a quello a cui eri abituato a scuola: non c’è più una disposizione frontale tra insegnanti e alunni, l’università promuove il libero rapporto tra professori e studenti e l’interpretazione in comune dei testi, già, attraverso l’umiltà degli insegnanti universitari che si mettono sullo stesso piano degli studenti. Sperimenti “lo scambio di domande e risposte liberato dall’usuale conformismo scolastico; tutto questo ha rivelato, più intimamente di qualunque lettura libresca, la realtà propria dello spirito come un ‘tra’ (Zwischen)”.

E mentre hai potuto scoprire da tua nonna l’amore per la parola, durante le tue numerose puntate al Burgtheater entri in contatto con il fascino della parola proferita “con esattezza” e con il suo immenso potere.

Un anno dopo ti trasferisci a Lipsia per proseguire i tuoi studi. Accanto alla filosofia e alla storia dell’arte, ti appassioni alla musica di Johann Sebastian Bach. Inoltre la lettura del libro Modernes Judentum di Mathias Achers ti indirizza verso il sionismo. A Lipsia fondi un gruppo locale sionista e un’unione di studenti ebrei.

Nell’estate del 1899 ti troviamo all’università di Zurigo, alla ricerca della tua via, preso tra filosofia, filologia, germanistica, storia dell’arte, storia della letteratura e perfino psichiatria e economia.

Improvvisamente però, complice l’amicizia del socialista Gustav Landauer, che doveva diventare una delle figure più importanti della tua vita, fino alla sua morte violenta, ti immergi nella mistica del Rinascimento e della Riforma. Approfondisci soprattutto il pensiero di Nicola Cusano, di Paracelso e di Jacob Böhme.

In questo periodo si svolgono i primi congressi sionisti, segnati in modo molto netto dalla posizione di Theodor Herzl circa il progetto di acquisizione di un’unità nazionale e statale. Il vòrtice di questo movimento ti investe in pieno, e gradatamente vi rintracci i temi nei quali sei cresciuto e che diventeranno i temi della tua vita.

Allo stesso tempo però sviluppi degli argomenti che si conciliano poco con quelli di Herzl, perché diversamente da lui ti orienti verso l’idea biblica del popolo di Dio. Così scriverai più tardi: “La coscienza nazionale da sola non cambia l’uomo ebreo: può essere pieno di forza ma nello stesso tempo povero d’ anima sia con essa (coscienza nazionale) che senza di essa. Ma a chi la coscienza nazionale non sarà solo un accontentarsi ma una carica, non un arrivo nel porto, bensì una partenza per il mare aperto, a tutti coloro si può indurre un cambiamento”. Nelle tue riflessioni sul sionismo, sostituisci l’idea nazionalistica di Herzl con un elemento messianico-teocratico, quando scrivi: “Il sionismo è coscienza dell’unicità... Esso peraltro non è legato ad un determinato luogo geografico, che si chiami Canaan o Palestina, bensì esso fin dai tempi più remoti è un nome che indica qualcosa che in un luogo geografico deve ancora nascere, o come dice la Bibbia: l’avvento della regalità di Dio su tutti i popoli”. Il sionismo era un movimento strettamente legato alla persona di Herzl, ed è giusto dopo la sua morte che vi aderisci in modo definitivo: attraverso di esso riscopri l’essenza dell’ebraismo e ti rammenti della lingua che tramandò l’ebraismo lungo i secoli, l’ebraico, che ti era cresciuta nel cuore a casa dei tuoi nonni. È il periodo in cui si affaccia per la prima volta l’intenzione di tentare una nuova traduzione delle Scritture.

5. La vita è santificazione     torna all'indice

Così, attraverso la nuova immersione nella letteratura e nella tradizione dell’ebraismo, scopri gli scritti del grande Rabbi Israel che gli amici e i discepoli chiamavano Baal Shem Tov, vissuto 250 anni prima. Hai 26 anni, e per un po’ di tempo ti sottrai alle attività del sionismo per dedicarti agli studi chassidici: raccogli e leggi qualunque scritto abbia a che fare con il chassidismo che qualche volta trovi anche solo per caso. Sistemare i testi, tradurli, interpretarli e pubblicarli diventano le tue attività principali.

Nel 1905 ti trasferisci a Firenze, dove rimani per due anni. Ti appassioni del modo italiano di vivere. Qui riscopri il teatro e ti infiammi per Eleonora Duse. Purtroppo oggi a Firenze le tue tracce non si trovano più.

