«La vita e la traccia»: Biografia di Emmanuel Lévinas di Salomon Malka

Orme di vita "il sobrio ebraismo lituano" dell'infanzia, l'adesione entusiastica alle impalpabili atmosfere di Strasburgo. Quindi Parigi, la guerra, la prigionia, la shoà. E poi gli incontri. Con Blanchot e Jean Wahl, Husserl e Heidegger. Per Jaca Book, «La vita e la traccia», l'attesa biografia di Emmanuel Lévinas firmata da Salomon Malka.

Traiettorie parallele. La filosofia e l'ebraismo come luoghi fondativi di un pensiero che voleva resuscitare il religioso nel cuore del filosofico.
Tutti i nomi degli uomini. Un'insonne e incessante ricerca dell'Altro. Volto e nome proprio di un'etica che Lévinas viveva come turbamento e passione

Emmanuel Lévinas muore a Parigi il 25 dicembre 1995, giorno in cui i cristiani celebrano il Natale e gli ebrei terminano Chanukkah, la festa delle luci. Venne sepolto al cimitero di Pantin, in un grigio mattino, battuto dal vento e dalla pioggia. Una folla raccolta di amici, colleghi, discepoli, curiosi dava l'addio a uno dei più grandi filosofi del secolo appena trascorso. Quel giorno Jacques Derrida pronunciò l'orazione funebre con la voce rotta dall'emozione che il vento quasi copriva. Un mattino d'inverno che rendeva più duro l'addio. «Alla vita di Lévinas poteva ormai seguire la traccia».

Ed è quello che ha fatto Salomon Malka (scrittore, giornalista, allievo di Lévinas) con questo libro cui ha consacrato cinque anni di ricerca - Emmanuel Lévinas. La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003, pp. 302, euro 24,00 - che ci accompagna, con una minuziosa ricostruzione, attraverso i sentieri, le tappe di una vita e di un'opera che hanno segnato la storia del mondo contemporaneo.

Si tratta dell'attesa biografia di un filosofo che non ha cessato e non cesserà di interrogarci e di scuotere il nostro modo di pensare, le nostre certezze, le nostre sicurezze.

Non si può separare un cammino di pensiero dal volto che lo ha incarnato, né si possono separare i libri dai luoghi, dalle relazioni, dagli incontri che ne hanno segnato la maturazione, la difficile composizione.

La vita e la traccia, dunque. «Ma di cosa è fatta una vita filosofica? A cosa assomiglia la vita di un filosofo?». Le domande di Malka non hanno a che fare con una banale curiosità biografica. Del resto nessuna biografia può dirsi completa. Anch'essa sarà condizionata dalla nostra interpretazione. Una vita può essere disponibile, a portata di mano. E' di tutti e di nessuno. Certo, può essere ripercorsa ma mai catturata nelle maglie di un sistema biografico che curva una intera esistenza e la piega alle nostre necessità. Così è dell'opera di una vita. Anche i libri sono a portata di mano, ma se non se ne vuole fare degli oggetti spenti e opachi vanno tenuti aperti, continuamente interrogati per proseguire un cammino avviato da una voce che seppure spenta, continua a parlarci.

Volti, voci, luoghi. Rue Michel-Ange a Parigi, la casa di Lévinas. Comincia qui il lungo viaggio di Malka. Comincia nell'intimità familiare fatta di cose semplici, da un accoglienza sull'uscio della porta dell'appartamento dei Lévinas. Il filosofo con l'abito stropicciato e la moglie «un po' ripiegata su se stessa».

Accoglienza fatta di parole semplici, dirette, di una gentilezza innata accompagnata da un sorriso.

L'indagine di Malka comincia dai luoghi che hanno visto nascere il filosofo francese.

