Marco Morselli
    Università di Modena e Reggio Emilia
    Tra Edut e Qiddush ha-Shem. Alcune
    riflessioni sul martirio nella storia ebraica.
    
    
      
        «E voi siete i miei edim, testimoni,
        detto di Adonai,
        e Io sono D.» Is 43,12
        «Per quale motivo sei condotto al
        patibolo?
        Perché ho circonciso mio figlio.
        Per quale motivo sei condotto al rogo?
        Perché ho letto la Torah.
        Per quale motivo sei condotto alla crocifissione?
        Perché ho mangiato il pane azzimo.
        Per quale motivo sei percosso dal flagello?
        Perché ho agitato il lulav». Mekhilta su Es 20,6
      
    
    Affrontando il tema della Edut
    e del Qiddush ha-Shem siamo al cospetto di due dei più significativi
    concetti dell’ebraismo. Le origini sono bibliche: «Voi custodirete le mie
    mitzwot e le farete: Io sono il Signore. E non profanerete il mio
    santo Nome e sarò santificato tra i figli d’Israele: Io sono il Signore
    che vi santifica» (Lv 22,31-32). Il Qiddush ha-Shem è strettamente
    connesso al suo opposto, lo Chillul ha-Shem. In Ez 20,36-39 è il
    Signore a santificare il suo Nome attraverso la redenzione d’Israele,
    mentre il suo Nome è profanato dall’esilio d’Israele. Ancora si possono
    vedere Nm 20,12, Dt 32,51, Ger 34,12, Am 2,7. Anche nella letteratura
    rabbinica i due aspetti sono collegati: Sotah 36b, Sanhedrin 107a,
    Bereshit Rabbah 49,9.
    Già in epoca tannaitica l’espressione
    assume il significato più tecnico di essere pronto a morire come martire.
    Il martire viene chiamato qadosh. Nel Concilio di Lydda (II sec.)
    vengono precisate le regole del martirio: è obbligatorio pur di non
    incorrere in idolatria, gilluy arayot (peccati sessuali) e omicidio (Sanhedrin
    74a). È significativo che si tratta esattamente dei tre comandamenti che
    devono essere osservati dai goyim che entrano nell’Alleanza secondo
    le decisioni del Concilio di Gerusalemme (At 15). Mentre tutti gli altri 610
    comandamenti possono essere violati pur di aver salva la vita, e anzi devono
    essere violati per salvare una vita, in questi tre casi bisogna essere
    pronti ad affrontare il martirio.
    Negli ultimi decenni, gli
    studiosi hanno iniziato ad interessarsi alle interconnessioni tra martirio
    ebraico e martirio cristiano. La discussione in corso è di estremo
    interesse ed è in stretta connessione con la nuova consapevolezza del
    rapporto esistente tra ebraismo e cristianesimo. Nella precedente percezione
    del problema, i martiri ebrei di età ellenistica erano i precursori dei
    martiri cristiani, e il martirologio ebraico non aveva altro spazio. Già
    solo questo fa capire l’importanza della svolta. Il confronto è però
    appena agli inizi, e il rischio di incorrere in fraintendimenti è dietro l’angolo.
    Jan Willem van Henten, un’autorità
    sull’argomento, inizia un suo contributo con l’affermazione: «Martyrs
    are holy persons». Su questo punto ebrei e cristiani concordano. I martiri
    sono qedoshim. Poi prosegue scrivendo: «”Martyr” has become an
    established expression for persons who die a heroic death, especially in
    Christian, Jewish and Muslims sources». Questa affermazione invece non è
    condivisibile. Il martirologio ebraico offre numerosissimi esempi di morti
    non “eroiche”, che sono anzi il contrario di una morte eroica, o nobile.
    Lo studioso continua: «Such martyr texts describe how a certain person, in
    an extremely hostile situation, preferred a violent death to
    compliance with a decree or demand of the (usually) pagan authorities:
    the martyr decides to die rather than to obey the foreign government.
