...da Avvenire Catholica - 29 Dicembre 2000

Il monaco: torniamo con Gesù a innestarci su quel tronco
«Un legame misterioso già ci unisce»


Innocenzo Gargano *

Abramo ebbe fede in Dio». Nessun credente in Gesù che senta declamare questo versetto del libro della Genesi riesce a fare a meno di pensare a Paolo che, nel capitolo 4 della Lettera ai Romani, fa di questa affermazione riferita ad Abramo, la chiave di volta di tutto il suo insegnamento sulla «giustificazione per sola fede», come ripeterebbero volentieri i nostri amici «evangelici». L'affermazione di Paolo tende a rivendicare l'assoluta sovranità di Dio che rende «beato l'uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere» (Rm 4,6). Un'affermazione di portata ecumenica straordinaria, perché relativizza, alla radice, qualunque pretesa di legare l'azione di Dio alle «opere» dell'uomo. E, si noti bene, anche a quelle «opere» rivendicate come esecuzione di un comando ricevuto espressamente da Dio. Le «opere» non sono infatti una precondizione per l'appartenenza a Dio, ma semmai un sigillo di riconoscimento dell'essere stati scelti da Lui.

Questa assoluta gratuità del dono dell'elezione da parte di Dio implica anche un avvertimento nei confronti di chi pensa di poter disporre a suo piacimento del dono ricevuto da Dio. Nella sua sovrana libertà Dio può infatti estendere il suo dono anche oltre i confini intravisti o posti dall'uomo senza che, con questo suo modo di comportarsi, si riveli ingiusto nei confronti di chi è stato gratificato prima da Lui, o contraddittorio con ciò che Lui stesso ha promesso all'uomo. E che il pensiero di Paolo sia l'eco, su questo punto, del pensiero stesso di Gesù, lo potremmo verificare dalla finale della parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna. Là dove il padrone risponde agli operai chiamati alla prima ora del giorno che protestano per aver ricevuto lo stesso salario dato ai chiamati all'ultima ora: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perchè io sono buono?» (Mt 20,13-15).

Su questa base, e solo su questa, si fonda la convinzione di tutti i cristiani di essere stati inseriti nella stessa benedizione promessa da Dio ad Abramo quando in Genesi 12,2-3 dichiarò: «Io farò di te un popolo grande, ti benedirò, renderò grande il tuo nome e tu sarai benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno: in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».

Da tutto ciò si può ricavare anzitutto che è inconcepibile la sostituzione di una elezione ad un'altra. Paolo è chiarissimo su questo punto: «Essi sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen». (Rm 9,1-5). Conseguenza ovvia di questo dovrebbe essere un estremo rispetto, almeno altrettanto grande quanto quello di Paolo, nei confronti dei nostri fratelli maggiori. Inoltre bisognerebbe che i cristiani si interrogassero con maggiore profondità sul significato ultimo del pensiero di Paolo quando afferma che «da essi proviene Cristo secondo la carne». E cioè: cosa significa tenere presente fino in fondo, nella nostra teologia e nella nostra vita, che Cristo è indissolubilmente legato alla «carne» degli Israeliti? L'incorporazione a Cristo, che i cristiani ricevono con l'immersione battesimale, comporta un vero e proprio innesto, attraverso Gesù, nel tronco che proviene dalla radice santa identificata con Abramo. Dice infatti Paolo: «Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell'ulivo, non menar vanto contro i rami» (Rm 11,16-18).

Dovremmo dedurne che, grazie alla nostra incorporazione all'ebreo Gesù, noi «Gentili» siamo stati ammessi a far parte di un albero che è già santo a causa della sua radice. Ma dovremmo anche chiederci con maggiore profondità quale sia il rapporto che intercorre fra la «radice santa» e colui che, provenendo da essa «secondo la carne», «è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli». Sarà più possibile, una volta capito meglio questo, che si possa fare autentica cristologia cristiana senza chiedersi che cosa comporti il fatto che Egli sia nato da una radice già santa prima della sua venuta nella storia, dal momento che «se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta»? E cosa comporterebbe questo per i rapporti che noi cristiani siamo chiamati a stabilire con i rami di questo albero che rimane «santo», a prescindere dal riconoscimento o meno, da parte di alcuni suoi rami, dell'identità ultima di Gesù di Nazaret? Cosa dire infine della osservazione misteriosissima di Paolo che dice: «Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te»?

Garantire la comunione con Israele «secondo la carne», perché santo comunque, a prescindere dalla sua scelta nei confronti di Gesù di Nazaret, sembra appartenere, per i cristiani, a quelle realtà misteriose, che abitualmente si chiamano «sacramenti», nelle quali Dio agisce comunque con la sua presenza senza necessario riferimento alla «fedeltà pratica» del ministro umano investito da Lui. C'è dunque una sacramentalità permanente di Israele nella Historia salutis?

* priore del monastero di San Gregorio al Celio a Roma

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