Elio Maraone, su "Avvenire" del 21 luglio 2004

L'appello di Sharon, la reazione francese

Non è soltanto il conflitto israelo-palestinese a preoccupare l'Europa, e a rendere tormentato, talvolta ambiguo, il rapporto fra questa e il Medio Oriente. Ieri, mentre il presidente palestinese Yasser Arafat tornava sui suoi deprecabili passi di politica interna, il primo ministro israeliano Ariel Sharon faceva marcia indietro rispetto al proprio appello di domenica agli ebrei di Francia. 

Un appello nel quale li invitava a lasciare al più presto il Paese per sfuggire - riparando in Israele - a un antisemitismo «sfrenato». Un portavoce di Sharon ha affermato ieri che il primo ministro è stato «frainteso», avendo semplicemente espresso l'opinione che tutti gli ebrei nel mondo appartengono a Israele, e lì sono e saranno benvenuti. 

La rettifica non convince nessuno, ed appare dettata dal desiderio di non irritare ulteriormente il governo di Parigi, con il quale i rapporti di quello di Gerusalemme si sono fatti più aspri da quando, recentemente, il ministro degli Esteri francese Michel Barnier ha reso visita ad Arafat, che Israele vorrebbe isolato da tutti. 

L'irritazione di Parigi nei confronti del premier israeliano non si è comunque placata: infatti l'Eliseo ha fatto sapere ieri sera al governo di Gerusalemme che Sharon, in questo momento, non sarebbe «benvenuto», e che una sua visita, alla quale si stava lavorando da tempo, è rinviata a tempi migliori. Sono inoltre da ricordare, per speciale durezza, le parole dello speaker dell'Assemblea nazionale, Jean-Louis Debrè: «Sharon ha perso l'occasione di stare zitto, le sue dichiarazioni sono inammissibili, inaccettabili e, ancora peggio, irresponsabili». 

Non c'è dubbio che Sharon abbia esagerato, anche nel collegare l'antisemitismo «sfrenato» con il fatto che il dieci per cento della popolazione francese è oggi di religione islamica. Come ha detto Haim Korsia, collaboratore del Gran Rabbino Josef Sitruck, «la situazione non obbliga a emigrare, è inconcepibile pensare alla partenza come a una fuga». «La Francia - ha aggiunto il politologo Marc Knobel - non è uno Stato antisemita, gli ebrei non si trovano in pre-pogrom». Tutto vero, anche perché i vertici dello Stato, a cominciare dal presidente Jacques Chirac, si sono sempre opposti ad ogni rigurgito antisemita. 

Ma il problema di un antisemitismo crescente, anche oltre i confini francesi, esiste. Contro la grande (600mila persone) comunità ebraica di Francia nel primo quadrimestre di quest'anno le aggressioni, rispetto al 2003, sono raddoppiate (94 contro 47), prendendo come bersaglio non soltanto le persone, ma anche le sinagoghe e i cimiteri. Insomma, se non si è all'allarme rosso, tale da giustificare l'esodo invocato da Sharon, ci sono seri motivi di preoccupazione, mentre ci si chiede se l'antisemitismo sia innervato da predicatori fanatici, da reietti islamici che vedono nell'ebreo l'ideale capro espiatorio, o da una cultura politica avvelenata e velenosa che, tra l'altro, guarda a Israele come al principale alleato e ispiratore degli Stati Uniti. Probabilmente, tutti questi elementi concorrono al fiorire di una pianta che, nelle sue radici profonde, è razzista e nemica del «diverso». 

In conclusione: Sharon ha sbagliato nei modi, dettati forse anche dalla volontà di colpire nel governo francese l'avanguardia di una politica europea filoaraba, e certamente dal desiderio di contrastare, pure con l'immigrazione di ebrei francesi, la crescente pressione demografica palestinese. Ma il suo appello non è per questo illegittimo (tra gli scopi della nascita di Israele spiccava quello di dare aiuto e rifugio agli ebrei in pericolo nel mondo), mentre può servire a rinnovare la giusta convinzione che l'antisemitismo rappresenta una minaccia non soltanto per gli ebrei, ma anche per le intere società che li ospitano.

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