Dialogo: uno dei protagonisti, 
Carlo Maria Martini






Premessa 


Quando ero professore di Sacra Scrittura e avevo l' occasione di andare frequentemente in Israele per motivi di studio e di trovarmi con studiosi ebrei, il mio approccio al problema delle relazioni ebraico-cristiane era influenzato dall'aspetto sociale e culturale.

Ora che sono vescovo, e quindi responsabile di una comunità cristiana, vedo il problema in un modo in un certo senso molto più semplice, quasi ingenuo.

Non si tratta, infatti, di discutere tra specialisti sui rapporti fra ebrei e cristiani, ma piuttosto di trovare dei punti di riferimento per il popolo di Dio, anche perché il problema si è fatto più preciso e decisivo per il futuro della chiesa stessa. La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore vitalità di un dialogo, bensì l'acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi.

D'altra parte, la necessità che la chiesa si autocomprenda vitalmente nella sua natura e missione in relazione al popolo ebraico richiede innanzitutto attenzione a ciò che il popolo ebraico dice e pensa di se stesso. Per questo mi sembra importante richiamare, come punto di partenza, qualche aspetto dell'autocoscienza religiosa ebraica alla luce di alcuni gravi problemi che i cristiani e tutta l'umanità si trovano oggi di fronte.

In un secondo momento suggerirò le tappe che potrebbero aiutare lo sviluppo delle relazioni ebraico-cristiane al fine di affrontare insieme i problemi comuni del nostro tempo.

Sarà così possibile, in un terzo momento, comprendere quali mete si raccomandano come necessarie per un'azione comune che dovrebbe corrispondere alla natura e alla missione dei cristiani e degli ebrei in obbedienza allo stesso comandamento di Dio.

Alcuni aspetti dell'autocoscienza religiosa ebraica e i gravi problemi 
dell'umanità contemporanea 

Il passo di Deuteronomio 6 rimane essenziale per la comprensione della tradizione religiosa ebraica: " Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore" (6, 4).

Rashi commenta lo Shema' osservando che "Dio non è ancora il Dio dei popoli idolatri, ma un giorno, come profetizzano Sofonia e Zaccaria, ci sarà un solo Signore e unico sarà il suo nome.

E Michea profetizza la missione universale di pace che Israele è destinato a portare in mezzo a tutti i popoli: "Sarà portatore di pace [...] e il resto di Giacobbe sarà in mezzo a molti popoli come rugiada sull'erba" (5, 4, 6).

La creazione stessa, secondo il commento di Rashi al capitolo 1 della Genesi, è orientata alla Torah e a Israele. Dio creò il mondo "bishvil ha Torah", per amore della Torah, e "bishvil Ysra'el", per amore di Israele. Israele è dunque consapevole di essere un popolo separato per il servizio sacerdotale, consacrato per guidare tutti i popoli alla perfetta obbedienza e all'amore di Dio.

Perciò l'ebraismo non può disperare della fedeltà di Dio, è prigioniero della speranza. Ma anche noi siamo legati a questa speranza.

Nonostante la fedeltà di Dio all'alleanza e all'amore per il suo popolo, Israele ha rischiato più volte, nel cammino della storia, di essere eliminato e si è trovato spesso in condizioni di inferiorità e di persecuzione.

Come vanno interpretati questi avvenimenti senza cedere alla disperazione, senza rischiare di rimuoverli, nella loro tremenda e concreta realtà, dalla memoria storica?

Le reazioni degli ebrei di fronte a queste tragedie furono, di volta in volta, diverse: talora ne cercarono la causa nella disobbedienza alla legge; in altri momenti accusarono l'ingiusti- zia dell'uomo; oppure cercarono conforto adorando, in silenzio, l'incomprensibile mistero di Dio.

Leggiamo, ad esempio, nel Midrash Rabbà sul libro delle Lamentazioni: "Israele fu punito", dice ben Aza'i, "per aver ripudiato l'unico Dio, la circoncisione, i dieci comandamenti, i cinque libri della Torah".

