Da L'Unione Sarda di Cagliari del 24 gennaio 2002
Il racconto di Piero Terracina, ebreo,
ex deportato nel lager di Auschwitz - Birkenau

 La memoria svelata con un filo di voce, ma senza più odio.
Alberto Melis


Difficile capire quando sia veramente cominciata la guerra di Piero. Forse a soli 10 anni, quando il suo maestro lo allontanò da scuola perché ebreo. Forse qualche anno più tardi, il 7 aprile del 1944, quando la gestapo lo portò via insieme ai familiari. Forse nel campo di transito di Fossoli, quando imparò la morte negli occhi di un uomo ucciso a sangue freddo da una SS. 


O forse, chissà, solo in quel carro bestiame - 64 persone per sei giorni in piedi tra i propri escrementi e l’alito fetido della premonizione dello sterminio - che varcò i cancelli di Auschwitz-Birkenau.

Piero Terracina, invitato a Cagliari da Vincenza Ibba, presidentessa del Soroptimist, e da Giacomo Sandri, della comunità ebraica sarda, per raccontare la sua esperienza di sopravvissuto alla Shoah (introdotta da una relazione di Gabriella Olla Repetto), ha incollato a un silenzio avido di sapere centinaia di persone convenute nell’aula magna della Facoltà di Lettere. 

Con un tono di voce mai sopra le righe, e con un mucchietto di fogli stretto tra le mani, ha assolto all’imperativo leviano di ricordare “che questo è stato”.
Ricostruendo con straordinaria lucidità le vicende della deportazione degli ebrei italiani, e riannodando più tardi davanti a un registratore i fili della memoria degli ultimi mesi vissuti nel lager.

“Avevo quindici anni - racconta, - i miei genitori erano già stati uccisi, ma io non ho mai pianto a Birkenau, se non subito dopo l’arrivo. Quali sono i ricordi di un ragazzo nel lager? Ricordo un giovanissimo soldato delle SS. Era diverso dagli altri. Un viso umano tra tante figure infernali. Avevo provato persino l’impulso di parlargli, come un ragazzo può parlare a un altro ragazzo. 

Lo rividi nell’ottobre del ‘44, il giorno in cui gli ebrei di un Sonderkommando si ribellarono e fecero saltare in aria il crematorio numero 3. La sirena suonava, noi fuggivamo verso le nostre baracche, e il giovane SS aveva montato sul manubrio della sua bicicletta un mitra. Pedalò e sparò e uccise molti di noi, con la sua faccia da ragazzo per bene.

“Quando cominciarono poi a cambiare le cose? Nei mesi immediatamente successivi. I sovietici avanzavano - racconta ancora l’ex matricola A5506 - e i tedeschi distrussero camere a gas e forni crematori, nel tentativo di cancellare le prove dello sterminio. Ma si continuava a morire come mosche. Ai margini del lager vennero scavate gigantesche fosse, dove i corpi venivano bruciati. C’era sempre un fetore orribile, nel campo. Quando le SS capirono che non sarebbero mai riusciti a far sparire tutti gli internati rimasti, 60 mila persone circa, cominciarono le marce della morte. Due miei fratelli partirono. Uno morì di sfinimento prima di arrivare a Mathausen. L’altro morì di fame vicino a Stoccarda. Io invece non partii. A gennaio venni ricoverato nell’ospedale del campo, pesavo circa 35 chili, non potevo marciare, e non c’erano più le camere a gas. Per questo non morii in quei giorni.

“Quando uscii dall’ospedale - Piero Terracina stringe le mani sul grembo - il campo di Birkenau era quasi deserto. Le SS si vedevano solo di tanto in tanto e noi ultimi sopravvissuti dormivamo nelle immense baracche vuote. Di notte le coperte diventavano lastre di ghiaccio e non avevamo niente da mangiare. Per bere raccoglievamo la neve con le gamelle, quella fresca o un po’ distante dai cadaveri abbandonati sul terreno. Poi il 25 gennaio rientrò a Birkenau un plotone delle SS. Ci radunarono. Eravamo rimasti in duecentocinquanta e ci costrinsero a seguirli fuori dal campo. Pensammo che ci avrebbero portato in un bosco non distante, per ucciderci. A salvarci, me e qualche compagno, fu il fatto che le SS erano poche e che venne il buio. Restammo un po’ indietro. D’istinto ci gettamo nel fossato.

“Quella notte girammo in tondo per ore - le labbra di Terracina si piegano in una smorfia, - perché quando raggiungemmo alcune costruzioni ci rendemmo conto di essere arrivati solo ad Auschwitz 1, che distava da Birkenau appena tre chilometri. Fu lì che però trovammo qualcosa di straordinario, in un deposito abbandonato dalle SS. Bottiglie di vino, fagioli secchi e un barattolo da cinque chili di conserva di pomodoro Cirio. Uno di noi, un greco, cucinò quei fagioli su una stufa, e riuscì persino a dire che “gli ricordavano casa”. Ne demmo un po’ anche a un nostro compagno che stava morendo. Si chiamava Giorgio, era di Bologna, si era consumato per la dissenteria. Ma volle assaggiare ugualmente quei fagioli, prima di morire, meno di mezz’ora dopo. Era la notte del 26 gennaio. L’indomani mattina aprii la porta. E davanti a me vidi un uomo con il mitra in mano. Non era un tedesco. Era il primo soldato russo che metteva piede ad Auschwitz. Tornai dentro. Dissi ai miei compagni che eravamo liberi. Ma a nessuno, nemmeno al greco, sfuggì un’esclamazione di gioia.

“No. Non ci rendevamo ancora veramente conto - sospira Piero Terracina - della differenza tra la vita e la morte. Nel mese successivo i russi ci curarono, ci rimisero un po’ su. Ma loro non potevano pensare solo a noi. Dovevano anche continuare a combattere. Così ci chiesero di dare una mano a ripulire il campo. E lo facemmo raccogliendo i corpi. Io e altri, in particolare, vicino al muro delle fucilazioni di Auschwitz, dove c’era un edificio a più piani. E dove nei seminterrati i cadaveri arrivavano sino al soffitto. Un giorno ci dissero di portare giù il corpo di una ragazza. Era giovane, non pesava neppure trenta chili. Ma per noi, in due, anche quei trenta chili erano troppi. E allora - la voce di Terracina s’impenna e incespica e vorrebbe forse urlare - la trascinammo giù come potemmo. Non dimenticherò mai quel rumore secco. Il rumore della sua testa sui gradini.

“Però non piansi. Non ancora. Riuscii a farlo solo dopo, steso su un lettino, quando mi ritrovai solo. Piansi per ore, senza riuscire a fermarmi. Perché finalmente avevo capito ciò che ci era successo, ciò che ci avevano fatto. E solo allora ritrovai Dio, il Dio che in molti avevamo smarrito ad Auschwitz”.

Quando Piero Terracina finisce di parlare, e sul suo viso ricompare lo straordinario e accattivante sorriso di un uomo che certo non ha dimenticato, ma che pure ha impedito alla sua vita di macerarsi nell’odio, capisci che la sua guerra è finita davvero. Con dignità. E che di uomini come lui, con il suo coraggio e con la sua fede ritrovata (“Che altro sarebbe una vita senza Dio - conclude - se non tornare all’inferno di Auschwitz?”), abbiamo ancora tutti un disperato bisogno.

| home | | indietroinizio pagina |