Congresso Italia Israele
Bergamo 22-24 novembre 1991


Intervento di Suor Natalina Sotgia

Fin'ora abbiamo sentito cose molto tristi, e soltanto cose tristi. Vorrei voltare un momento pagina per parlare di cose che forse potranno ascoltarsi con più soddisfazione.

Vengo qui proprio per offrire una testimonianza di solidarietà verso tutto il popolo ebraico ma in particolare verso lo Stato di Israele dove ho vissuto undici anni; e con un senso di gratitudine per quello che lo Stato di Israele compie in favore della Chiesa, sia pure indirettamente. Infatti Israele consente a noi religiosi di lavorare per gli arabi dandoci tutte le garanzie, tutte le possibilità e anche un sussidio economico. Mi pare che questo sia già una prova a favore dello Stato di Israele.

Io parlerò soltanto di Israele. Non entro nella questione della Chiesa cattolica in generale perché se ne è parlato abbondantemente. Possiamo dire che la Chiesa ha preso posizione, anche se non tutti i mèmbri sono completamente convinti di quello che il Concilio ha detto. Speriamo che col tempo questa convinzione penetri maggiormente. Io vorrei sottolineare aspetti piuttosto capillari dell'esistenza in Israele prima dell’Intifada. E anche dopo: sono stata ancora in Israele per circa due anni dopo che è scoppiata l'Intifada, quindi ho potuto continuare a rendermi conto di come si viveva.

Fornisco una testimonianza secondo l'esperienza che ho fatto nell'ambiente dove io vivevo. Bisogna prima di tutto distinguere quello che succede nello Stato di Israele, dove anche gli arabi sono integrati, esistono con tutti i diritti e sono a tutti gli effetti cittadini israeliani, dalla situazione che si trova nei così detti territori occupati, che naturalmente non può essere la stessa.

Posso affermare che nel territorio israeliano lo Stato aiuta la Chiesa attraverso i sussidi che concede e le agevolazioni che offre a favore degli istituti religiosi che operano indistintamente per i Palestinesi cristiani e musulmani.

Personalmente ho lavorato in una scuola materna alla quale affluiscono centinaia di bambini di ogni ceto sociale e delle più diverse confessioni religiose. Unita a essa funziona una Scuola di Taglio e Cucito frequentata da signore arabe e ebree le quali riescono a trattenersi insieme in piena armonia, parlando delle proprie famiglie, scambiandosi ricette di cucina e, almeno alcune, incontrandosi amichevolmente anche fuori della scuola. Ho così sperimentato che una buona mediazione avrebbe reso possibile in modo semplice una pacifica intesa tra il popolo arabo e ebreo, e che ciò che purtroppo è mancato è stata proprio una valida mediazione ampiamente generalizzata.

Una mediazione da parte di chi? Della Chiesa, penso, e propriamente della Chiesa cattolica, che per il suo carattere di universalità era la più idonea a una missione del genere.

Ma quando la Chiesa cattolica si stabilì in Palestina il problema arabo-israeliano non esisteva, e i suoi mèmbri non poterono che dedicarsi a un'opera di promozione e assistenza a favore di tutto il popolo e solo limitatamente alle famiglie cristiane di antica evangelizzazione, di specifica assistenza religiosa. Oltre, s'intende, la secolare custodia dei Luoghi Santi affidata ai francescani.

Sotto il "mandato inglese" nulla cambiò né poteva cambiare del punto di vista religioso. La popolazione palestinese viveva in una dimensione così chiusa, così separata dal mondo che di tutto quello che succedeva in Europa, sia nella prima sia nella seconda guerra mondiale, non sapeva quasi nulla. L'olocausto i palestinesi non l'hanno conosciuto. Non ne sapevano nulla. Hanno visto arrivare questa flotta di ebrei disperati che avevano tutte le ragioni di cercare la salvezza, ma non hanno saputo capire perché arrivassero, perché chiedessero ospitalità. Non voglio con questo difendere nessuno, voglio semplicemente sottolineare la mancanza di preparazione, l'assoluta ignoranza che colse il popolo palestinese dinanzi alla fondazione dello Stato di Israele.