Quando nel 1928 presenterai la prima grande raccolta di testi chassidici, le cui fondamento avevi posto a Firenze, ripenserai con soddisfazione al primo periodo della tua vita, che iniziava a partire dal 1904 con la riscoperta del chassidismo. Certo, questa riscoperta non poteva che essere un ricordo della comunità chassidica vicino a Lemberg, ma studiando questa religiosità ebraico-orientale, fai tu stesso l’esperienza, profondamente religiosa, di Dio che abita nel tuo, nel nostro mondo. Ti accorgi dell’immanenza di Dio in tutti gli eventi, in tutta la creazione e contemporaneamente sai che Dio non si confonde con il mondo, non si disperde in esso, perché lui è nel mondo ma insieme è il trascendente. E così, come aveva detto il Baal Shem Tov, bisogna comprendere che in ogni vivente c’è una vita santa e che tutto può essere ricondotto a questa radice, tutto può essere santificato. Questo è il compito dell’uomo: unificare ogni cosa del mondo nel divino. Unificare significa santificare. Ogni azione, ogni attimo rende possibile la santificazione. La santificazione causa la redenzione. E colui che santifica rende libero, libera dal mondo. Con questi pensieri fondi un’etica che attribuisce un straordinario significato all’attimo presente, al qui e ora in cui vive l’uomo attribuisci di poter essere considerato santo, e di considerare questa azione nell’attimo come santa. Significa: liberare l’ attimo e l’azione dalla morsa mondana, dalla profanità, dalla banalità e dalla disattenzione dimenticata di Dio, per liberarli e redimerli.

La meditazione mistica si è sviluppata molto rapidamente nell’ebraismo post-biblico. Accanto all’ insegnamento della Torah, che aveva il suo ambito nel culto, nella celebrazione, nel servizio di Dio, nacque l’ interpretazione della Torah, una sorta di teologia speculativa, di cui solamente i rabbini potevano occuparsi. Qui si sviluppa la kabbalah, una tradizione mistica segreta, solo in epoca tarda fissata per iscritto, che sapeva dall’ interazione del mondo superiore e del mondo inferiore e che guidava il fedele, per numeri e lettere, verso la riunificazione di queste due mondi. Kabbalah e tradizioni popolari sono per te, Martin, i fondamenti del chassidismo. Ma da quest’ultimo non è possibile trarre un insegnamento specifico: no, per te il chassidismo “non è una dottrina ma uno stile di vita, e uno stile di vita, che seguendo questo stile di vita costruisce comunità, uno stile di vita che nella sua essenza è l’ unico possibile per la vita in comunità”. Il chassidismo per te è vita, ethos, una prassi di vita, come quella messa in atto dal Baal Shem con i suoi allievi. Per lui la vita era un dialogo fatto di domande e risposte: rivolgersi e essere interpellato, rispondere e ricevere risposta. Per questo tu affermi che l’essere dell’uomo significa essere chiamato, e ti riferisci in primo luogo all’essere-chiamato da Dio.

Dio parla agli uomini in modo molto concreto: la creazione stessa è discorso, è linguaggio. La voce di Dio irrompe nel nulla e le cose rispondono nascendo. Così la vita di ogni creatura è un dialogo, la vita è parola.