La Mishnah, in un noto passo, mostra con quale coscienza unitaria l'ebraismo rifletteva su questi fatti della sua storia: "Cinque disgrazie caddero sui nostri padri il 17 di Tammuz e il 9 di Ab; il 17 di Tammuz, le tavole della legge furono spaccate, l'offerta quotidiana interrotta e una breccia fu aperta nella città e Apostomos bruciò i rotoli della legge e mise un idolo nel tempio; il 9 di Ab fu decretato che i nostri padri non sarebbero entrati nella terra promessa, il tempio fu distrutto la prima e la seconda volta, Bethar fu catturato e la città fu devastata".

L'ultima di tutte queste grandi tragedie è stata la Shoah: essa non ha alcuna proporzione con le persecuzioni precedenti e appare come il climax tragico dell'antisemitismo dei millenni precedenti.

Mi riferisco ad Auschwitz: alcuni ebrei lo giudicano come il martirio e la sofferenza più duri che Dio abbia chiesto ad Israele; altri (André Neher ed Elie Wiesel) come il tempo del più grande buio e del totale silenzio di Dio.

Ma la speranza continua a brillare sul sentiero del popolo ebraico attraverso la storia. La speranza riemerge dall'orrore della Shoah perché c'è un segno concreto che splende come un faro nella notte: è la promessa messianica di una terra, della terra riconciliata di Gerusalemme, la città della pace, di un mondo futuro, di uno shalom messianico. Questo sguardo verso il futuro, nonostante e forse proprio a causa di cosi numerose sofferenze, ci conduce al cuore di un problema che affligge non solo Israele ma anche la chiesa. Israele ha una missione messianica universale di "shalomizzazione" del mondo; la chiesa si propone di portare gli effetti della riconciliazione attuata da Cristo al mondo e all'universo intero.

Le tappe per aiutare e sviluppare le relazioni ebraico-cristiane 

A partire da queste considerazioni e per comprendere meglio le mete verso le quali ebrei e cristiani possono muoversi insieme, suggerisco sei tappe.

La prima tappa è la preghiera. Siamo consapevoli che, nel dramma della storia, "l'uomo non è solo". Dimensioni insospettate di fede, speranza e amore si aprono sia per il laico sia per l'uomo di chiesa, sia per l'ebreo sia per il cristiano.

Per il cristiano, il vertice della tensione religiosa è l'eucaristia. Per l'ebreo, ogni momento e ogni condizione di vita è una possibilità di adorare il nome dell'Altissimo, è un'opera di santo servizio, di Avodà: la Torah, lo Shabbat, il Talmud (lo studio), le mitzvot, sono tutti esempi di questi modi e momenti di culto spirituale.

È allora necessario che i cristiani comprendano questo costante atteggiamento ebraico di benedizione e di lode: Berakhà e Todah. Per vivificare l'eucaristia, per celebrare la liturgia con tutti i venerandi e preziosi valori anche oggi presenti nella vita ebraica intesa come liturgia, come Avodà, i cristiani dovrebbero abituarsi sempre di più a capire le preghiere e la spiritualità degli ebrei.

La seconda tappa è precisamente uno di questi valori dell'ebraismo: la conversione del cuore, teshuvah.

Per l'ebreo, ogni giorno è fatto per la teshuvah del singolo e della comunità. Ogni giorno, perciò, è anche per noi il momento di cominciare a chiedere a Dio e ai nostri fratelli - in questo caso agli ebrei - di accettare il nostro dolore per il male che abbiamo fatto e per il bene che ci siamo dimenticati di compiere. Ritorniamo a Dio, e all'uomo che è sua immagine, curviamoci sul fratello ebreo, sulla storia delle sue sofferenze, del suo martirio, delle persecuzioni che ha subito. Rimuoviamo le interpretazioni tendenziose, ingiuriose, di passi contenuti nel Nuovo Testamento e in altri scritti. Dissipiamo le incomprensioni che ancora ci rendono diffidenti della buona volontà reciproca. In realtà noi desideriamo la stessa cosa: essere fedeli alla verità.