Lo stesso si può dire delle diverse chiese cristiane, inclusa la cattolica. Dovettero rendersi conto, immagino, di trovarsi di fronte a un drammatico capovolgimento di situazioni che aprivano prospettive ignote, piene di pericoli, e istintivamente si buttarono dalla parte che era loro più nota, più familiare. E rimasero con i palestinesi, in attesa, forse, degli eventi. Persero un importante appuntamento con la storia, ma direi che non gliene si può fare del tutto torto. Non era una situazione facile da capire e ancora meno da risolvere.

Io ho praticato molto tra i cristiani arabi. I cristiani arabi non sono mai stati istruiti sulla storia di Israele: costoro per esempio non sanno che la "terra di Palestina", chiamiamola pure così, secondo la tradizione è stata promessa da Dio al popolo ebraico. E restano sorpresi sentendo quello che la Bibbia ci dice, riguardo al diritto del popolo ebraico a ritornare nella sua terra indipendentemente dalla situazione disperata nella quale si è trovato, indipendentemente dai motivi di sopravvivenza per i quali lotta.

Pertanto, ripeto, ciò che sarebbe necessario intraprendere in quella regione è una buona mediazione che la Chiesa potrebbe e dovrebbe fare. Ma, data la situazione, penso che questo sia il momento peggiore sotto tutti gli aspetti, anche dal punto di vista delle persone. Una soluzione o un tentativo di soluzione potrebbe venire invece a partire dalla presenza degli istituti religiosi, che nelle loro scuole coinvolgono circa 1'80% della gioventù araba. Solo a Caifa infatti ci sono tre scuole tenute da religiosi, con una media di più di mille alunni ciascuna.

A Nazareth ci sono altre due scuole frequentate da una media di tremila alunni, e così in diverse altre località. Se questi religiosi cercassero di entrare nell'ordine di idee più giusto, più ragionevole, più onesto,forse tante cose potrebbero cambiare. Ma occorrerebbe per questo che i superiori dei religiosi, che non vivono in Israele, che non vivono in Terra Santa, facessero opera di persuasione! Ecco: ci vorrebbe un movimento ecclesiale che coinvolgesse tutto i1 vertice degli istituti religiosi (quello che dico è una cosa che penso io, non so quanto valga). Infatti i religiosi che oggi vivono in queste terre sono completamente arabizzati: è inutile insistere con loro. Occorrerebbe invece lavorare a partire dal vertice degli istituti religiosi che hanno delle comunità in Terra Santa facendo magari degli scambi di persone, portando in Israele persone più aperte con una mente più agile. A partire da qui, tanto si potrebbe fare per coltivare l'amicizia tra arabi e israeliani: lavorando su quell'80% di gioventù araba che frequenta le scuole dei cattolici.

Questo è il frutto di qualche riflessione, che traggo dalla mia esperienza, e dal ricordo molto gradito della mia permanenza m Israele. Ripeto: le nostre opere di carità, le nostre opere di assistenza si giovano del sussidio fornito dallo Stato di Israele. Non solo, ma posso dire che il governo, attraverso gli ispettori che vengono nelle nostre opere per verificarne l'efficacia, per rendersi conto seriamente di come le persone che le frequentano vengono assistite, esigono tutto quello che si può esigere da un istituto ben organizzato.

Per esempio, nell'istituto educativo-assistenziale che noi, come Congregazione, abbiamo a Tsippori, l’ispettore viene sistematicamente, e si rende conto di come le ragazze sono tenute. Oltre alla frequenza nelle scuole tenute a Nazareth dai religiosi e pagata regolarmente dallo stato, queste ragazze hanno diritto a quindici giorni di campeggio oltre l'anno scolastico. Nonché a lezioni di danza, di musica, di ginnastica. Tutto ciò è richiesto dal governo per queste bambine, tra le quali ci sono magari anche le figlie di quegli stessi palestinesi che combattono contro lo Stato.

Avvertivo il dovere di sottolineare onestamente di questo comportamento del governo israeliano, del quale si è detto già tanto di male. Accogliete dunque la testimonianza attorno a un’esperienza sotto questo aspetto completamente positiva.

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