Non ti stanchi, all’interno di queste riflessioni, di ripetere un’affermazione per noi inaudita e piuttosto sconvolgente: e cioè che il pericolo originario e la più grande tentazione per gli uomini è la religione. Spaccare il mondo in due parti: qui la parte del culto e del sacramento, con tempi e luoghi santi, là il profano, il mondano, la vita normale e condizionata di tutti i giorni - questa è, nelle tue parole, un atto di separazione (Ablösung). Dio viene deviato, rinchiuso in un ghetto. “La vita del mondo e il servizio di Dio scorrono slegate l’una dall’altra, qui, come parallele; ma il Dio di questo servizio non è più Dio, sembra averne solo le fattezze - il vero compagno di viaggio dell’uomo non è più lì... l’anima vorrebbe avere a che fare solo con Dio, come se Egli volesse che l’amore si esercitasse solo per Lui e verso di Lui e non per il Suo mondo... Il vero cammino dell’uomo con Dio non ha solo il suo ambito nel mondo, ma in esso trova anche il suo oggetto. Dio si rivolge all’uomo nelle cose, nelle essenze che gli invia nella vita; l’uomo risponde attraverso il suo atteggiamento verso di esse. Ogni autentico servizio di Dio è in questo senso solo la sempre rinnovata preparazione, la santificazione di questo cammino con Dio nel mondo”. Con ciò non vuoi dire che l’uomo si trova ad avere a che fare solo con il mondo. No, il vero e unico partner dell’uomo è solo Dio, perché Egli, Dio, abita nel mondo - e però non come un’idea oggettiva o come una “cosa”, bensì “nel tocco concreto con l’uomo il mondo di volta in volta trova una dimensione sacra”. Là dove avviene nel mondo l’ incontro concreto, là dove l’ uno tocca l’ altro, l’ altro in senso esistenziale, là c’è Dio, là Dio è presente, e allora avviene la santificazione e la redenzione. Questa è, nelle tue parole, l’unificazione, il ricongiungimento di ciò che era unito dalle origini. E tu concluderesti che questa unificazione, questa redenzione può avvenire nelle cose più profane che fai tutti i giorni, se le fai in santità. Così tutti i comportamenti possono diventare servizio di Dio, sì, devono diventarlo. E qui si esplicita una caratteristica essenziale del chassidismo: l’azione dell’uomo acquista senso solo nella misura in cui essa è compiuta nel pieno fervore e con l’impegno di tutte le forze del corpo e dell’anima, perché lo scopo della vita è l’unificazione di Dio con il mondo. Così narra una leggenda del patriarca biblico Enoc: Enoc era un ciabattino: ad ogni colpo del suo ago, cucendo insieme suola e tomaia, univa Dio e la sua Shekinà. Per tutto questo risulta chiaro come la mistica chassidica non sia affatto un distacco (Abkehr) dal mondo, ma al contrario un perseverante rivolgersi (Hinkehr) ad esso: non contemplazione, ma la più alta e concreta delle azioni.

Un’azione, proprio perché concreta, non può essere limitata al singolo, ma è relativa a un insieme di persone, a una comunità. Questa comunità però ha bisogno di un’autorità, lo zaddiq. Quante volte ti sarai ricordato dello zaddiq che avevi visto insieme ai tuoi nonni, di come ballava tra i suoi chassidim con i rotoli della Torah tra le braccia, rapito dalla gioia in Dio e insieme così vicino, infinitamente vicino agli uomini che stavano intorno a lui. Lo zaddiq è il modello, su di lui si orienta tutta la comunità e ogni singolo membro di essa. Egli è la personificazione dell’insegnamento, come hai detto tu una volta. Come potrebbe, questa armonia tra Dio e l’uomo, questa santificazione quotidiana, questa redenzione, dottrina della pienezza della vita umana, esprimersi meglio che nel canto “Tu” che hai colto dagli aneddoti del Rabbi di Berdičev?

Se vado - tu!
Se resto - tu!
Solo tu, ancora tu, sempre tu!
Tu, tu, tu!
Sto bene - tu !
Sto male - tu!
Tu, tu, tu!
Cielo - tu! Terra - tu !
Sopra - tu! Sotto - tu!
Dove mi giro, dovunque miro
Solo tu, ancora tu, sempre tu!
Tu, tu, tu!

 

6. La vita è dialogo      torna all'indice

Chi dice TU conosce il suo IO. Chi dice TU entra in un colloquio, in un dialogo. Ricordati, Martin, della tua sorpresa, quando ai seminari dell’Università di Vienna ti aspettavi la “dottrina” e ricevesti il dialogo, la comune ricerca della verità. Domanda e risposta, come nella comunità chassidica. Là non c’era semplicemente la somma delle voci, la comunità nasceva proprio dall’intreccio dialogico tra chassid e zaddiq. E ora, sullo sfondo di quella esperienza, e dei molti incontri e dialoghi che intrattieni, come per esempio quelli all’interno del gruppo di Landauer (dove tra l’altro maturi la tua avversione per la guerra, tu che prima ti saresti volentieri arruolato, da patriota tedesco, per la prima Guerra Mondiale), si sviluppa in te il tuo secondo grande tema: cresce come un germoglio fino a raggiungere la forma definitiva, quella che una volta verrà chiamata “la rivoluzione copernicana del pensiero moderno”: il principio dialogico. Scrivi da qualche parte che già dalla giovinezza era preponderante in te l’interesse per una “relazione dialogica tra uomo e Dio, come un rapporto libero dell’uomo nel dialogo tra cielo e terra, la cui lingua fosse il medesimo avvenimento nel rivolgersi e nel rispondere, lo stesso avvenimento dall’alto al basso e dal basso all’alto”; sì, già dai tuoi primi approcci eri alla ricerca di una risposta.