La terza tappa è lo studio e il dialogo, Talmud Torah. Per cercare strenuamente la verità, l'umanità costruisce università e centri scientifici. L'ebraismo ha elaborato in passato la riflessione talmudica con tutte le successive trattazioni.

La chiesa non può ignorare i risultati di questa elaborazione, come sono presentati nei testi religiosi, giuridici, filosofici della letteratura ebraica post-biblica.

Ci sono tanti altri esempi di queste iniziative. Ma perché possano portare frutto è necessario che siano estesi al maggior numero possibile di diocesi, di comunità e gruppi ecclesiali, così che l'ignoranza che ci ha separato e contrapposto nel passato, non senza responsabilità da parte nostra, venga gradualmente colmata.

Sono convinto che una profonda penetrazione all'interno dell'ebraismo sia vitale per la chiesa non soltanto per superare l'ignoranza vecchia di secoli e per avviare un dialogo fruttuoso, ma anche per approfondire l'autocomprensione di sé. In altre parole, vorrei sottolineare l'importanza, per la teologia e la prassi cristiana, dello studio dei problemi che derivarono dall'interruzione del contributo che la teologia e la prassi dei giudeo-cristiani avevano dato alla primitiva comunità cristiana.

Ogni scisma e divisione nella storia della cristianità priva la chiesa di contributi che avrebbero potuto essere preziosi e produce una certa carenza nell'equilibrio vitale della comunità cristiana. Se questo è vero per ogni grande divisione che si è verificata nella storia della chiesa, lo è particolarmente per il primo grande scisma che ha privato la chiesa dell'aiuto che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica. 

Mi limito a citare tre conseguenze di questo mancato apporto: la prassi cristiana ha una permanente difficoltà a focalizzare esattamente il giusto atteggiamento dei singoli e delle comunità nei confronti del potere tecnico, economico e politico del mondo; la prassi cristiana fa fatica a trovare il giusto atteggiamento nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia; la prassi cristiana non riesce a trovare il giusto rapporto tra la speranza escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via. 

Le discussioni senza fine sulle applicazioni pratiche e sugli atteggiamenti in questi settori - non tanto, quindi, sui principi teologici generali - che caratterizzano anche l'attuale situazione, hanno le loro radici in quella ferita non guarita del primo scisma. Possiamo allora comprendere perché san Paolo diceva che la riunione degli ebrei sarà come "vita da morte", come ritornare in vita dalla morte.

In ogni caso è assai importante, per i cristiani, promuovere la comprensione della tradizione ebraica per riuscire a comprendere più autenticamente se stessi. La quarta tappa è il dialogo universale, aperto. L'ebraismo e la chiesa sanno che non possono fermarsi a un dialogo che escluda altri interlocutori.

Questo rapporto, per natura sua, deve essere innanzitutto aperto all'Islam, per le comuni radici storiche, culturali, religiose, per la fede di Abramo.

Qui non dobbiamo aspettarci risultati a breve termine o vantaggi strategici preferenziali: al contrario, bisogna cominciare a proporre comuni valori, per scoprire obiettivi e strumenti di dialogo, sapendo di rendere così un servizio all'intera umanità.

Vorrei ricordare, con le parole del Concilio Vaticano II nella costituzione sulla chiesa, che il piano di salvezza include anche coloro che riconoscono il Creatore e: "In primo luogo tra questi vi sono i maomettani che, professando di possedere la fede di Abramo, insieme con noi adorano il Dio unico e misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale". (1)  

E Giovanni Paolo II ha sottolineato, in una sua recente lettera apostolica a proposito della città di Gerusalemme che: "È naturale ricordarsi come noi dobbiamo invocare la desiderata sicurezza, la giusta pace per il popolo ebreo, mentre d'altra parte il popolo palestinese ha il diritto naturale, secondo giustizia, di trovare di nuovo una terra e di poter vivere in pace e in serenità con gli altri popoli della regione", il santo padre sottolinea che: "La città santa di Gerusalemme, così cara a ebrei, cristiani e musulmani, si eleva come un simbolo di incontro, di unione di pace per l'intera famiglia umana" e invoca che: "Con buona volontà e larghezza di vedute sia trovato un modo giusto ed effettivo nel quale i differenti interessi e aspirazioni possano essere messi insieme in una forma armoniosa e ferma" e siano difesi in modo adeguato ed effettivo.

