«Dialogo guarigione del mondo»
Intervista rilasciata dall'Autrice

Intervista rilasciata da Manuela Sadun Paggi, la scrittrice ebrea fiorentina, autrice del libro "Dialogo guarigione del mondo" edito nel 2002 dalla Editrice Missionaria Italiana

Nel 2002 esce per i tipi della Editrice Missionaria Italiana, il suo libro Dialogo guarigione del mondo. In questo clima di preparazione alla guerra, in cui peggiorano i rapporti arabo-israeliani e in cui c’è sempre maggiore violenza – non solo fisica, ma anche verbale – il dialogo rappresenta una vera e propria sfida; lei stessa l’ha definito «guarigione del mondo», ed ha individuato in esso uno degli strumenti per valutare e comprendere i problemi, quel primo passo per ascoltarsi e trovare insieme nuove soluzioni. C’è una circostanza particolare che l’ha spinta a scrivere questo libro?

Questo libro e il frutto di esperienze maturate in tanti anni, lavorando proprio per il dialogo e per l’Amicizia Ebraico Cristiana. Ho tenuto delle conferenze, raccolto delle idee, che poi ho cercato di riordinare, finché un giovane amico non mi ha spinto a rielaborarle in una forma organica. Avevo gia degli appunti, un po’ malmessi, ma sostanziosi. Glieli feci leggere e mi incitò a valorizzarli. Ovviamente lo ‘costrinsi’ a darmi una mano perché da sola non ce l’avrei fatta. Così è nato Dialogo guarigione del mondo, costituito da capitoli autonomi nel contenuto, ma allo stesso tempo collegati sempre all’idea del dialogo e dell’identità. L’identità nasce con le persone e con esse vive, perché senza identità interiore non esiste dialogo. Per me era importante che su questi temi ci fosse anche una voce ebraica al femminile. Non è stato facile trovare il titolo. Io ne avevo proposto anche un altro: L’ubbidienza è sempre cieca. Però il titolo definitivo, Dialogo guarigione del mondo, mi sembra che individui in maniera precisa i contenuti del libro. Non ci sono ricette confezionate, il libro segue il mio percorso esistenziale, ed invita ciascuno ad assumersi la responsabilità della propria vita, senza identificarsi passivamente con nessuno, ma lasciando spazio all’individuo stesso e alla sua creatività, al fine di dare una corso nuovo alla propria esistenza e contribuire a migliorare la vita del pianeta. Non serve aspettare che altri agiscano al posto nostro per poi magari criticarne le azioni: occorre diventare tutti molto più responsabili. Io credo che ci sia per tutti una più ampia possibilità di agire, molto più di quanto non si creda e non si faccia.

In che modo sono stati organizzati nel libro tutti i materiali e gli appunti raccolti?

Sono confluiti in quattordici capitoli autonomi, che ho soltanto provveduto a raggruppare seguendo un filo conduttore; vengono trattati vari argomenti collegati al senso della vita e al suo significato, arricchiti poi da citazioni e testi poetici. E un processo educativo che va dal conflitto al dialogo, dalla religione alla religiosità come cammino interiore e risanamento esistenziale, dall’emarginazione all’integrazione attraverso la comunicazione e la scoperta della propria identità. Insomma, "dalla logica della morte alla logica della vita", questo è infatti anche il titolo dell’ultimo capitolo, che rappresenta una sintesi del contenuto del libro. Si è adottato un linguaggio essenziale, semplice, autentico che bilanciasse la densità degli argomenti, che consentisse dei momenti di riflessione per elaborare una personale presa di coscienza e che proponesse un nuovo modo di fare cultura. 

C’è qualche argomento che avrebbe voluto trattare in maniera più approfondita? Qualcosa che vorrebbe precisare meglio?

