Lucetta Scaraffa

Sì c'è chi bara tra i commossi di Auschwitz

Oriana Fallaci ha lanciato un nuovo, pesantissimo j'accuse, stavolta sul tema cruciale dell'antisemitismo. Dalle colonne del settimanale Panorama e del Corriere della Sera ha denunciato con il suo "Io trovo vergognoso..." il comportamento di quanti (Chiesa cattolica compresa) sembrano - a suo dire - fomentare oggi sentimenti antisemiti.

Non c'è da dissentire sul nocciolo del discorso di Oriana Fallaci che rimprovera gli europei, e in particolare gli italiani, di far rinascere un nuovo antisemitismo che sembra coinvolgere soprattutto i giovani, quelli che non si sentono coinvolti neppure come abitanti, sia pure inconsapevoli e naturalmente incolpevoli, del tempo della Shoah e che quindi non hanno remore a individuare negli israeliani i nuovi cattivi. Ed è vero che la Chiesa, nonostante atti decisivi di riconciliazione con gli ebrei compiuti da Giovanni Paolo II, sembra di nuovo impelagarsi in un clima decisamente antiebraico.

Stupisce vedere le stesse persone capaci di citare continuamente Auschwitz e d’indignarsi se qualcuno mette in dubbio l’unicità della Shoah (magari avvicinandola alle stragi comuniste) prendere così risolutamente le parti dei palestinesi vedendoli come vittime di un genocidio. Stupisce che gli ebrei, che pur contano tanti intellettuali influenti fra le loro fila, non riescano a far sì che l’immagine del kamikaze come martire non offuschi quella di kamikaze come assassino.

Per spiegare questa situazione, bisogna guardare a questioni più ampie di quelle dell’immediato presente. Molta antipatia verso gli israeliani nasce dal fatto che la questione di Israele disturba noi occidentali, ci fa sentire in pericolo perché focolaio continuo di conflitti con i paesi arabi, dopo l’11 settembre, destinati inevitabilmente a coinvolgere anche noi. Infastiditi da questo conflitto, che oggi sembra quasi l’unica ragione dell’attacco alle Torri gemelle, vorremmo solo tornare al torpido benessere in cui vivevamo prima.

Ma c’è anche una questione generazionale: i contemporanei della Shoah stanno scomparendo, mentre i giovani hanno vissuto spesso il richiamo continuo allo sterminio ebraico presente ormai in ogni scuola come una noiosa ritualità, come qualcosa di simile a quello che noi provavamo per il Risorgimento.

Gli ebrei sembrano loro elementi di disturbo perché non ci permettono di stare tranquilli, turbandoci prima con la memoria della Shoah, poi con la paura che il conflitto nel Vicino Oriente dilaghi in casa nostra. Più che grandi passioni per i palestinesi, penso che l’adesione di molti al loro partito dipenda da ragionamenti meschini: certo, se poi questa meschinità è confermata dalla giuria del premio Nobel, ci si può sentire anche anime nobili che stanno dalla parte giusta. Un’altra delle ragioni per il fastidio che genericamente proviamo verso chi sentiamo responsabile del conflitto in Medio Oriente per il solo fatto di esistere, cioè Israele, è che questo stato di guerra continua ci costringe a rivedere l’opinione diffusa che la secolarizzazione stia prevalendo su tutte le religioni, apportando la pace dell’indifferenza.

Il solo fatto che il conflitto abbia il suo epicentro simbolico in una città santa per tre religioni monoteiste, intrecciate fra di loro e in perenne conflitto al tempo stesso, rende palese come l’identità religiosa costituisca ancora una radice determinante. I primi a credere nella secolarizzazione sono stati gli israeliani, in gran parte, almeno agli inizi della storia del loro paese, indifferenti alla fede religiosa, che hanno sottovalutato l’importanza simbolica della città sacra anche per i cristiani. I cristiani palestinesi e le Chiese con loro, infatti, non hanno mai accettato che Gerusalemme diventasse la capitale di uno stato ebraico, e che quindi la loro presenza fosse tollerata in nome della libertà di culto, ma non sentita come sostanzialmente appartenente a quel luogo. Non c’è dubbio, infatti, che ebrei e cristiani vantino nei confronti della città sacra almeno gli stessi diritti per motivi storici e simbolici, e probabilmente il riconoscimento esplicito di questo avrebbe impedito episodi spiacevoli come quelli addebitati dalla Fallaci ai cattolici.

Molto più marginale, invece, è il coinvolgimento religioso dei musulmani con questa città: quasi mai, infatti, si ricorda che Gerusalemme è sacra per l’islam solo in quanto legata alla memoria biblica, alla quale anche i musulmani si riallacciano, ma non per ragioni proprie alla loro tradizione, se non per una tradizione connessa con Maometto. I luoghi sacri islamici, infatti, sono soprattutto la Mecca e Medina in Arabia Saudita, dove per un non musulmano è quasi impossibile entrare. Il diritto dei palestinesi a vivere in questa terra è quindi solo un diritto politico, accumulato nei secoli durante i quali la Palestina ha fatto parte, non come entità statale, dell’impero ottomano. Non si discute di questo diritto, ma forse in questo caso l’enfasi religiosa è esagerata.

Comunque, oggi la semplice ragione politica è stata accresciuta di argomenti emotivi e simbolici dai morti nei campi profughi, il cui numero va aumentando di ora in ora. Un conflitto in cui tutti hanno ragione e al tempo stesso tutti hanno torto è per definizione insolubile, ma questa non è una buona ragione per demonizzare gli ebrei.

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