UNA TAPPA DI APPROFONDIMENTO NEL CAMMINO GIUBILARE

Mons. Rino Fisichella (Vescovo Ausiliare di Roma)
Presidente della Commissione Diocesana per l'Ecumenismo e il Dialogo  

La stampa ha dato molto spazio nelle scorse settimane al Simposio sulle «Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano», organizzato dalla Commissione teologico-storica del Grande Giubileo dell'anno 2000. 

A onor del vero, come spesso succede nella concitazione del momento, si sono mescolate alcune notizie e contenuti che erano e rimangono distinti. 

Il Simposio aveva lo scopo di corrispondere a quanto il Santo Padre chiedeva nella sua Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente : compiere un serio esame di coscienza perché la memoria della nostra storia passata fosse purificata e in questo modo entrare nel prossimo millennio con più speditezza ed entusiasmo nell'annunciare e testimoniare la fede. 

Come si nota, esso si proponeva di essere un segno concreto di preparazione immediata al Giubileo attraverso lo studio serio e scientifico di un tema che tocca la vita della Chiesa fin dai suoi inizi. La questione è seria e nessuno può permettersi di trattarla in poche battute. 

I secoli passati hanno visto l'incomprensione e la sofferenza di due popoli, quello ebraico e quello cristiano, dovuta alla mancanza di dialogo circa la peculiarità delle due fedi. Le dispute si sono spesso compiute su precomprensioni e non sulla conoscenza diretta delle fonti, creando fraintendimento che hanno lasciato il segno nei linguaggi e nei comportamenti. Da ultimo, l'evento tragico della Shoah, pur non riguardando direttamente gli aspetti religiosi, ha certamente riportato dinanzi agli occhi del mondo intere) dove può arrivare l'ottusità e la perfidia cieca dell'odio.

Il Simposio che abbiamo celebrato aveva certamente un alto valore simbolico. Esso si svolgeva all'interno della Città del Vaticano e stava a dimostrare la volontà sincera e determinata di Giovanni Paolo Il perché si arrivasse a chiarificare alcuni «nodi storici» nel rapporto tra i due popoli. Queste giornate di studio si caratterizzavano, inoltre, per essere una riflessione intraecclesiale, compiuta cioè dai cristiani con la metodologia che caratterizza lo studio peculiare dei testi sacri; è stato questo, tra l'altro, il vero motivo per cui erano stati invitati solamente degli esperti cattolici estendendo l'invito anche ad alcuni fratelli cristiani. 

Il tema del Simposio verteva sulle radici dell'antigiudaismo. Termine questo scelto con avvedutezza per sottolineare la dimensione religiosa e non entrare nel merito di altre questioni (quali l'orizzonte razziale e politico che sono sottesi al termine antisemitismo) ugualmente importanti, ma che non erano di competenza della Commissione teologico-storica incaricata di provvedere alla preparazione di alcuni temi specifici e responsabile della loro applicazione unicamente per la celebrazione giubilare. 

La sottolineatura sulle «radici», d'altronde, voleva essenzialmente specificare il contesto su cui si sarebbe lavorato: i testi del Nuovo Testamento che sono la base e il fondamento della vita della Chiesa e dell'agire del credenti.

Posso attestare che le tre giornate di studio, non sarà mai ribadito a sufficienza che tutto è stato condotto in maniera seria e scientifica, sono state vissute dai sessanta partecipanti con un'attenzione esemplare e con un dibattito altrettanto libero e senza remora alcuna. Era quello che ci si era proposti, perché si era partiti dalla convinzione che «servire la verità è servire Cristo stesso e la sua Chiesa», come ci aveva ricordato Giovanni Paolo Il. Molto spazio hanno preso l'esegesi del testi neotestamentari. 

In maniera più diretta si sono analizzati i testi presenti soprattutto in Matteo, Atti e Paolo che durante i secoli sono stati letti in chiave antigiudaica. Basti come esemplificazione il riferimento ai diversi discorsi di Pietro in cui ricorre più volte l'espressione: «Voi lo avete ucciso», oppure: «voi lo avete appeso alla croce» (cfr. At 2, 23; 2, 36; 3, 15; 4, 10; 5, 30). Si è visto che questi passi sono stati caricati nel corso dei secoli di significato che noti avevano e che mai né Pietro né gli autori sacri avevano neppure pensato. 

