Magdi Allam, dal Corriere della Sera del 16 novembre 2003


L’equilibrio tra le fedi nato durante l’impero: 500 anni di efficienza e tolleranza

Istanbul come Djerba e Casablanca. I terroristi islamici hanno voluto colpire un modello di convivenza tra musulmani ed ebrei. Che proprio in Turchia, all'epoca dell'impero ottomano, raggiunse picchi salienti di tolleranza ed efficienza. Testimoniato dalla presenza di circa 400 mila ebrei, molti dei quali fuggiti dall'inquisizione cattolica in Spagna dopo la «reconquista» nel 1492. E, più recentemente, dalla persecuzione dei nazisti in Germania. Le autobomba contro le sinagoghe di Istanbul confermano ancora una volta come l'antiebraismo sia il più solido collante ideologico in grado di cementare l'unità degli estremisti islamici. Non è un caso che nel 1998 Osama Bin Laden diede vita al «Fronte internazionale islamico per la Guerra santa contro gli ebrei e i crociati». Una sigla che è un programma di odio e di violenza razziale e confessionale.

La storia della convivenza tra ebrei e musulmani in Turchia può essere rappresentata da una vicenda reale dei giorni nostri. Il Corriere aveva raccontato, lo scorso 3 settembre, la testimonianza di frate Antuan, un giovane turco musulmano convertito al cattolicesimo e che si appresta a diventare sacerdote nell'ordine dei Cappuccini proprio qui in Italia.

Ebbene ieri, dopo aver ascoltato le tragiche notizie degli attentati di Istanbul, ha voluto ricordarci un fatto emblematico. «Quando ero ancora musulmano, ho potuto studiare all'università grazie a una borsa di studio concessami da Uzeyir Garih, un ricco imprenditore ebreo» dice frate Antuan. Garih era il presidente dell'Alarko Holding, un colosso con interessi nei campi delle costruzioni, dell'energia e della produzione tessile. «E' un uomo che ha dedicato la sua vita per il bene dei turchi. Ha fatto molto per promuovere il successo dei giovani, indipendentemente dalla loro religione - prosegue frate Antuan - mi diceva: noi ebrei siamo in Turchia da 500 anni. Ci sentiamo più turchi degli altri turchi. Io non ho dubbi che questo sia il sentimento condiviso dall'insieme della comunità ebraica».

Ebbene, il 25 agosto 2001, Garih è stato assassinato da un estremista islamico mentre usciva da un cimitero musulmano dove si era raccolto in preghiera davanti alla tomba dello sceicco Küçük (Piccolo) Hüseyin Efendi, un «santo» venerato dalla comunità mistica sufi dei Nasqbandi e a cui lo stesso Garih era devoto. Frate Antuan ammette che «Garih non mi ha aiutato soltanto a studiare ma anche a fare la scelta di vita che mi ha portato a cambiare la mia religione. Mi diceva: "Fai quello che pensi sia giusto e ciò ti renderà felice. In un modo o nell'altro servirai lo stesso il nostro Paese». Fa proprio riflettere la singolare storia di questo ricco ebreo che aiuta i connazionali musulmani, prega sulla tomba di un «santo» musulmano prima di essere ucciso da un fanatico islamico.

Al pari di Garih molti ebrei hanno legato indissolubilmente la loro vita alla storia della crescita e del progresso della Turchia. Intanto prendiamo atto della loro importante consistenza numerica. Si calcola che tra il 1520 e il 1530 a Istanbul ci fossero 1.647 famiglie ebraiche a fronte di 9.517 famiglie musulmane. A Salonicco, all'epoca parte dell'impero ottomano, le famiglie ebraiche erano più del doppio di quelle musulmane, 2.645 a fronte di 1.229. Salonicco era la città con il maggior numero di ebrei in Europa. Nel XVI secolo tutta la pubblicazione ebraica veniva stampata tra Istanbul e Salonicco. Di fatto la Turchia sorpassava la Polonia come centro culturale dell'ebraismo mondiale.
Nel XIX secolo anche gli ebrei, al pari dei greci e degli armeni, furono sottoposti al sistema del millet, le comunità protette che, in cambio di una tassa, avevano diritto a organizzarsi in modo autonomo sul piano delle leggi in materia di questioni religiose e di statuto personale. Gli ebrei divennero una millet sotto l'autorità del Hahambashi, il rabbino capo, stabilito e riconosciuto con decreto imperiale ottomano. Di fatto le comunità straniere e le minoranze confessionali sono state le protagoniste del cambiamento sociale e della modernizzazione della Turchia. In un elenco del 1912, compaiono i nomi di 40 banchieri attivi a Istanbul. Tra loro 12 erano greci, 12 armeni, 8 ebrei e 5 europei. Un analogo elenco di agenti di cambio comprende 18 greci, 6 ebrei, 5 armeni e neppure un turco. Il contributo culturale degli ebrei fu rilevante nella medicina, nel teatro e nella stampa. Furono probabilmente gli stampatori ebrei, che di fatto monopolizzavano il mercato a causa del divieto religioso a utilizzare i caratteri turchi e arabi, a stampare le prime copie del Corano in turco quando nel 1727 un firmano imperiale revocò tale divieto.

Oggi gli ebrei in Turchia non superano le 30 mila unità. L'esodo di massa si è avuto in concomitanza con le discriminazioni esplose alla nascita degli Stati nazionali dopo la disgregazione dell'impero ottomano e la successiva creazione dello Stato d'Israele. Tuttavia la Turchia, insieme al Marocco e alla Tunisia, hanno continuato a caratterizzarsi come isole di pacifica convivenza tra la maggioranza musulmana e la minoranza ebraica.

Non è un caso che uno degli obiettivi prioritari della folle e sanguinaria strategia del terrore di Bin Laden sia di sabotare questa convivenza. Ciò è quanto si proponeva con gli attentati contro la sinagoga di El Ghriba sull'isola tunisina di Djerba (11 aprile 2002, 19 morti) e contro sedi e simboli ebraici a Casablanca (16 maggio 2003, 43 morti tra cui 13 kamikaze islamici). In entrambi gli attentati è stato accertato un legame tra i kamikaze islamici, estremisti occidentali convertiti all'islam e dirigenti di Al Qaeda che hanno offerto addestramento militare e indottrinamento ideologico. Anche i sanguinosi attentati alle sinagoghe di Istanbul confermano la realtà tentacolare di Al Qaeda, una struttura in cui le singole cellule distribuite nei più disparati Paesi godono di una sostanziale autonomia sul piano organizzativo e operativo, mantenendo un legame con il vertice sul piano ideologico e decisionale.

Ma soprattutto confermano la natura aggressiva, non reattiva, di questo terrorismo islamico. A tutt'oggi si sentono voci che vorrebbero far credere che gli ebrei vittime degli attentati di Istanbul, Djerba, Casablanca, o anche gli italiani uccisi a Nassiriya, sarebbero la conseguenza della presenza militare americana in Iraq o dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi. Dovrebbe essere invece chiaro che questo terrorismo ideologicizzato, pregiudizialmente ostile agli ebrei e all'Occidente, persegue una strategia indipendente di violenza e di morte finalizzata ad annientare i «nemici». E tra i «nemici» figurano anche tanti musulmani.


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