Silvio Ferrari, su "Vita e Pensiero" n.1 - gennaio-febbraio 2004

L'articolo riguarda, in generale, la politica vaticana in Medio Oriente, comprese le novità intervenute dopo l’11 settembre. Ne è autore Silvio Ferrari, professore di diritto e politica ecclesiastica alle università di Milano e Lovanio.

La politica medio-orientale della Santa Sede ha seguito per molto tempo linee ben definite, caratterizzate da alcuni obiettivi chiaramente identificati.

Negli ultimi anni però gli equilibri complessivi di tutto il Medio Oriente sono stati modificati dallo sviluppo del radicalismo islamico, dall’allontanamento delle speranze di risolvere pacificamente il conflitto israelo-palestinese e, più radicalmente, dalle scelte compiute dal governo degli Stati Uniti in risposta agli eventi dell’11 settembre 2001.

Non è soltanto questione dell’intervento militare in Afghanistan ed in Iraq e dell’appoggio sempre più incondizionato prestato dall’amministrazione Bush alla politica del premier israeliano Ariel Sharon: queste iniziative si inquadrano infatti in un disegno molto più ambizioso, che ha l’obiettivo dichiarato di combattere il terrorismo internazionale rovesciando (con l’uso preventivo della forza, se necessario) i regimi dittatoriali del Medio Oriente e sostituendoli con governi democratici.

È troppo presto per sapere se questo progetto americano avrà successo: ma con esso (e con gli altri fattori che hanno modificato il quadro medio-orientale) la politica del Vaticano deve fare i conti, valutando se la strategia seguita fino ad ora per raggiungere i propri obiettivi richiede di essere corretta in seguito ai mutamenti avvenuti.


I TRE OBIETTIVI CHE HANNO FIN QUI CONTRADDISTINTO LA POLITICA VATICANA IN MEDIO ORIENTE


1. Il primo obiettivo della politica medio-orientale della Santa Sede è stato ed è quello di mantenere e consolidare la presenza delle comunità cristiane, in particolare cattoliche, nei luoghi dove il cristianesimo ha avuto inizio.

Le memorie della vita di Cristo e delle prime Chiese cristiane, attestate dai luoghi santi sparsi in tutta la regione, conferiscono a questo obiettivo un’importanza che trascende la modesta consistenza numerica dei cattolici, di rito latino od orientale, residenti in Medio Oriente. La posta in gioco è molto più alta: si tratta infatti di mantenere intatto il filo che collega le odierne comunità cristiane a quelle delle origini.

Ormai da molti secoli la salvaguardia della presenza cristiana in Medio Oriente passa attraverso il riconoscimento della propria condizione di minoranza e lo sviluppo di forme di coabitazione con la maggioranza musulmana e, in Israele, ebraica.

Nell’epoca recente il modello ideale di coabitazione è stato individuato nel Libano, dove l’equilibrio numerico tra cristiani e musulmani garantiva la parità dei cittadini appartenenti alle due comunità e consentiva l’instaurazione di un sistema politico con componenti democratiche più sviluppate di quelle che esistevano in molti altri paesi della regione.

Ma si trasttava di un’eccezione non riproducibile negli stati dove i cristiani sono in netta minoranza: qui la Santa Sede accetta il regime del “millet” – e quindi l’applicazione di statuti giuridici diversificati in nome dell’appartenenza religiosa – ma rifiuta quello della “dhimmitudine” almeno in linea di principio, in nome dell’uguaglianza dei diritti civili e politici spettanti ad ogni cittadino.

Il progetto, caro a metà Novecento a una minoranza araba di formazione occidentale, di ripensare i sistemi politici dei paesi mediorientali sulla base del principio di laicità non ha mai trovato grande favore presso la diplomazia pontificia, convinta dell’impraticabilità di trapiantare dall’una all’altra sponda del Mediterraneo una nozione che la maggioranza della popolazione araba sente estranea alla propria storia e cultura.

A partire dal 1948 un analogo problema di coabitazione si è posto in relazione alla popolazione ebraica che costituisce la maggioranza nello stato di Israele. Ma in questo caso il problema, che in passato è stato complicato da considerazioni teologiche sulla legittimità della ricostituzione di uno stato ebraico in Terra Santa, presenta caratteri differenti: non esiste infatti una comunità ebraico-cristiana che abbia storia, consistenza e struttura analoghe alle comunità arabo-cristiane dei paesi circostanti. La debolezza di una comunità cristiana di espressione ebraica rappresenta un elemento di squilibrio che si ripercuote inevitabilmente anche sulla politica vaticana.