Come sostiene una corretta esegesi, il riferimento diretto a cui questi testi rinviano è il far presente un avvenimento storico, ricordare un fatto e una circostanza senza caricarla di altri significati e tanto meno di colpevolezza. Ne è testimonianza il fatto che in tutti questi casi Pietro si rivolge ai Giudei chiamandoli «fratelli». 

Altri casi che si potrebbero citare sono costituiti da citazioni dei profeti e mai avrebbero potuto contenere un senso antigiudaico. Gli stessi testi paolini sono da ritenere nel contesto di una disputa teologica e religiosa; se si vuole, anche con forti accenti polemici, ma mai in chiave antigiudaica. Se così fosse, i testi entrerebbero in contraddizione con le diverse espressioni di perdono che costituiscono il contesto più coerente in cui vengono scritti. 

L'antigiudaismo, dunque, non appartiene ai testi sacri. Solo una cultura estranea, determinata più da condizioni sociali, politiche, economiche che non religiose, ha potuto immettere significati che contraddicono l'essenza stessa della fede cristiana. 

In questo contesto non stonerà rivedere le stesse accuse gratuite di deicidio che si sono protratte per decenni e che non trovano alcun posto né giustificazione alcuna. Israele rimane il popolo che Dio ha scelto e costituito per essere segno dell'attesa di un compimento e con il quale ha compiuto «un'alleanza mai revocata» come disse con grande forza Giovanni Paolo Il nel 1981.

Le cause dell'antisemitismo, dunque, non possono essere ritrovate nel Nuovo Testamento. Ciò non significa che non ci siano testi nella letteratura di autori cristiani che hanno spostato l'accento su ciò che un credente mai avrebbe dovuto né potuto pensare o scrivere. Testi antigiudaici si trovano presso alcuni apologeti, in diversi testi della letteratura teologica e anche nei discorsi di alcuni santi... tutto questo va contestualizzato e rimosso. 

Ciò che importava al Simposio, tuttavia, era la ricerca per verificare se questo sentimento fosse alla base del nostro essere credenti, ma questo fatto a nessuno è permesso dirlo. Le condizioni politiche, sociali, economiche nonché l'ignoranza hanno spesso avuto il sopravvento ogni qualvolta ci si è allontanati dalla fonte della fede: la Parola di Dio. 

Si deve ribadire con forza, comunque, che in nessuna professione di fede e in nessun testo del Magistero della Chiesa - le fonti originali che costituiscono i contenuti della fede cristiana - viene pronunciata una sola parola antigiudaica. Ne è testimonianza la stessa morte di Gesù che le professioni di fede indicano con le parole: «morì sotto Ponzio Pilato». Segno questo che mai il pensiero dei cristiani poteva andare contro quel popolo sul quale, in ogni caso, era stato innestato; lui era la radice, mentre noi rimaniamo l'innesto (Rm 11, 19). 

È bene ribadire, da ultimo, che scopo del Simposio non era quello di giungere a un atto di perdono, quanto piuttosto di verificare se ci fossero le condizioni per poterlo compiere. Il momento, dunque, era quello della riflessione, dello studio serio e dell'analisi scientifica dei testi per poter approdare a delle conclusioni da consegnare al Santo Padre. 

A compiere questo serio esame di coscienza siamo chiamati tutti, credenti e «laici». Certo, esso non si può imporre; eppure, la provocazione a riflettere sulla propria storia è un fatto talmente positivo che dovrebbe trovare tutti concordi. Spiace, a questo punto, constatare che molti passaggi della lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente siano stati dimenticati dagli osservatori. In prima istanza, infatti, il Santo Padre chiede che a fare l'esame di coscienza siano anzitutto i responsabili delle nazioni: «Dopo il 1989 sono emersi, però, "nuovi pericoli e nuove minacce". 

Nei Paesi dell'ex blocco orientale, dopo la caduta del comunismo, è apparso il grave rischio dei nazionalismi, come mostrano purtroppo le vicende dei Balcani e di altre aree vicine. Ciò costringe le nazioni europee ad un serio "esame di coscienza", nel riconoscimento di colpe ed errori storicamente commessi, in campo economico e, politico, nel riguardi di nazioni i cui diritti sono stati sistematicamente violati dagli imperialismi sia del secolo scorso che del presente» (TMA 27). Questo passaggio non mi sembra che abbia mai trovato una eco presso quanti, nei giorni scorsi, si sono impegnati a rincorrere le colpe dei cristiani con inserti di dubbio valore scientifico chiedendo a gran voce che la Chiesa riconosca le sue colpe. 

