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       Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il
      suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale
      dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni
      monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di
      milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui
      attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione
      negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose.  
       
 Una lunga
      storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e
      incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano
      questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste
      differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei
      valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime
      riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica. 
      Il
      contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non
      si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri
      ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta
      società, e la tensione ad un rinnovamento "messianico" hanno
      precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e
      continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo.  
       
 Infine la drammatica
      evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo
      perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più
      nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di
      negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la
      dignità umana. 
       
      Gli
      ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista
      numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno
      ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le
      regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre
      ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina
      religiosa.  
       
 È evidente già in questa definizione che la condizione
      ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è
      piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si
      riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si
      identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto
      diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di
      comportamento prescritti dalla tradizione. 
       
      La società occidentale è
      abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti
      dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche,
      provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello da
      questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie
      classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in
      rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale
      in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come
      viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei. 
      Gli
      ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una
      comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre
      millenni di storia.  
       
 Parlando di millenni, l’approssimazione è
      d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la
      Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui
      modi di sviluppo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una
      tradizione critica - nata e sviluppata in particolare nel modo protestante
      tedesco - che mette sistematicamente in discussione la validità delle
      notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date
      e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per
      scontati.  
       
 Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca
      intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade
      pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa
      identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal
      nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero
      iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era
      insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome
      di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino
      ad oggi, la terra d’Israele.  
       
 Delle origini di Abramo la Bibbia quasi
      tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua
      condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui
      in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad
      alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse
      nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da
      fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può
      indicare il discendente di ‘Ever, o colui "che viene dall’altra
      parte": parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico
      l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una
      scelta che lo distingue da tutti gli altri.  
       
 La scelta di Abramo è quella
      di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando
      il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli
      promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle
      del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti,
      e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà
      a tutte le famiglie della terra.  
       
 La Bibbia poi racconta le vicende della
      famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei
      dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di
      Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro
      figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse
      l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica
      in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo
      nome, Israel, "colui che ha lottato con Dio", ed è riuscito a
      vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più
      nobile, di "figli di Israele", o semplicemente di Israele.  
       
      Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere
      egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino
      a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai
      Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento
      di un grande capo, Mosè.  
       
 Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra
      l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte Sinai per
      ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto
      Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a
      conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè.  
       
 Con Giosuè inizia
      l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che
      secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse,
      per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò
      piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il
      primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che
      dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è
      collocato dagli storici all’inizio del primo millennio.  
       
 La presentazione
      biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente
      contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà
      storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e
      all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia
      della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista
      della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con
      insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma
      anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si
      sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di
      varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale,
      della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile,
      in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti
      archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli
      inizi del regno. 
      Dopo
      la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due;
      la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la
      meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo
      costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per
      indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo
      regno).  
       
 Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i
      suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna
      traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità
      dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai
      Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in
      parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne
      edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano.  
       
      Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio,
      sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione
      spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che
      espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico.
      Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti
      nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi,
      ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere
      profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo
      Tempio. 
      Nel
      332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio
      dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la
      Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe
      progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era
      volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135
      l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata
      nella repressione più brutale.  
       
 Da allora gli ebrei non ebbero più unità
      statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la
      Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo
      secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la
      perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione
      negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più
      contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni.  
       
 Con il
      trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i
      rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero
      nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria
      e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il
      Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di
      Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora
      l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sé stesso, al
      quale tutt'alpiù poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone
      inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno
      parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione.  
       
 La civiltà
      cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una
      ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei
      secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti
      fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei
      confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale
      pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta
      se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la
      tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di
      rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di
      pari dignità.  
       
 La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli
      ebrei culminò in questo secolo con la persecuzione nazista, nel corso
      della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico
      allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra
      mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica,
      con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del
      movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale
      della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima
      attualità quotidiana. 
      Se per
      la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato
      di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è
      radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono
      contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i
      rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di
      Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e
      giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli
      avvenimenti di cui era stato vittima. 
       
      Nell’anno 70 la distruzione, da
      parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del
      centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza
      essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e
      dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è,
      nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di
      Aron, fratello di Mosè.  
       
 Nel momento in cui l’ebraismo politico si
      avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che
      questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e
      religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale
      della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a
      patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme
      assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece
      portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito,
      e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter
      insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la
      trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e
      l’insegnamento.  
       
 Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che
      doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture
      essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo
      l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli
      culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello
      rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per
      nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a
      questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare.
      Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso
      pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le
      funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e
      spirituale dell’ebraismo. 
      Da
      questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la
      letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei
      secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi
      personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le
      potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e
      giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e
      all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli
      patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a
      coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di
      intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita
      religiosa di ampie fasce di comunità ebraiche. 
      Anche
      in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in
      evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi
      fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica.
      Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione,
      forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo
      nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà
      assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla
      a ogni costo.  
       
 Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile,
      creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione
      di ruoli; non esiste al di fuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui
      l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può
      esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà.  
       
      Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel
      suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si
      moltiplichino le espressioni antropomorifche, che rappresentano
      simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza
      che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e
      umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non
      rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile
      offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che
      per definizione non le appartiene.  
       
 Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo
      paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente
      superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile
      arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra
      l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile,
      estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando
      dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza
      divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella
      sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle
      capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo
      divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza,
      l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane.  
       
 Ciò
      si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada
      corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali
      che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi
      nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano
      conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della
      punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la
      giustizia.  
       
 Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro di
      salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra
      epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della
      sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è
      stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e
      diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure
      elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello
      da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare
      direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi
      aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è
      incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di
      più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la
      tutela divina sulla storia. 
      Ma il
      Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il
      terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli
      empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha
      ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che
      hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico
      Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo
      amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e
      amore.  
       
 Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola
      dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può
      reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha
      pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei
      due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la
      presenza, che per la mente umana è apparentemente contradditoria, della
      realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perché
      sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo
      istante), alla vicenda quotidiana. 
      Secondo
      la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si
      esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo.
      Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si
      identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco.  
       
 In
      questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende
      essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino.
      Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in
      schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei
      confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i
      suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza.  
       
 Questo vincolo
      è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio,
      stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato
      Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la
      volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio
      sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli
      promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono
      nascere da una scelta e da un impegno superiore.  
       
 L’elezione di Israele
      non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua,
      che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che
      Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi
      sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche
      consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori
      circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile nè soggetto a
      ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e
      svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come "un reame di
      sacerdoti" rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come
      tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina
      aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere.  
       
 Da questi
      presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri
      popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri
      profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono
      elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale.
      L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non
      esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si
      esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non
      deve essere necessariamente condivisa da altri.  
       
 Per tutti i popoli, che
      vengono chiamati tecnicamente i "noachidi", cioè i discendenti
      da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente
      una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la
      pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di
      cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli
      della terra per arrivare al livello di "giusti" sarà
      sufficiente il rispetto una normativa essenziale, che nella tradizione
      rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto
      con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini
      (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto
      dell’ordine "naturale" (morale sessuale essenziale, rispetto
      degli animali). 
      L’ebraismo
      ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà
      oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue
      speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto
      riguarda Israele, la fine della sua dispersione e della sofferenza in mezzo
      alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele;
      l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia
      all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti
      tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di
      violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su
      immagini escatologiche di redenzione universale e totale.  
       
 Tutte queste
      speranze hanno un nome comune, messianesimo, da "messia" che in
      ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società
      giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella
      tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste
      idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma
      l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza
      dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita
      dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento. 
       
      [*]
      Nuovo Rabbino Capo di Roma 
      
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