Ciò che cerchi di abbozzare in qualche modo nel 1916, lo definisci in modo più programmatico nel tuo libro L’io e il tu, che compare nel 1923. Questo libro diventa il fondamento di tutti i tuoi lavori successivi. Tutto ciò che in seguito scrivi di argomento filosofico o pedagogico, o tutto ciò di cui ti occupi, risulta essere alla fine un commento ai principi delineati nel 1923 o risposte a domande che ti si pongono a partire da quello scritto. L’io e il tu si basa sull’esperienza fondamentale della tua vita: “L’essere-uomo significa l’essere quello che sta di fronte”. In L’io e il tu dici - e io cerco di riassumerlo con poche parole, anche se so che ce ne vorrebbero molte di più - che sostanzialmente l’uomo può comportarsi solo in due modi. Si tratta di due categorie morali, che corrispondono a due parole fondamentali: IO-TU e IO-ESSO (Ich-Du e Ich-Es). Il tuo comportamento dipende dal fatto nel quale delle due parole fondamentali il tuo IO si trova, o nel IO-TU o nel IO-ESSO. IO-TU e IO-ESSO non sono semplicemente due coppie di parole, no: ciascuna è una parola, distinta dall’altra, e indivisibile nei suoi elementi: la parola IO non esiste isolatamente, come se fosse un termine unico, non c’è nessun IO in sé e per sé. IO descrive sempre un orientamento, una relazione, o nei confronti di un TU, oppure, ma in senso diametralmente opposto, nei confronti di un ESSO (che può essere anche un EGLI o un ELLA).

Da IO-TU procede una relazione personale: quando dico TU, allora affermo la persona alla quale dico TU, mi accosto ad essa, a questo TU, in una relazione. L’ESSO può valere solo come un qualcosa, un oggetto, verso cui io mi comporto come un soggetto, ma mai come persona. IO-TU si pronuncia con tutto il proprio essere: quando pronuncio questa parola fondamentale, ci sono con tutto il mio essere. Un ESSO, invece, lo contemplo, lo assumo obiettivamente, in modo neutrale, da spettatore: non mi rivolgo direttamente a lui, ne posso parlare ad altri in terza persona.

Il mondo dell’ESSO è il mondo dell’esperienza (Erfahrung), sia quella esterne, sia quella interne e quelle segrete. Io so delle cose, so che esistono, ne faccio l’esperienza, ne so la condizione e come funzionano, so come usarle e sì, le devo usare per mantenermi in vita.

L’IO-TU, al contrario, fonda il mondo della relazione, un mondo che include la vita della natura, degli uomini e degli esseri spirituali, perché con tutti io posso entrare in relazione: posso dire TU a un albero, anche se in modo diverso che a un uomo.

Il mondo della relazione è il mondo dello spirito. Spirito è la parola fra l’IO e il TU. Così l’essenza autentica della relazione avviene nel tocco tra l’IO e il TU. Perché solo toccando prendo parte alla realtà, al presente, vivo il presente, vivo realmente, tanto più compiuta è la mia partecipazione alla relazione, tanto più immediato è il tocco del TU.

Il tu mi incontra per grazia - non si trova nella ricerca. Ma è un’azione del mio essere, una mia azione essenziale, che io gli rivolga la parola fondamentale. (...) Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere. (...) Divento io nel tu; diventando io, dico tu.

Ogni vita reale è incontro.

La relazione al tu è immediata (...). Tra l’io e il tu non vi è alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione (...). L’incontro avviene solo dove è caduto ogni mezzo”.

Nell’incontro immediato dell’IO con il TU, si apre lo spazio dell’amore. Amore che è da distinguere dal sentimento: “I sentimenti sono <posseduti>, l’ amore fluisce. I sentimenti dimorano nell’uomo; ma l’uomo dimora nel suo amore. (...) L’amore non è attaccato all’io, come se per l’amore il tu non fosse che il ‘contenuto’, l’oggetto; l’amore è tra l’io e il tu. (...) L’amore è responsabilità di un io per un tu” .

Nonostante tutto ciò, comunque, sei realista nel valutare l’instabilità e il cambiamento interni alla stessa relazione: “Nel fatto che ogni tu nel mondo debba diventare un esso, sta la sublime malinconia della nostra sorte. Per quanto il tu fosse presente in modo esclusivo nella relazione immediata, appena essa ha smesso di operare, o è stata interrotta da un mezzo, il tu diventa oggetto tra gli oggetti, forse un oggetto rilevante, e tuttavia sempre uno di essi, determinato e limitato”.