    He or she is executed by this government and does not die by his or her
    own hands». Anche in questo caso, il martirologio ebraico offre
    numerosissimi esempi (nel XX secolo: milioni) di martiri, santi, che non
    avevano libertà di scelta. Figuren, Stücken non sono dotati di
    libero arbitrio. Inoltre, anche se il suicidio è di per sé vietato, in
    casi estremi vi sono stati, sia nella storia antica, che medievale, moderna
    e contemporanea, casi di suicidi individuali e collettivi.
    Un altro aspetto che deve
    essere sottolineato è che, anche se martiri cristiani si hanno fino ai
    nostri giorni, il martirologio cristiano conosce il suo culmine nei primi
    secoli, mentre il martirologio ebraico ha conosciuto picchi in diversi
    periodi (70, 135, 1096, 1349, 1492, 1648) e il suo culmine nel XX secolo
    (1933-45). Daniel Boyarin ha messo in evidenza che ebraismo e cristianesimo
    «remained within Judaism» fino al IV secolo, dal momento che il «parting
    of the ways» è avvenuto più tardi di quanto non si ritenesse. La
    preoccupazione dei Maestri è sempre stata di non soffermarsi sulle tragedie
    e sulle sofferenze, e di ricordare i martiri in modo simbolico e allusivo.
    Vorremmo fornire un esempio di tale atteggiamento.
    «There are memories so
    painful that they must be store away and hidden lest they break the heart.
    In Jewish history, there are some memories so poignant that they must be
    veiled to make them bearable. The tradition refers to them in a code
    language. In this way, those who can handle the pain will know; those for
    whom the agony is too much will be shielded». Le guerre di indipendenza
    degli Asmonei durarono trent’anni. Dei fratelli Maccabei quattro morirono
    tra indicibili sofferenze. Eppure, la festa di Hanukkah ricorda solo
    il piccolo miracolo dell’ampolla ritrovata, che conteneva olio per una
    sola sera e invece riuscì a fare luce per otto sere. «We light candles and
    oil in memory of the miracle; the hanukkiah reminds us of the Temple.
    Where is the recollection of the Maccabbee’s sacrifice hidden?». Oltre
    alle otto luci, ce n’è una nona, lo shammash, che serve ad
    accendere le altre. In questo servitore silenzioso possiamo vedere i
    fratelli Maccabei e tutti coloro che hanno affrontato la morte perché la
    fede potesse continuare.
    Questo aspetto va tenuto
    presente quando si osserva: «In comparison with the numerous martyrs in the
    ancient christian Acts and Passions, there are striking few martyrs
    mentioned in rabbinic sources».
    Anche nei periodi successivi,
    nuovi martirii vengono ricordati richiamandosi a un numero estremamente
    limitato di modelli: «A medieval composition [Maaseh Asarah Haruge
    Malkhut, Atti dei dieci uccisi dal Regno, ossia l’Impero Romano]
    dealing with the persecution under Hadrian, which rabbinic tradition recalls
    as the most dreadful religious oppression in post-biblical times, presents a
    series of no more than ten persons who suffer martyrdom». Van Henten
    riconosce che «This low occurence, however, neither indicates that death in
    persecution was a marginal phaenomenon in ancient Judaism, nor does it meen
    that rabbinic tradition attached only little importance to it» ma non ne
    coglie la motivazione profonda quando spiega che «what it reveals is rather
    that the rabbinic concern for martyrdom was not so much with individual
    cases and with historical details as it was with theology and ethics».
    I tre giovani del libro di Daniele,
    Hannah e i suoi sette figli, i Dieci martiri del Regno, la Aqedat
    Yitzchaq (la legatura di Isacco) costituiscono i modelli del martirio
    ebraico attraverso i secoli. La Aqedah merita un discorso a parte, in
    quanto Isacco non viene ucciso, e Abramo compare quasi come un uccisore.