La prima tappa è nella sua città natale: Kaunas (o Kovno), in Lituania dove il filosofo nasce il 30 dicembre 1905. In famiglia si parla il russo. La sua infanzia è immediatamente intrisa di valori religiosi. La sua è infatti una famiglia praticante, si reca in sinagoga, mangia kasher, si rispetta lo Shabbat, si celebrano le feste ebraiche. «E' un ambiente religioso senza eccessi, inserito nella tradizione lituana, dove la vita quotidiana è scandita dalle usanze ebraiche». L'ebraismo lituano dominato dalla gigantesca figura del Gaon di Vilna si è sempre caratterizzato per la sua sobrietà e per una rigorosa interpretazione della tradizione religiosa che i fratelli Lévinas ricevono grazie a un precettore ebreo a domicilio. Il padre libraio trasmette il suo amore per i libri. La grande cultura russa non poteva lasciare indifferente Lévinas che, infatti, vi attinge a piene mani.

Nel 1923 Lévinas giunge a Strasburgo, città dalle impalpabili atmosfere, città di confine, sospesa tra due mondi: quello francese e quello tedesco. Per il giovane lituano si tratta di un ambiente meraviglioso in cui potersi adattare al suo esilio che sarà quello definitivo. Studia filosofia, si laurea nel 1927. Cominciano gli incontri che segneranno la sua vita: quello con Maurice Blanchot innanzitutto.

La scena filosofica francese era, allora, dominata da un notevole fermento e aperta a diverse correnti e influenze. L'eredità del XIX secolo con il positivismo di Auguste Comte o l'epistemologia di Cournot pesano ancora. Ma da un lato le scienze umane rivendicano tutto il loro peso e dall'altro la religione, la spiritualità ritornano ad essere un campo di riflessione teorica e di ricerca storica. Le prime traduzioni dell'opera di Freud; la sociologia con la rivoluzione metodologica proposta da Durkheim; la linguistica di De Sussurre, l'etnologia di Mauss; l'effetto dell'opera di Bergson, di Maritain o di Etienne Gilson partecipano a quel rimescolamento dei saperi che formano lo sfondo di un momento decisivo della cultura europea.

Ma ben presto Lévinas va oltre. Tra l'estate del 1928 e l'inverno 1928-29 si reca a Friburgo in Brisgovia, in Germania. Intende studiare con Husserl e incontra Heidegger. Sono incontri cruciali con due giganti del pensiero che segneranno profondamente il cammino di pensiero di Lévinas. Infatti tutta la riflessione filosofica successiva porterà i segni di questi due grandi maestri a cui si aggiungerà la ripresa in profondità del pensiero ebraico. Sarà proprio il giovane studioso a far conoscere in Francia Husserl e la fenomenologia. E a Husserl dedica il suo primo libro La teoria dell'intuizione nella fenomenologia di Husserl.

Il rapporto con Heidegger sarà segnato per sempre dalla sua adesione al nazismo.

Divenuto cittadino francese, nel 1932 torna in Lituania per sposare Raissa Levi, la figlia dei suoi vicini, la compagna di una vita. Finalmente Parigi, la nascita dei figli, il lavoro all'Ecole Normale Israelite Orientale, la guerra, la prigionia, la Shoah, i seminari di Davos, quelli di Lovanio, le strade di Tel Aviv e quelle di Gerusalemme, fino, ormai più che cinquantenne, alla Sorbona.

I difficili rapporti con la scrittura, le insicurezze, la solitudine in cui maturava autentici capolavori tra l'indifferenza generale fino alla tardiva consacrazione, sono altrettante tappe di una vita.

Malka annoda i fili di un'esistenza (il rapporto con i figli, con gli allievi), le amicizie (Blanchot e Jean Wahl), il duro apprendimento talmudico con un misterioso e affascinante maestro, Chouchani, gli influssi di Rosenzweig, i dialoghi con Ricoeur, Derrida e Giovanni Paolo II.