D’altronde in un altro punto aggiungi che il singolo ESSO può ridiventare in ogni momento TU, quando si instaura un nuovo circolo di relazione. “Ogni relazione reale nel mondo si compie nello scambio di attualità e latenza, ogni isolato tu deve trasformarsi nella crisalide dell’esso, per poter di nuovo mettere le ali. Ma nella pura relazione la latenza è soltanto il prendere fiato dell’attualità, in cui il tu rimane presente”.

Vivere nella relazione IO-TU esige presenza, esige l’esserci qui e ora. Ma non si può vivere nel mero presente: si rimarrebbe consumati. Allo stesso modo nessun uomo può vivere senza ESSO, ma chi vive solo con l’ESSO, vive solo e, in fin dei conti, non è un uomo.

Oltretutto, tu non limiti al solo piano interumano la relazione che si sviluppa dall’IO al TU, perché per te è chiaro che in ogni TU noi ci appelliamo all’Eterno. Dove si realizza in modo autentico la relazione IO-TU, là c’è relazione, incontro con Dio. La rivelazione di Dio dunque, e ancora di più Dio stesso è presente con il TU in quanto TU presente. Per questo a rigore non si può parlare di ricerca di Dio: “perché non c’è nulla in cui non lo si possa trovare”. Perciò non c’è un luogo specificamente dedicato a Dio, né un determinato tempo apposta per lui: né spazio né tempo lo santificano. Qui ripeti l’ idea già pronunciata prima: Dio non è emarginato in un angolo di essere, né in un ambito religioso: è presente in tutta la normalità della vita quotidiana. Nella relazione tra gli uomini trovi il simbolo più adatto per mostrare la relazione con Dio, perché qui accade il vero appello, la vera risposta. “Non si compie la parola di colui che vuol parlare con gli uomini”, hai detto una volta,“se egli non parla con Dio; e si smarrisce la parola di colui che vuol parlare con Dio, se egli non parla con gli uomini”. Nonostante ciò, occorre distinguere il TU della persona di fronte dal TU eterno: quest’ultimo non conosce né misura né limite, non potrà mai diventare un ESSO, è di per sé totalmente TU - è per questo che non si può fare esperienza del TU eterno come se fosse un oggetto fra i tanti. E però noi spesso cadiamo nell’errore di ridurre il TU eterno a un ESSO, oggettivandolo in una credenza religiosa o in un culto.

Se io ora ti chiedessi su che cosa si basa la relazione IO-TU e che cosa si debba fare affinché il dialogo si mantenga nella direzione dell’IO-TU e non in quella dell’IO-ESSO, tu risponderesti che bisogna volgersi verso l’altro. Il rivolgersi del corpo e dell’anima fa sì che una persona si renda presente nella sua disponibilità - e questo rivolgersi è la premessa fondamentale per il dialogo, per l’incontro. Quando mi rivolgo a un TU, allora accedo alla relazione IO-TU. Questo però vale fintanto che mi rivolgo al TU in un dialogo autentico, perché un dialogo è in grado anche di adulterarsi e degenerare da sé. Tu parli di tre modalità di dialogo: “Quello autentico - non importa se parlato o silenzioso - in cui ciascuno dei partecipanti intende l’altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge loro con l’intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocità; quello tecnico, proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in cui due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover contare solo su di sé.

L’atteggiamento fondamentale del monologo non è il distogliersi opposto al rivolgersi, ma è - come dici tu - il ripiegamento, nel quale ci si sottrae all’appello dell’altro, al TU dell’altro, al suo essere, alla sua anima, usando l’incontro, l’esserci, il TU dell’altro solo come una proiezione di sé e una propria esperienza.

7. La vita è incontro     torna all'indice

Abbiamo tralasciato per un po’ la tua biografia, perché il cammino del chassidismo sulla via del dialogo tra l’IO e il TU risultava evidentemente inscindibile dalla tua vita. D’altra parte che cosa sarebbero stati i tuoi pensieri se le relazioni autentiche di cui tu parli non fossero state anche vissute, così come hai potuto conoscere in prima persona i chassidim, durante la tua infanzia? Ed ecco che già nel 1899 conosci a Zurigo Paula Winkler, studentessa di germanistica, che sposerai ben presto. È di fede cattolico-romana e ha un anno più di te. Ha grandi capacità espressive e un notevole talento poetico e scrive un ciclo di romanzi con lo pseudonimo di Georg Munk. Deve aver collaborato anche alla redazione di alcune tue storie chassidiche. In seguito vi nascono due figli: Raphael (nel 1900) e Eva (nel 1901), a cui si aggiungeranno le vostre nipotine Barbara e Judith, figlie di Raphael, che verranno a stare con voi nel 1928. Pare che tra voi due fosse Paula la personalità più forte, più matura. Nei primi anni della vostra vita insieme, Paula si converte all’ebraismo, prendendo così parte in tutto e per tutto ai tuoi pensieri - trascinata nel vortice dell’anelito interno al popolo ebraico. Finalmente, in Paula, come scrivi una volta, trovi la madre che cercavi, dall’abbandono di tanti anni prima. Paula ti cambia, con lei cresci, diventi più coraggioso, più determinato, più forte e saldo. È lei l’incontro decisivo della tua vita: il tuo pensiero dialogico è comprensibile solo sulla base del tuo matrimonio con Paula, lei è il tuo vero “prossimo”, il tuo “altro”, il ‘di fronte’ a te, il tuo TU. L’amore, il matrimonio e il “cameratismo” con Paula danno solidità e concretezza alla realtà fondamentale del dialogo, alla conferma reciproca e all’incontro. Nella dedica al tuo libro Dialogo (Zwiesprache) scrivi:

A P.
La notte dell’abisso e la luce dei mondi,
angoscia del tempo e desiderio di eternità,
visione, evento e poesia:
era ed è dialogo con te
.

Così come Paula si confrontava con la tua tradizione religiosa, allo stesso modo hai fatto tu con la sua. C’era dialogo tra di voi, un dialogo autentico, essenziale, che rispettava attentamente le reciproche origini e che si concretizzava in una convivenza armoniosa. Già dal tempo dei tuoi studi scolastici e universitari, in cui ti sei spesso confrontato con la tradizione teologica cristiana, incomincia a maturare nell’intimo un dialogo tra due fedi, quella ebraica e quella cristiana. La tua assidua frequentazione dei testi di mistica cristiana e l’amicizia con Flores Christian Rang, un ex pastore protestante, giurista e membro del gruppo di Landauer, stanno alla base di questo dialogo, nel quale tu metti in risalto con delicatezza analogie e differenze e dai inizio ad un confronto tra le due confessioni religiose, che fino ad allora era inimmaginabile, e che diventerà il punto di riferimento fisso per il dialogo tra Cristiani ed Ebrei fino ai nostri giorni.

Tu vedi realizzata, ancora nei inizii del cristianesimo, una delle idee fondamentali dell’ebraismo, vale a dire il fatto, l’azione come centro del vissuto religioso. Per questo tu dici che tra cristianità nei sui primordi e l’ ebraismo di base non c’ erano delle differenze. In un secondo momento, sotto influsso della filosofia greca, i sentieri della religione cristiana avrebbero lasciato il cammino comune: dapprima il cristianesimo avrebbe soppiantato l’azione con la fede, per poi spostarla al centro del suo sistema religioso. Chiaro esempio di ciò è per te la fede cristiana nel figlio di Dio richiesta dai cristiani: mentre la predicazione di Gesù si inserisce nella genuina tradizione ebraica, affermando che ognuno avrebbe potuto diventare figlio di Dio, attraverso una vita vissuta nell’amore per Lui, la cristianità formulò il principio secondo il quale solo la fede nell’unigenito figlio di Dio dona agli uomini la vita eterna. Rimane ben poco di ebraico, in questa interpretazione, della vita dell’ebreo Gesù: il credo ecclesiastico non riguarda più l’uomo-Gesù, ma solo l’incarnazione del Verbo. “Gesù”, così tu scrivi “fin dalla giovinezza l’ho percepito come un mio grande fratello. Il fatto che la cristianità l’abbia riconosciuto e lo riconosca come Dio e Salvatore mi è sempre sembrato degno della più alta considerazione (...) Il mio stretto legame fraterno con lui è diventato sempre più forte e puro (...). Sono più che mai convinto che a lui si possa attribuire un grande posto nella storia della fede d’Israele che questo posto non possa essere definito da una delle solite categorie” . Nelle tue parole emerge anche, e in modo deciso, la tua profonda avversione, nei confronti del proselitismo, per ogni tipo di missione in ogni epoca. Per te la missione è il misconoscimento dell’altro, la cui religione, nella migliore delle ipotesi, è considerata inferiore rispetto alla propria. Riconoscendo al massimo la religione dell’ altro seconda si pone in questione il rapporto originario di Dio con gli uomini e nessuna intesa può darsi, nessun dialogo.

In un altro momento ribadisci che l’ebraismo conosce solo l’immediatezza del rapporto tra la creazione, gli uomini, e Dio. È nella creazione che egli si rivela, occorre riconoscerlo qui, perché qui la divinità è da santificare, da redimere. La storia del mondo è un dialogo tra Dio e la sua creatura; un dialogo in cui l’uomo è partner di Dio in modo puro e immediato, senza nessun frammezzo; un dialogo in cui l’ uomo ha il diritto e il potere di dire la sua stessa autonoma parola .

