Torno
      da Gerusalemme avendo ancora negli orecchi il suono sinistro delle sirene
      della polizia e delle ambulanze dopo il terribile attentato di martedì 19
      agosto. Ma ciò che sempre più ascolto dentro di me non è soltanto il
      dolore, lo sdegno, la riprovazione, che si estende a tutti gli atti di
      violenza, da qualunque parte provengano. È una parola più profonda e
      radicale, che abita nel cuore di ogni uomo e donna di questo mondo: non
      fabbricarti idoli! Questa parola risuona nella Bibbia a partire dalle
      prime parole del Decalogo e la percorre tutta quanta, dalla Genesi
      all'Apocalisse.
      
      È dunque un comandamento che tocca profondamente il cuore di ebrei e
      cristiani e segna un principio irrinunciabile di vita e di azione. Ed è
      un comandamento anche molto caro all'Islam, che ne fa uno dei pilastri
      della sua concezione religiosa: c'è un Dio solo, potente e
      misericordioso, e nulla è comparabile a lui. Ma è anche un precetto
      segreto che risuona nel cuore di ogni persona umana: chi adora o serve in
      ogni modo un idolo ha una coscienza almeno vaga di voler «usare» la
      divinità o comunque un principio assoluto per i propri scopi, sente che
      sta strumentalizzando e sottoponendo ai propri interessi un sistema di
      valori a cui occorre invece rendere onore. Per questo chiunque adora un
      idolo intuisce che in qualche modo si degrada, sta facendo il proprio male
      e sta preparandosi a fare del male agli altri.
      
      Ma non ci sono soltanto gli idoli visibili. Più radicati e potenti, duri
      a morire, sono gli idoli invisibili, quelli che rimangono anche quando
      sembra escluso ogni riferimento religioso. Tra essi vi sono gli idoli
      della violenza, della vendetta, del potere ( politico, militare,
      economico...) sentito come risorsa definitiva e ultima. E' l'idolo del
      volere stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non
      accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a
      perdere qualche cosa in vista di un bene complessivo. Questi idoli, anche
      se si presentano con le vesti rispettabili della giustizia e del diritto,
      sono in realtà assetati di sangue umano.
      
      Essi hanno una duplice caratteristica: schiavizzano e accecano. Infatti,
      come dice tante volte la Bibbia, chi adora gli idoli diviene schiavo degli
      idoli, anche di quelli invisibili: non può più sottrarsi ad esempio alla
      spirale perversa della vendetta e della ritorsione. E chi è schiavo
      dell'idolo diventa cieco riguardo al volto umano dell'altro. Ricordo la
      frase con cui alcuni giovani ex - terroristi degli anni '80 cercavano di
      descrivere come avessero potuto sparare e uccidere: "non vedevamo più
      il volto degli altri".
      
      Le violenze che si scatenano oggi in tante parti del mondo sono il segno
      che c'è un'adorazione di questi idoli e che essi ripagano con la loro
      moneta distruttrice chiunque renda loro omaggio. Chi ha fiducia solo nella
      violenza e nel potere prima o poi tende a eliminare e distruggere l'altro
      e alla fine distrugge se stesso. Già san Paolo ammoniva: "se vi
      mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del
      tutto gli uni gli altri!". E ancora: "Non vi fate illusioni: non
      ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà
      seminato" (Lettera ai Galati 5,15 e 6,7).
      
      Siamo nel vortice di una crisi di umanità che intacca il vincolo di
      solidarietà fra tutto quanto ha un volto umano. Nell'adorazione
      dell'idolo della potenza e del successo totale ad ogni costo è l'idea
      stessa di uomo, di umanità che viene offesa, è l'immagine stessa di Dio
      che viene sfigurata nell'immagine sfigurata dell'uomo. Ma proprio da
      questa situazione, dalla presa di coscienza di trovarsi in un tragico
      vicolo cieco di violenza - a cui ha fatto più volte allusione il Papa
      Giovanni Paolo II - può scaturire un grido di allarme salutare e urgente,
      più forte dell'idolatria del potere e della violenza.
      
      È un grido che si traduce concretamente nel proclamare che non vi sono
      alternative al dialogo e alla pace. Lo sta da tempo ripetendo in tanti
      modi Giovanni Paolo II. Ma esso è un grido che precede le dichiarazioni
      pubbliche, per quanto accorate. Risuona infatti nel cuore di ogni uomo o
      donna di questo mondo che si ponga il problema della sopravvivenza umana.
      Di alternativo alla pace oggi vi è solo il terrore, comunque espresso.
      Quando la sola alternativa è il male assoluto, il dialogo non è solo una
      delle possibili vie di uscita, ma una necessità ineludibile. Per questo i
      leader di tutte le parti tra loro contrastanti debbono rischiare senza
      esitazioni il dialogo della pace.
      
      Tutto ciò fa emergere ancora più chiaramente le responsabilità della
      comunità internazionale, quelle dell'Onu e quelle dell'Europa, quelle
      degli Stati Uniti, della Russia e dei paesi arabi. È necessario che tutti
      aiutino il processo di pace che si era appena iniziato, con una pressione
      forte e convinta a favore della Road Map e anche con la prontezza a
      fornire un sostegno politico e finanziario alle comunità che hanno il
      coraggio di rischiare la pace. Alla costruzione di muri di cemento e di
      pietra per dividere le parti contrastanti è preferibile un ponte di
      uomini che, pur garantendo la sicurezza di entrambe le parti, consenta
      alle due comunità di comunicare e di intendersi sempre più sulle cose
      essenziali e su quelle quotidiane.
      
      Certamente l'odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi
      sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene
      in vita insieme uccide. Per superare l'idolo dell'odio e della violenza è
      molto importante imparare a guardare al dolore dell'altro. La memoria
      delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l'odio quando essa è
      memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al
      proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà
      solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del
      risentimento, della rappresaglia, della vendetta.
      
      Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza
      dell'altro, dell'estraneo e persino del nemico, allora essa può
      rappresentare l'inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore
      altrui è premessa di ogni futura politica di pace. Non fabbricarti idoli:
      idolo è anche porre se stesso e i propri interessi al disopra di tutto,
      dimenticando l'altro, le sue sofferenze, i suoi problemi. Il superamento
      della schiavitù dell'idolo consiste nel mettere l'altro al centro, così
      da creare quella base di comprensione che permette di continuare il
      dialogo e le trattative.