    Tuttavia Isacco diviene il modello di chi è pronto ad affrontare la morte.
    Dalla ripetizione delle parole «e andarono tutti e due insieme» in Gn
    22,8, Rashi deduce che Isacco allora capì che stava per essere ucciso e
    accettò la propria morte. In Bereshit Rabbah 56,4 «Isacco tremò e
    si scossero le sue membra, perché comprese il pensiero del padre suo; e non
    riusciva a parlare. Tuttavia si fece forza e disse al padre suo: “Se è
    vero che il Santo, benedetto Egli sia, mi ha scelto, allora la mia anima è
    donata a Lui!”. E Isacco accettò con pace la propria morte, per adempiere
    il precetto del suo Creatore». Secondo il Midrash a Sal 116,6 fu
    anzi lui stesso a legarsi all’altare.
    Abramo è colui che
    accompagna il figlio a morire. Nei Siddurim del tempo della Peste
    Nera è stata trovata, oltre alle benedizioni da recitare sul vino e sul
    pane, una benedizione da recitare prima di uccidere i figli e darsi la
    morte. André Neher ha osservato che La Nuit di Elie Wiesel è una
    sorta di Aqedah alla rovescia, in cui è il figlio che accompagna il
    padre a morire. Secondo altri commenti, la vera prova per Abramo è stata
    quella di rinunciare al sacrificio, di scendere dall’altezza spirituale
    alla quale era giunto con il suo fervore.
    2. La riscoperta dell’ebraicità
    di Gesù consente di reinserire anche la sua morte all’interno del suo
    contesto ebraico. Rav Yeshua ben Yosef è morto crocifisso dai Romani come
    migliaia e migliaia dei suoi fratelli. Ci sono voluti tre secoli perché
    quella morte per il Qiddush ha-Shem venisse trasformata nel terribile
    crimine del deicidio. Quali ne siano state le conseguenze, non dobbiamo qui
    ricordarlo. «In tutta la Cristianità, da diciotto secoli, si insegna
    correntemente che il popolo ebraico, pienamente responsabile della
    crocifissione, ha compiuto l’inesplicabile crimine del deicidio. Non vi è
    accusa più micidiale: effettivamente non vi è accusa che abbia fatto
    scorrere più sangue innocente». Per citare un catechismo cattolico degli
    anni Cinquanta: «C’était la fin: le peuple de Dieu avait cessé d’exister…
    L’Evangile indique le moment précis où le monde juif a pris fin». La
    morte di Gesù diventa la morte del popolo ebraico. Yeshua diviene il Messia
    crocifisso di un popolo crocifisso.
    3. A parte Filone,
    Giuseppe Flavio, lo Yosippon e alcune altre significative eccezioni, la
    storiografia ebraica è nata nell’Ottocento. La memoria ebraica disponeva
    di canali rituali e liturgici: Hanukkah, Purim, tre giorni all’anno
    di digiuno per ricordare la distruzione del Primo e del Secondo Tempio: il
    10 di tevet, quando Gerusalemme era stata cinta d’assedio dai Babilonesi,
    il 17 di tammuz, quando le mura vennero sfondate, e il 9 di av, giorno della
    distruzione sia del Primo che del Secondo Tempio. Il 9 di av viene anche
    ricordato il Gerush, l’espulsione di circa 200.000 ebrei dalla
    Spagna, dei quali forse 20.000 non sopravvissero. Il Gerush è stato
    preceduto e seguito dal martirio marrano. Negli archivi delle Comunità
    venivano conservati i Memorbücher, con i loro resoconti delle
    persecuzioni e i nomi dei martiri, da leggere ad alta voce in occasione
    delle celebrazioni per i defunti. Tra libri della memoria e storiografia si
    collocano La valle delle lacrime di Yosef ha-Cohen e Il fondo dell’abisso
    di Nathan Hannover. Il primo racconta dei massacri al tempo delle
    Crociate, il secondo delle Comunità distrutte al tempo di Chmielnicki. Fu
    la Wissenschaft des Judenthums a reinserire la storia degli ebrei
    nella storia dei popoli, e dovette sforzarsi di evitare che la storia
    ebraica coincidesse con la storia dell’antisemitismo. Shlomo Baron
    criticò esplicitamente «la concezione lacrimosa della storia ebraica».