L'ebraismo offre molti esempi di apertura al dialogo non solo con l'Islam ma pure con altre religioni, con la scienza e la filosofia. Trai cristiani, a proposito di questo dialogo, ricordiamo gli esempi recenti di Louis Massignon e di Charles de Foucauld, ricordiamo Giorgio La Pira, che ho potuto incontrare spesso in occasione di incontri tra ebrei e cristiani, nell'interesse dell'Oriente.

La quinta tappa è quella delle iniziative. L'approccio alla religiosità e alla cultura ebraiche può essere coltivato a vari livelli. A livello di studio, promovendo incontri e ricerche, e coordinando ciò che già esiste; nelle scuole, usando possibilità previste dalle leggi scolastiche e rivedendo i libri di testo; si possono poi programmare corsi di aggiornamento per il.clero e i catechisti e istituire corsi e iniziative nei seminari e nelle diocesi.

Se le tappe precedenti verranno seguite progressivamente sarà più facile anche l'ultima tappa, quella della creazione di punti d'incontro e luoghi di collaborazione sociale, politica e culturale.

Possiamo così sperare che, nel promuovere e nel difendere la vita e la libertà di tutti gli uomini, ebrei e cristiani si troveranno più spesso di un tempo gli uni accanto agli altri, per il comune impulso religioso e per le ragioni etiche e ideali.

Le mete comuni alla natura e alla missione degli ebrei e dei cristiani 

Che cosa ci aspetta? Qual è la meta comune, alla fine di queste sei tappe progressive che ho suggerito?

Proporre alcuni obiettivi comuni a lunga scadenza potrebbe apparire presuntuoso se non facessimo affidamento sullo Spirito di santità che, fin dall'inizio, ha aleggiato sulle acque primordiali. È lui che noi invochiamo in ogni tempo: "Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra" (Sal 104, 30).

Un primo obiettivo comune sarà di essere testimoni ", dell'amore del Padre in tutto il mondo. Per l'ebreo come per il cristiano non v'è dubbio che l'amore verso Dio e verso il prossimo riassume tutti i comandamenti. Tutti gli uomini sono egualmente oggetto dell'amore di Dio. Dice Seder Eliyahn Rabbah che ebrei e non ebrei, uomini o donne, maschi o femmine, tutti sono uguali per il fatto che lo Spirito divino discende su di loro secondo le loro azioni. Per il cristiano, l'amore di Dio è conosciuto e sperimentato per mezzo del suo Figlio Gesù. In questa testimonianza reciproca d'amore siamo dunque uniti, come da una meta che ci attira. Questa stessa legge di santità ci unisce pur nella diversità dei modi nei quali ci viene trasmessa.

Il fatto che la chiesa si sia sempre considerata "verus Israel" non dovrebbe essere inteso come uno svuotamento dell'antico Israele: se noi cristiani crediamo di essere in continuità e in comunione con i patriarchi, i profeti, le tribù d'Israele, con i martiri Maccabei e gli esuli di Babilonia, è necessario che questa comunione si realizzi in tutti i modi possibili anche nei riguardi degli ebrei che a Jabneh hanno codificato la Mishnah, a Babilonia il Talmud, a Toledo e a Magonza hanno composto la Selichot, e che furono perseguitati dai crociati e processati per infanticidio rituale.

Forse oggi non è ancora chiaro come la missione della chiesa e quella del popolo ebraico possono arricchirsi e integrarsi reciprocamente senza venir meno a ciò che l'una e l'altra hanno di essenziale e di irrinunciabile. C'è tuttavia un obiettivo finale: quando saremo un unico popolo e il Signore ci benedirà dicendo: "Benedetto sia l'Egitto mio popolo, la Siria opera delle mie mani, Israele mia eredità". Dice san Paolo che le promesse di Dio sono senza pentimento!