No, mi pare che gli argomenti siano ben trattati. Attualmente la mia idea e di cercare un modo universale di fare comunità. Ho in mente qualcosa sul modello del villaggio di Neve Shalom in Israele. Neve Shalom e una esperienza importante non solo perché si trova in una zona di guerra. Ovunque c’è bisogno di stabilire un dialogo per la pace. Quello che intendo e che anche in Italia, fra ebrei e cristiani, restano comunque incomprensioni e talvolta ostilità: anche in contesti come il nostro, il dialogo come si fa a Neve Shalom, per accettarsi gli uni con gli altri, potrebbe assumere una grande importanza. Fra ebrei e cristiani in Italia e in Europa occorrerebbe un dialogo più ampio e profondo, non basato solamente su incontri superficiali. Mancano in realtà occasioni reali di confronto e di condivisione, per approfondire la conoscenza reciproca e per cercare di eliminare i pregiudizi.Sarei lieta se il libro potesse rappresentare lo spunto per dar vita ad incontri, seminari e quant’altro, mettendo a frutto nel modo migliore il contributo che ciascuno può dare. Ritengo che il lettore debba svolgere un ruolo attivo arricchendo con riflessioni proprie gli spunti presenti nel libro.So che lei ha a cuore e segue da vari anni le iniziative di Nevè Shalom-Waahat as Salaam, il villaggio che, nato tra il 1970 e il 1972, sorge al centro di Israele, tra Gerusalemme e Tel Aviv e che rappresenta una sfida rispetto alla guerra tra ebrei e palestinesi, un tema purtroppo ancora attuale. In Nevè Shalom si cerca di concretizzare il dialogo in amicizia e collaborazione fra i popoli affrontando le barriere di incomprensione e paura che spesso esistono fra culture diverse. 

Come si può, nella nostra vita quotidiana, concretizzare il progetto di Nevè Shalom?

Qui da noi esiste l’Associazione degli Amici di Neve Shalom, con sede a Milano, ma che opera in tutta Italia. L’associazione cerca di portare anche in Italia le esperienze del villaggio, tramite, ad esempio, incontri con persone che lavorano là. L’associazione contribuisce anche finanziariamente a sostenere questa esperienza. Hanno una pubblicazione, "Lettere dalla collina", un resoconto della vita e delle attività del villaggio.Lo scorso anno, per la prima volta, sono venute dal villaggio due donne, una israeliana e una palestinese che hanno mostrato come sia possibile lavorare insieme per la pace e come, incontrare le stesse difficoltà, le avesse avvicinate. Neve Shalom non è molto ben visto né dagli israeliani né dai palestinesi e gli abitanti del villaggio vengono quasi emarginati, come per una sorta di diffidenza nei confronti di chi opera per la pace. Lavorare per la pace significa non essere di parte, non appoggiare ne gli uni ne gli altri e non opporsi ne agli uni ne agli altri, in questo modo non si è accettati da nessuno dei due. All’inizio a Neve Shalom c’erano solo poche famiglie, credo 14; adesso sono 40 e ce ne sono molte altre che ci vorrebbero andare. Queste famiglie convivono in un paese – e gia la convivenza e un primo passo importante – e i bambini a scuola imparano sia l’ebraico che l’arabo, crescendo in una doppia cultura; alle feste degli uni ci vanno anche gli altri e questo crea un momento di condivisione molto importante. Inoltre vengono organizzati dei gruppi di incontro tra studenti israeliani e palestinesi per cercare di abbattere i muri del pregiudizio reciproco. Non basta appoggiarci a quello che abbiamo in comune, bisogna accettare l’altro in tutto. Le differenze ci arricchiscono sempre.

Lei ha detto che questo libro è frutto di anni di esperienze, fra le quali quella dell’Amicizia Ebraico-Cristiana. Ci può dire come questa associazione è nata e quale ruolo ha avuto nella città di Firenze?

L’AEC e stata per me un’esperienza fondamentale. L’associazione di Firenze è nata nel 1950, un po’ come sono nate tutte le amicizie ebraico cristiane nel resto d’Europa. Paradossalmente le atrocità della guerra si sono fatte germe di solidarietà portatrice di riconciliazione 

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