2. Il secondo obiettivo dell’azione diplomatica della Santa Sede consiste nella salvaguardia dei luoghi santi e, in particolare, di Gerusalemme.

Anche in questo caso la posta in gioco è più alta della pur importante garanzia dell’integrità fisica di edifici e luoghi che ricordano la vita e le opere di Gesù: nel disegno sotteso agli interventi di Giovanni Paolo II e dei suoi predecessori si coglie con crescente chiarezza la convinzione che il destino di Gerusalemme sia quello di costituire il punto visibile della riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani, divenendo (anche istituzionalmente) il segno concreto della possibilità di una pacifica convivenza dei fedeli di queste tre religioni in tutto il Medio Oriente.

L’insistenza con cui la diplomazia pontificia ha sostenuto, in riferimento a Gerusalemme, le proposte prima di internazionalizzazione e poi di garanzie internazionali indica, al di là dei meriti intrinseci a queste soluzioni, la volontà di testimoniare un valore che travalica i confini della politica: l’approccio pontificio alla questione medio-orientale non è limitato alla difesa della presenza cristiana ma, a partire da lì, si estende alla possibilità di un vicendevole riconoscimento di ebrei, cristiani e musulmani ed abbraccia il significato che questa intesa potrebbe avere sulle sorti della regione e del mondo intero.

In questo senso, la salvaguardia dei luoghi santi e la tutela delle comunità cristiane medio-orientali sono strettamente collegate e si inseriscono in un disegno che include l’opzione per la coabitazione islamo-cristiana e il riconoscimento pieno della presenza del popolo ebraico in Terra Santa: soltanto la coesistenza di queste tre componenti, infatti, può esprimere l’intento profondo sotteso alla politica vaticana, volta ad affermare la possibilità della convivenza tra i fedeli di religioni diverse a conferma che la fede in Dio può essere un fattore di concordia e non di conflitto.

3. Strettamente connesso con questi due obiettivi è lo sforzo di assicurare una soluzione pacifica ai conflitti che attraversano la regione medio-orientale, e in primo luogo a quello che oppone israeliani a palestinesi.

Al di là dei motivi ideali che ispirano l’attività della Santa Sede per la ricerca della pace, vi è infatti la consapevolezza che le tensioni e i conflitti che insanguinano il Medio Oriente spingono i cristiani ad emigrare, intaccano il significato dei luoghi santi – che, senza la presenza di una comunità di fedeli, si ridurrebbero inevitabilmente a musei privi di vita – e impediscono di dare spessore concreto all’ipotesi di coabitazione tra ebrei, cristiani e musulmani che ha guidato la diplomazia vaticana durante tutto il pontificato di Giovanni Paolo II.


CIÒ CHE DISTANZIA IL VATICANO DA STATI UNITI E ISRAELE


Questi tre obiettivi – difesa delle comunità cristiane, tutela dei luoghi santi, ricerca della pace, in un orizzonte segnato dalla scelta per la coabitazione dei fedeli di religioni diverse – contraddistinguono la politica medio-orientale della Santa Sede e ne determinano la marcata indipendenza da quella delle potenze occidentali e, in particolare, degli Stati Uniti.

In occasione del conflitto israelo-palestinese del 1948, della crisi di Suez e – per giungere ai giorni nostri – della prima e della seconda guerra del Golfo, la posizione della Santa Sede non si appiattisce mai sulla linea politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei: la lunga assenza, fino a dieci anni fa, di relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele, il partner più fedele di cui Washington dispone nella regione, è la manifestazione più evidente di questa divergenza.

Il principio della coabitazione tra cristiani e musulmani, che guida la politica vaticana, si concilia male sia con la politica del confronto che ha portato gli Stati Uniti (e, con crescente riluttanza, i loro alleati europei) a misurarsi duramente con l’Iran prima, con la Libia poi e infine con l’Iraq, sia con quella dell’appoggio incondizionato ad Israele, referente privilegiato degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Non si tratta di differenze marginali, bensì di due diverse interpretazioni dei processi socio-politici in svolgimento nei paesi arabi: una che ne privilegia gli elementi di minaccia all’identità e agli interessi economici dell’Occidente; l’altra che punta maggiormente (in una visione di lungo periodo) sui fattori di integrazione, sulla necessità di un equilibrio economico complessivo tra il nord e il sud del mondo e sulla possibilità di fare del Mediterraneo il punto di incontro tra differenti civiltà. Non più, però, di due bensì di tre civiltà: l’inserimento pieno della componente ebraica (e della sua organizzazione statale) nell’orizzonte della coabitazione (originariamente concepita tra cristiani e musulmani) è il risultato di un lungo e tormentato processo di riavvicinamento con cui la diplomazia vaticana è riuscita a dare consistenza (entro i limiti che definiscono le relazioni politiche) all’”utopia” pontificia della riconciliazione fra le tre religioni abramitiche.