Ma la sua è stata anche un'esistenza filosofica. Emmanuel Lévinas ha parlato la lingua della filosofia e, da questo punto di vista, deve essere considerato uno dei maggiori pensatori del XX secolo. Ma ha anche parlato quella della tradizione del suo popolo. Da quest'altro punto di vista è un testimone dell'ebraismo contemporaneo. Egli non si è mai considerato un talmudista, ma è stato un grande lettore del Talmud, una vera guida per un'iniziazione ai testi della tradizione ebraica.

Del resto, pur non amando sentirsi definire un filosofo ebreo, pur insistendo sul fatto che faceva essenzialmente filosofia, non si può non riconoscere questo intreccio. Non Atene contro Gerusalemme, ma Atene e Gerusalemme sono i luoghi fondativi della sua proposta filosofica.

Nel corso degli anni, accanto alla riflessione filosofica, porterà avanti un'attività di «talmudista della domenica» che verrà consegnata in scritti «confessionali» di notevole spessore e suggestione.

Non c'è opera filosofica - da Dell'evasione del 1935 a Totalità e infinito del 1961 (che lo consacra), fino a Altrimenti che essere o al di là dell'essenza del 1974 e a Dio che viene all'idea del 1982 (per citare solo alcuni titoli di una ricerca magistrale) - che non indichi un rimando alla tradizione ebraica. Tuttavia mai come in Lévinas i due tragitti sono pensati in maniera rigorosamente autonoma.

«L'opera di Lévinas si è radicata lentamente. Ci ha messo del tempo». Perché? Per la lingua difficile? Per la singolarità della sua scrittura, per il suo impatto, per la sua fascinazione che provoca al tempo stesso la consapevolezza di trovarsi di fronte a un pensiero cui è difficile attenersi?

Mettere il volto al centro della sua filosofia, descrivere l'irruzione dell'etica, che Lévinas riteneva essere la filosofia prima, come un turbamento, uno sconvolgimento, una passione, «resuscitare il religioso nel cuore del filosofico, tracciare una nuova via nel profondo del giudaismo», non poteva che disturbare producendo molte caricature e semplificazioni.

Si può forse caratterizzare l'itinerario filosofico di Lévinas come un'insonne ricerca dell'Altro, che - volto e nome proprio - è sempre innanzitutto l'uomo. L'Altro, l'interrogante che si svela, contemporaneamente nella sua distanza e nella sua prossimità. Questo risuona nelle potenti architetture del suo pensiero come nel suo scabro argomentare. Del resto la nozione dell'umano nella Torah precede la differenza. La relazione interumana viene prima di tutto.

Da questo punto di vista il pensiero di Lévinas rinvia al capitolo del libro della Genesi (4, 26) dove si dice: «Solo allora si comincerà a invocare il nome dell'Eterno». Siamo dopo la morte di Caino. Caino ha dato vita a Chet e Chet a Enoc. Il passo si trova dopo la nascita di Enoc, il cui significato in ebraico è, appunto, «umano».

Lungi dal poter essere chiusa in un sistema quest'opera si presta a una lettura infinita, mai definibile. Sempre aperta.

Che ne è dell'opera di una vita? Dei successi, degli insuccessi, dei rimorsi, delle cose solo abbozzate? Lévinas amava un passo di Rashi sulla rotture delle tavole della legge in cui è prescritto a Mosè di conservare nel Santuario i frammenti delle prime accanto alle seconde, come se mancasse qualcosa alle seconde senza la «rottura» delle prime. Lévinas ha scritto molto. Quello che non ha desiderato dire non l'ha detto.

L'opera ha una coerenza. La vita anche. L'una e l'altra bastano a se stesse. Il suo pensiero si rivela inabitabile perché è un pensiero in cui non c'è un'ultima parola, dove niente è definitivo, nulla è stabile, che non lascia alcuna quiete. Un'opera che semplicemente testimonia le infinite risorse del pensare. Per continuare a pensare.
Ottavio Di Grazia
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[Fonte: “Il Manifesto” del 6 gennaio 2004]


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