Un secondo obiettivo è quello di un servizio comune allo stesso progetto di alleanza. Sia gli ebrei che i cristiani svolgono un servizio nei riguardi di tutta l'umanità. Infatti, attraverso gli ebrei e i cristiani, Dio, Padre di tutti, continua a rivolgersi a ogni persona. Il popolo ebraico nel suo insieme, e ciascun ebreo, considera se stesso come figlio primogenito del Padre, chiamato a dargli lode. Secondo il Nuovo Testamento la chiesa è il popolo messianico al servizio dell'alleanza tra Dio e l'uomo, tra Dio e l'umanità, tra Dio e il cosmo. 

C'è dunque un servizio comune allo stesso progetto di alleanza e questo servizio costituisce un ministero sacerdotale, una missione che può unirci senza confonderci, fino a quando verrà il Messia che noi invochiamo: Marana-tha.

Se vogliamo tentare di descrivere questo ministero sacerdotale di Israele e della chiesa, possiamo usare la categoria del "fare santo il Suo nome", cioè di rendere presente la santità di Dio in noi stessi, nelle famiglie, nella società, nella creazione. L'ebraismo ha sviluppato un'attenta riflessione sui precetti che santificano ogni momento della vita, e sull'intenzione del cuore che ne costituisce l'anima vivificante.

Il cristianesimo sta ora riscoprendo, specialmente la chiesa cattolica con la promulgazione del nuovo codice, i significati santificanti delle norme ecclesiastiche e delle tradizioni. Ricercare, studiare e approfondire la legge di santità e libertà può dunque essere un altro degli obiettivi comuni più importanti.

Tra i molti campi di confronto, possiamo sottolineare la difesa e la protezione della vita umana in ogni momento; l'impegno di volontariato sociale, di non violenza; l'aiuto alle popolazioni in stato di grave necessità; l'assistenza ai malati, ai drogati; l'educazione dei giovani; la promozione artistica, culturale e scientifica. In tutti questi sforzi siamo guidati dal desiderio fondamentale di promuovere la pace e la giustizia. Una pace - ha ricordato Giovanni Paolo II ai rappresentanti della Federazione israelitica svizzera a Friburgo - fondata sulla giustizia, sul rispetto dei diritti di ciascuno, sull'eliminazione delle cause di inimicizia, cominciando da quelle che sono nascoste nel cuore dell'uomo.

Conclusione

Vorrei ricordare che questa collaborazione richiede anche strutture comuni. C'è, ad esempio, l'International Liaison Committee tra la Commissione della Santa Sede per le relazioni religiose con l'ebraismo e il Comitato internazionale ebraico sulla consultazione interreligiosa. Altri incontri altamente qualificati si tengono in varie parti del mondo.

Occorre tuttavia che i singoli sforzi siano coordinati all'interno di canali di collegamento, sufficientemente agili da non mortificare la creatività, ma insieme capaci di assicurare un'unione fruttuosa di energie.

Un'altra struttura comune da creare e sviluppare potrebbe essere un centro di soccorso per gli emarginati, dove ebrei, cristiani e musulmani collaborassero insieme.

Se la chiesa cristiana si sente chiamata a essere coscienza critica, specialmente in Europa, dei tragici eventi e problemi che affliggono tutti noi, allora troverà al suo fianco, in questa missione, la forza della dottrina religiosa ed etica dell'ebraismo. Se la chiesa desidera essere ovunque promotrice del dialogo e della pace, luogo d'incontro universale dei popoli, nel nome di Cristo in cui tutte le cose verranno ricapitolate, allora è proprio nei confronti dell'ebraismo che questo dialogo e questa pace devono essere innanzitutto promossi. Più intensamente e profondamente ebrei e cristiani, nel rispetto della diversità dei contenuti specifici delle fedi, attueranno questa collaborazione fraterna, più la loro presenza avrà un significato per l'Europa del terzo millennio, e per il compito che l'Europa ha di fronte ha di fronte al resto del mondo.

1. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 16

[Tratto da Cristianesimo ed ebraismo, articolo pubblicato su "Explorations", rivista del Princeton Theological Seminary, maggio 1987, poi in Interiorità e futuro, EDB, Bologna 1988]

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