LE OPZIONI APERTE ALLA DIPLOMAZIA VATICANA DAI MUTAMENTI SEGUITI ALL’11 SETTEMBRE 2001


Nel corso del pontificato di Giovanni Paolo II, lo scenario politico, culturale e religioso del Medio-Oriente è entrato in un radicale processo di trasformazione.

Il primo fattore di mutamento è stato la crescita del radicalismo islamico. Esso individua la strada per la rinascita dei paesi arabi medio-orientali nel ritorno ai valori dell’islam classico e quindi anche alla stretta compenetrazione di politica, società e religione che lo contraddistingueva: la reintroduzione più o meno ampia della shari’a nel sistema giuridico di alcuni paesi ne è l’espressione più evidente sul terreno del diritto.

La crescita del radicalismo islamico costituisce una seria minaccia per le comunità cristiane della regione. La rivalutazione del diritto islamico classico retrocede i cristiani allo statuto di “dhimmi”, ponendo nuovamente in questione principi di libertà ed uguaglianza che sembravano essersi faticosamente aperti la strada nell’ordinamento giuridico di alcuni stati medio-orientali. Il crescente risentimento verso gli Stati Uniti e l’Europa, a cui si imputa di volere mantenere il Medio Oriente in uno stato di inferiorità per poterlo sfruttare economicamente, coinvolge anche le Chiese cristiane, identificate a torto o a ragione con l’Occidente. Nei paesi dove le forze radicali giungono al potere (si pensi all’Iran e all’Afghanistan), la posizione delle comunità cristiane peggiora drasticamente.

Oltre a queste, la crescita del radicalismo musulmano ha avuto due altre conseguenze. Essa ha fornito una serie di argomentazioni religiose allo sviluppo del terrorismo: ne sono un esempio la giustificazione della guerra santa e la promessa di una ricompensa eterna per il suicida che si immola allo scopo di uccidere gli infedeli.

Benché il terrorismo di ispirazione religiosa interessi una esigua minoranza della popolazione musulmana, esso ha avuto un impatto devastante sull’opinione pubblica occidentale: da un lato ha spinto una parte di essa a identificare musulmani e terroristi, frenando il processo di integrazione delle comunità musulmane in Europa e ostacolando i progressi del dialogo interreligioso; dall’altro ha confermato (dopo l’esperienza della ex-Jugoslavia) che la religione può diventare un potente fattore di divisione e di conflitto. Ciò ha colpito al cuore il nucleo centrale della politica medio-orientale di Giovanni Paolo II, tutta incentrata sul disegno di ricostruire un clima di dialogo e di riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani a partire dalla comune fede religiosa.

Il terrorismo islamico ha inoltre innescato la reazione degli Stati Uniti ed il loro ritorno in forze nella regione medio-orientale. Dopo l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno occupato l’Afghanistan e, con giustificazioni giuridicamente deboli, l’Iraq. Hanno inoltre lasciato sostanzialmente mano libera al premier israeliano, Sharon, per risolvere unilateralmente la questione palestinese.

La Santa Sede ha condannato senza equivoci il terrorismo, definito un crimine contro l’umanità da cui ciascuno ha il diritto di difendersi (vedi il messaggio per la giornata della pace del 1 gennaio 2002), ma ha lasciato trapelare più d’un dubbio sulla bontà della strategia adottata per combatterlo.

Alcuni timori vaticani sono di ordine generale e sono stati ribaditi nel messaggio pontificio per l’ultima giornata mondiale della pace, quella del 1 gennaio 2003.

Il primo timore è che la lotta al terrorismo conduca ad alterare l’ordine giuridico internazionale sostituendo alla “forza del diritto” il “diritto della forza”. Le critiche alla teoria dell’attacco preventivo utilizzata per giustificare il secondo intervento statunitense in Iraq, l’insistenza sul ruolo indispensabile delle Nazioni Unite, la condanna della violazione delle norme di diritto internazionale nel trattamento dei detenuti sospettati di terrorismo sono le principali manifestazioni di questa preoccupazione. A giudizio della Santa Sede un’efficace azione contro il terrorismo esige non l’emarginazione ma la riforma e il potenziamento delle Nazioni Unite, non l’unilateralismo di una sola super-potenza ma la ricostruzione di una solidarietà internazionale internazionale che coinvolga attorno agli Stati Uniti il maggior numero di stati.