    Venne però superato da Yudka, un kibbutznik che non prendeva mai la
    parola nelle riunioni del suo villaggio, il quale tenne un giorno questo
    discorso: «Voglio dichiarare che sono profondamente contrario alla storia
    ebraica. Io vorrei addirittura proibire che s’insegnasse la storia ebraica
    ai nostri bambini. Perché diavolo dovrebbero imparare le vergogne dei loro
    antenati? Io direi soltanto: “Ragazzi, dal giorno in cui siamo stati
    esiliati dalla nostra terra siamo stati un popolo senza storia. La lezione
    è finita. Andate fuori a giocare a pallone”».
    4. Con il nome
    Ka-Tzetnik 135633 aveva scritto Salamandra, uno dei primi libri sulla
    Shoah pubblicati in Israele. Per questo venne chiamato a
    testimoniare al processo Eichmann. Quando però i giudici gli chiesero se
    lui, Yehiel De-Nur, fosse Ka-Tzetnik, fu colpito da un collasso e svenne.
    Non era in grado di riconoscere il collegamento tra sé e la sua
    testimonianza. La sofferenza era enorme, ogni notte veniva svegliato da
    terribili incubi, decise di recarsi in Olanda per farsi curare da uno
    psichiatra specializzato nella terapia dei sopravvissuti dei Campi tramite
    LSD. Il libro nel quale Ka-Tzetnik racconta le sedute si intitola Shiviti.
    Sopra al nome dell’Autore compaiono quattro lettere ebraiche che
    vengono traslitterate con E.D.M.A., una parola di cui non si conosce il
    significato, che gli appariva ogni volta che stava per morire. Shiviti
    è il nome di una sorta di mandala che è appeso nelle Sinagoghe e viene dal
    salmo 16,8 : «Ho posto il Signore sempre davanti a me».
    Ad Auschwitz per due anni
    aveva visto gli sguardi delle persone in fila verso il Crematorio: «Loro
    sapevano dove andavano. Io sapevo dove andavano. Gli occhi di chi procedeva
    in avanti scavavano attraverso gli occhi di chi restava. Sopra di noi il
    cielo in silenzio, ai nostri piedi la terra in silenzio. Solo l’incontro
    degli occhi e un ultimo silenzio, l’impercettibile suono dei passi.
    Perché è a piedi nudi che andavano al Crematorio». Aveva incorniciato e
    appeso sulla sua scrivania una foto ritagliata da una rivista. La foto
    (riprodotta nel libro) mostra un ebreo con il talled e i tefillin
    davanti a un gruppo di soldati tedeschi che ridono divertiti. La scatola
    della tefillah del capo si è aperta a formare tre punti, come una
    ש shin, ed è posta sul capo come una corona. Un attimo dopo lo
    scatto della foto una pallottola avrebbe unito l’ebreo in preghiera alla
    fila dei cadaveri allineati ai piedi di quei soldati. K-Z percepisce «la
    luce nascosta che irradiava dal volto dell’ebreo. Solo ad Auschwitz mi è
    stato concesso di trovarmi di fronte a quella luce». Un attimo dopo gli
    avrebbero sparato, «ma prima che cada tra i morti allineati sul terreno,
    gli orizzonti improvvisamente si infiammeranno di straordinarie
    incandescenze azzurre mai viste prima». È la foto di un martire,
    interamente concentrato nella preghiera, pronto per il Qiddush ha-Shem,
    un attimo prima del martirio.