Peraltro l’ebraismo manca di una propria apocalittica, nel senso che manca una tradizione originaria che prevede la fine del mondo in un evento futuro, indifferibile e concreto. La religiosità ebraica non promette nessuna abolizione (Aufhebung), nessun svincolamento da questo mondo malvagio verso un altro del tutto diverso e perfetto, bensì spera nel compimento della creazione, nella santificazione, nell’adempimento della volontà di Dio in questo mondo. Ciò significa redimere il mondo senza spezzarne la continuità. Perciò l’uomo in ogni tempo e in ogni luogo è chiamato a partecipare all’opera della creazione. Ed è per questo, inoltre, che un Ebreo non può riconoscere in Gesù il messia, tanto più che il mondo è rimasto irredento anche dopo la venuta di Gesù. Credere nel messianismo come in qualcosa che sia già avvenuto una volta per tutte, andrebbe contro al più intimo senso della passione messianica dell’ebraismo, secondo la quale l’Ebreo, in ogni istante, in ogni situazione, contribuisce alla salvezza del mondo. Questa sarebbe stata anche la fede di Gesù: così tu non credi in Gesù, ma credi con lui, e in fondo sei convinto che il mistero di Dio, quando ci sarà rivelato alla fine, scioglierà tutte le domande circa il rapporto tra Dio e gli uomini, e scioglierà anche quelle le cui risposte oggi, nella loro contrapposizione, tengono distanti Ebrei e Cristiani.

8. La vita è imparare ad ascoltare       torna all'indice

L’intensità delle tue riflessioni ci ha già distolto ancora parecchio dalla traccia della tua biografia. Si susseguono periodi di soggiorni a Berlino, Vienna, Zurigo, Praga, Francoforte. Studi, conferenze, scritti e pubblicazioni riempiono il tempo. Nel 1919 viene fondata a Francoforte il primo Centro di Studi Ebraici (Jüdisches Lehrhaus), tu ne fai parte fin dall’inizio. Nel frattempo avevi comperato una casa a Heppenheim. Ti trasferisci là, nel Palatino presso la Bergstrasse, perché Berlino è diventata insopportabile nella sua frenesia e nel suo assetto da guerriglia. Nel 1923 assumi l’incarico di docente di Scienze Religiose e Etica Ebraica presso l’Università di Francoforte, cattedra che era riservata a Franz Rosenzweig, che però dovette declinare a causa della sua grave malattia. Proprio con lui, il filosofo esistenzialista, grande conoscitore dell’ebraismo e autore del monumentale libro La stella della redenzione, incominci due anni dopo la traduzione in tedesco della Bibbia ebraica. Da lungo tempo meditavi a qualcosa del genere, ma fino ad allora pensavi a una variante ebraica della versione luterana, ma già dal primo approccio al testo, quando ti trovi a confrontare la prima parte della Genesi con la traduzione di Lutero, diventa tutto chiaro: non ci si può limitare a un semplice adattamento della lingua, tutto deve essere detto in modo diverso, perché tu non vuoi “ricondurre a un rotolo del Libro, o alle tavole di pietra (...), ma alle parole nel loro essere pronunciate”. Per te la Bibbia è uno straordinario documento del stare di fronte tra Dio e l’uomo. La storia che è narrata nella Bibbia è un unico dialogo di Dio con l’uomo. La Bibbia è un immediato rivolgersi di Dio all’ uomo che non si può sacrificare a vantaggio della comprensibilità. Solo attraverso il ricorso alla lingua parlata è possibile far rivivere il linguaggio di una tradizione religiosa che veniva originariamente trasmessa soprattutto attraverso l’oralità - questo significa far capire un messaggio che è stato costruito attraverso la parola viva. È per questo che tu non parli di “libro”: il libro è voce. Non dobbiamo imparare a leggere, dobbiamo piuttosto imparare ad ascoltare. Quando Rosenzweig muore a Francoforte, il 10 ottobre del 1929, avevate appena concluso il Canto del servo del Signore del profeta Isaia. Prosegui tu da solo per altri trent’anni. La traduzione terminata compare in 4 volumi nel 1962.