È sintomatico che questi personaggi non provino almeno un po' di imbarazzo dinanzi a simili manomissioni dei testi. Dopotutto si sa che sulle questioni che riguardano la Chiesa e la sua dottrina ci sono sempre molti più professori che studenti... soprattutto tra chi ama professarsi non credente! Si consolino, comunque, perché anche quando la Chiesa compirà un gesto con il quale chiederà perdono per i peccati dei suoi figli, essa non sarà mai colpevole di quegli atti. La distinzione tra chiedere perdono per qualcuno ed essere colpevole per il peccato dovrebbe essere presente anche ai meno accorti di questioni teologiche ed ecclesiali.

Certamente si deve concludere che l'intera vicenda porta un ulteriore tassello positivo al dialogo di questi ultimi decenni tra cattolici ed ebrei. Aver sollevato la questione, in ogni caso, segna un atto di grande coraggio e di volontà a guardare verso il futuro con maggior impegno e responsabilità. La Chiesa che legge la storia del passato e del presente alla luce di una richiesta di perdono offre un segno di estrema efficacia nel confronti di una cultura che tende a nascondere le responsabilità e a preferire la vendetta e l'odio al perdono. Saper chiedere perdono, non lo si dimentichi, non è un atto di debolezza; al contrario, esprime una grande libertà ed è ciò che costituisce l'esperienza della gioia, per questo è indice di autentico progresso.

Studiando le radici dell'antigiudaismo pensiamo di aver contribuito da parte nostra a superare i malintesi che possono avere diviso nel passato e aiutare a scoprire le peculiarità delle due fedi guardando al futuro con maggior serenità senza rinchiudersi in steccati che non hanno mai avuto ragione d'esistere. La sfida, dunque, si pone nella capacità di sapere creare nuove espressioni culturali con nuovi linguaggi e comportamenti che siano in grado di aiutare soprattutto le nuove generazioni a guardare verso ogni persona e popolo per la ricchezza che possiede e non per i limiti che vengono arbitrariamente stabiliti.

Ciò che, resta da vedere è la possibilità di un punto di incontro nella preghiera. I cristiani hanno tra le mani la Bibbia ebraica e la leggono alla luce di Cristo che ne segna il compimento e la chiave interpretativa definitiva. E questa la nostra fede e questo ci caratterizza e separa. Secondo l'espressione di un autore ebreo, citata dal Cardinale Etchegaray, durante il Simposio: «la fede di Gesù ci unisce la fede in Gesù ci separa». Parole che toccano il nocciolo del problema. La paternità di Dio si rincorre per tutti i libri dell'Antico Testamento, per noi cristiani essa diventa il principio della vita nuova che supera le barriere della razza per aprirsi all'universalità della chiamata divina. 

La novità portata da Gesù Cristo è certamente la sfida che starà sempre all'orizzonte, ma segna nello stesso tempo l'irrinunciabile identità cristiana. Abbiamo, comunque, molto in comune e siamo figli della stessa promessa che noi vediamo già attuata anche se ancora tesa verso il suo compimento escatologico. Lo sguardo potrebbe vertere, allora, sulla fede di Abramo, dei Patriarchi, del profeti e di quanti nel corso della storia della salvezza hanno testimoniato che la vita ha senso solo se ci si abbandona nelle mani di Dio. 

Potrebbe essere la preghiera del Canone Romano quella che permette di ribadire la continuità di una tradizione sacra e l'appartenenza alla stessa storia della salvezza: «Accetta con benevolenza, Signore, l'offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo nostro padre nella fede e l'oblazione pura e santa di Melkisedech tuo sommo sacerdote».

La conclusione migliore di questo Simposio, comunque, l'ha offerta in maniera significativa lo stesso Giovanni Paolo II quando nel discorso ai partecipanti ha detto: «Il vostro sguardo lucido sul passato, in vista di una purificazione della memoria è particolarmente opportuno per mostrare chiaramente che l'antisemitismo non ha alcuna giustificazione ed è assolutamente condannabile».  

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