    Dopo cinque sedute della
    terapia De-Nur, contro il parere dello psichiatra, interrompe il
    trattamento. Era riuscito a rivivere il momento in cui la sua anima si era
    divisa, collegato a memorie molto dolorose riguardanti sua madre, sua
    sorella e suo fratello. Non poteva continuare, «non sarei mai disceso
    nuovamente agli inferi». Torna a casa sua, in Israele. Per la prima volta
    dopo trent’anni riesce a dormire la notte. Ma se la notte dorme, le sue
    giornate sono insopportabili. Il demone della notte ha lasciato il posto a
    quello del giorno. Fino al giorno in cui inizia a scrivere Shiviti,
    mantenendo così la promessa fatta lasciando il Campo: «Sulle loro ceneri
    avevo promesso che sarei stato la loro voce e, quando avevo lasciato
    Auschwitz, erano venuti via con me: loro e, senza un solo rumore, le
    baracche del Campo, il Crematorio silenzioso, gli orizzonti muti. E a
    mostrare la strada si ergeva davanti a me la montagna di cenere». In dieci
    anni ha completato la sua terapia, attraverso le sedute e la scrittura del
    libro. Yehiel De-Nur ha affrontato il martirio della testimonianza del
    martirio.
    Nonostante tutto quello che
    è stato scritto sulla Shoah, siamo ancora lontani dal capire cosa sia
    successo nei Campi. La testimonianza di De-Nur apre gli occhi: «Ho visto lo
    Shiviti… e ho visto Dio in una nuvola… e lo Spirito di Dio che
    aleggiava nelle lettere del suo Nome… la gloria che riempiva l’orizzonte,
    dalla terra di Auschwitz ai cieli di Auschwitz». Noi vediamo i cadaveri
    ambulanti, non vediamo i qedoshim, i santi martiri. Vediamo le
    uccisioni, non vediamo le ascensioni,i cieli aperti e le scale di Giacobbe
    sulle quali salgono e scendono angeli. «I cieli prendono fuoco, ma la terra
    è avvolta nell’oscurità nonostante l’incendio del firmamento». La
    luce di Auschwitz è la luce messianica della Redenzione che inizia a
    illuminare il nostro mondo.
    Il Qiddush ha-Shem è
    il modo ebraico di condurre la guerra santa. La guerra dei figli della luce
    e dei figli delle tenebre alla quale si preparavano gli esseni di Qumran
    prima di essere massacrati dai Romani è continuata, o si è conclusa, ad
    Auschwitz. «O Signore, fa’ che io possa sopravvivere. Fammi resistere…
    fammi resistere. Ho fatto un giuramento, ho fatto voto di essere la loro
    voce. Risparmiami, Signore. Nessuno uscirà vivo di qui. Io sarò testimone
    della tua fulgida presenza nelle lettere che compongono il tuo Nome. Sarò
    il testimone del tuo Volto ad Auschwitz».
    5.  «La stragrande
    maggioranza degli esseri umani ha sempre condotto, nella povertà e nell’oppressione,
    un’esistenza scandita dalle sventure e dalle sofferenze. Pochi sono
    sfuggiti alle piaghe della malattia, pochissimi altri sono scampati ad una
    vecchiaia devastante, a meno che non abbiano conosciuto una fine prematura.
    Nessuno, fino ad oggi, è sfuggito alla morte. Milioni di individui senza
    nome e senza volto hanno fatto per lo più l’esperienza di un mondo
    indifferente ed ostile. Da un punto di vista statistico, la vita umana è di
    poco valore. I poveri, i reietti, accettano il loro destino come qualcosa di
    inevitabile. I ricchi e i potenti considerano il loro successo come loro
    dovuto. Il regno della forza, anziché quello della giustizia, sembra la
    norma.
    Ebbene, la religione ebraica
    afferma che non deve essere così… La liberazione degli schiavi [l’Esodo]
    ha testimoniato che l’uomo è destinato ad essere libero. La storia non
    potrà concludersi senza che tutti gli uomini siano liberi». La scena sulla
    quale viene proclamata la testimonianza è la storia.