A Heppenheim fondi una variante ebraica dell’università popolare. Nell’ottobre del 1933, prima che ti venisse negato dai nazisti il diritto di insegnare all’università, ti dimetti per tua libera scelta. Così hai più tempo da dedicare al tuo progetto per una istruzione per adulti ebraici, perché “La prima cosa di cui un Ebreo tedesco ha bisogno è un nuovo ordinamento gerarchico dei valori personali ed esistenziali che lo abilitino a fronteggiare la situazione attuale e le sue conseguenze. Se noi proteggiamo la nostra coscienza, niente ci potrà essere tolto. Se noi restiamo fedeli alla nostra vocazione, nessuno ci può delegittimare. Se noi teniamo uniti l’origine e lo scopo, nessuno ci può sradicare - e nessuna potenza al mondo è in grado di assoggettare colui che in una realtà di schiavitù ha conquistato la libertà vera dell’anima”. Fino al marzo del 1939 rimani a Heppenheim, nonostante le difficoltà e le continue minacce. Poi, sessantenne, lasci la Germania per raggiungere Gerusalemme, nella cui Università si istituisce una cattedra di Filosofia sociale apposta per te. Ma anche qui hai dovuto affrontare il problema dell’ostilità che i gruppi ortodossi ti riservano, opponendosi ad incarichi di insegnamento che ti vedessero impegnato in materia di religione o teologia. Evidentemente si metteva in dubbio l’ ortodossia della tua fede. E mentre in Europa gran parte degli Ebrei viene sterminata, in Palestina si giunge alle prime tensioni tra la minoranza ebraica e i popoli arabi, che culminano in attentati sanguinosi da entrambe le parti. Anche qui ti applichi per il dialogo: i tuoi compagni di fede devono rispettare i diritti degli Arabi, ma contemporaneamente insisti sul fatto che la terra dei Patriarchi deve essere abitata da tutti i discendenti delle Dodici Tribù. Ciò non di meno, secondo te la colonizzazione della Palestina e l’istituzione dello Stato di Israele non possono essere assunti come fini a se stessi. Per te è qualcosa di molto di più: è la nascita di un popolo attraverso la realizzazione di un umanismo biblico e la concretizzazione del regno di Dio. Senza questa consapevolezza, senza conversione e senza rinnovamento morale e spirituale, ogni obiettivo di natura politica resta un busto privo di anima.

Dopo la guerra intraprendi numerosi viaggi. Il mondo diventa il luogo del tuo dialogo: sei come a casa tua in Europa e in America, e perfino in Germania. Il 17 settembre 1953, in occasione del “Premio della Pace” degli editori tedeschi, affermi: “Io credo, nonostante tutto, che i popoli in queste ore possano giungere al dialogo reciproco. Un vero dialogo è quello in cui ciascuno dei partner è salvaguardato dall’altro, pur nella contraddizione, come partner essenziale, affermato e confermato. Se così non si toglie dal mondo la contraddizione, certamente però la si può umanamente condividere e superare.

A causa del tuo continuo impegno per il dialogo tra Israele e Palestina, del tuo riavvicinamento alla Germania postbellica e della tua permanente richiesta di una riconciliazione si eleva una protesta forte contro di te sia nella società che nella politica di Israele.

Ma nonostante ciò tutto il mondo festeggia il tuo ottantesimo compleanno. Ma in quello stesso anno, l’11 agosto 1958, a Venezia muore tua moglie, durante un viaggio di ritorno dagli Stati Uniti. Viene sepolta nel cimitero ebraico del Lido.

Il 26 aprile del 1965, a seguito di una brutta caduta, subisci un intervento chirurgico. Anche se l’esito dell’operazione è positivo, muori il 13 giugno, hai 87 anni. Davanti alla tua salma composta presso l’Università Ebraica, sfilano centinaia di studenti, amici, membri di kibbutz, monaci cristiani, arabi cristiani e mussulmani, ambasciatori di molte parti del mondo. Gli studenti arabi pongono sulla tua tomba una corona di rose, garofani e gladioli.

Vieni seppellito nel cimitero Har Hamenuchoth che domina Gerusalemme, in una luogo in cui riposano i defunti professori dell’Università ebraica. Sulla tua lapide sono scolpiti due versetti del tuo salmo preferito (73, 23-24):

Ed ecco, io rimango con te,
hai preso la mia destra.
Con il tuo consiglio mi guidi
e poi mi conduci nella gloria.

Sì, nella gloria e con gioia Dio ti ha accolto, per vivere con te ciò di cui hai parlato per tutto l’arco della tua vita, per vivere con te in eternità ciò che tu hai vissuto: la relazione tra IO e TU, l’eterno IO con l’eterno TU.

Holger Banse, 
Schillerstrasse 31, D-57577 Hamm /Sieg,
holgerbanse@web.de 


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