La Santa Sede inoltre considera pericolosa la dissociazione della repressione del terrorismo dall’azione politica e sociale volta a rimuovere le cause profonde che stanno all’origine delle azioni terroristiche. Sottolineare esclusivamente il lato criminale del terrorismo, senza analizzarne le motivazioni (e agire di conseguenza), non basta per dare una soluzione definitiva al problema, soprattutto in situazioni – come quella palestinese – dove il ricorso ad atti terroristici affonda le proprie radici nella frustrazione di una popolazione che non vede prospettive per il proprio futuro.

Infine trapela nella Santa Sede la preoccupazione per la facilità con cui alcuni esponenti dell’amministrazione Bush presentano l’intervento in Medio Oriente come un imperativo etico o addirittura religioso anziché una scelta in primo luogo politica: i riferimenti alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana sono visti come pericolosi poiché tendono ad avvalorare lo scontro di civiltà pronosticato da Samuel Huntington e temuto al di là del Tevere come la peggiore delle disgrazie.

Quest’ultimo scenario è giudicato particolarmente pericoloso proprio per l’impatto che può avere in Medio Oriente, dove le comunità cristiane hanno tutto da perdere nella prospettiva di uno scontro tra civiltà. È questa una delle ragioni per cui la Santa Sede insiste nel sottolineare l’indipendenza della propria posizione dalla politica degli Stati Uniti, che taluni in Vaticano considerano una riedizione del colonialismo europeo dei secoli scorsi e giudicano destinata, al pari di quest’ultimo, ad essere respinta dalla popolazione araba.

Di questa popolazione fa parte la grande maggioranza della comunità cristiana medio-orientale. E dalle sue aspirazioni, espresse da una gerarchia ecclesiastica che è ormai quasi completamente arabo-cristiana, la diplomazia vaticana non potrebbe, neppure se lo volesse, prescindere.

Di conseguenza la Santa Sede considera con scetticismo l’ipotesi di una democrazia esportata con le armi e continua a puntare, nonostante le crescenti difficoltà, su un processo di modernizzazione e democratizzazione che parta dall’interno della società medio-orientale, secondo la traccia che hanno cercato di seguire la Giordania e più recentemente il Marocco.


IL NUOVO ORDINE INTERNAZIONALE SECONDO LA SANTA SEDE


È improbabile che la diplomazia vaticana non si sia accorta che, con la caduta dell’Unione Sovietica, il quadro della politica internazionale è cambiato e le impalcature giuridiche che lo sorreggevano sono diventate obsolete: non è realistico interpretare la politica della Santa Sede soltanto in termini di rimpianto e difesa di un mondo che non c’è più. La segreteria di stato vaticana sa che la partita che si sta giocando riguarda i nuovi equilibri che si definiranno attorno alla leadership statunitense ed è consapevole che il Medio Oriente (insieme alla guerra contro il terrorismo) costituisce oggi il campo principale di questa partita.

Per questa ragione la Santa Sede insiste tanto sulla dimensione internazionale della questione medio-orientale e sulla necessità di affrontarla attraverso un coinvolgimento del maggior numero possibile di paesi. È un’esigenza che essa riafferma ogni volta che si affronta il conflitto israelo-palestinese (dove il Vaticano rivendica un ruolo più incisivo al quartetto – Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite – che dovrebbe attuare la “road map”), la questione di Gerusalemme (per la cui soluzione continua a richiedere un sistema di garanzie internazionali), la guerra e il dopoguerra in Iraq (che il Vaticano vorrebbe ricondurre entro l’ambito decisionale delle Nazioni Unite).

Sottesa a questa insistenza vi è in Vaticano la convinzione che l’egemonia degli Stati Uniti debba collocarsi all’interno di un preciso sistema di diritto internazionale e in un quadro stabile di cooperazione tra le nazioni: è questo il senso dell’ultimo messaggio pontificio per la giornata della pace, con la sua insistenza sul rispetto del diritto internazionale ("La pace e il diritto internazionale sono intimamente legati fra loro: il diritto favorisce la pace") e sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite, da riformare perché siano messe "in grado di funzionare efficacemente per il conseguimento dei propri fini statutari, tuttora validi".

La politica medio-orientale della Santa Sede assume in tal modo un significato che va al di là dei confini regionali, prefigurando la necessità di un ordine internazionale che sappia coniugare il ruolo predominante di una sola nazione con il coinvolgimento di tutte le altre.


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