Ebrei e Cristiani tra espiazione e perdono
Rosh ha Shana - Yom Kippur

Anna Foa, su Avvenire del 23 settembre 2004, ci aiuta ad aprire nuove strade all'idea di perdono per riportare perdono, espiazione e riconciliazione a far parte dello stesso processo di infinita costruzione e ricostruzione dell'essere umano. 

Siamo nel mezzo dei dieci giorni penitenziali ebraici, quelli che iniziano con il Capodanno, Rosh ha Shanah, e che terminano con Yom Kippur, il giorno dell'espiazione: una buona occasione per riflettere su espiazione, perdono, riconciliazione e sulle valenze distinte che questi concetti assumono nell'ebraismo e nel cristianesimo.

Sono questi, per gli ebrei, giorni in cui si devono fare i conti con le azioni compiute nell'anno trascorso e chiedere perdono a coloro che si sono offesi. Essi terminano con il digiuno dello Yom Kippur, che inizia con il bellissimo rito del Kol Nidré, in cui ci si scioglie dai voti non adempiuti nel corso dell'anno, e che finisce con il suono del corno di montone, lo Shofar. Sono, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, giorni di gioia e di letizia, perché rappresentano l'apertura di nuove possibilità, la chiusura di vecchi conti con la vita. Nel rito cabalistico del tashlick, ci si svuotano le tasche nell'acqua di un fiume che scorre, recitando benedizioni, a rappresentare la necessità di liberarsi dai peccati prima di volgersi al futuro. E anche per chi non crede troppo nel peccato, meditare sulle rive di un fiume aiuta ad elaborare i pensieri tristi e quelli lieti, a liberarsene nell'acqua corrente.

Yom Kippur viene spesso tradotto con "il giorno del perdono". Più esatto è definirlo il giorno dell'espiazione, anche se naturalmente l'idea di espiazione e quella di perdono sono strettamente connesse. Pur presente già nell'Antico Testamento, il concetto di perdono trova, lo sappiamo, la sua massima espressione in ambito cristiano, nel Vangelo di Matteo, là dove Cristo invita a perdonare settanta volte sette. Nel mondo ebraico, il termine perdono è usato con cautela, forse perché tanto connotato in senso cristiano, e comunque perché nella concezione ebraica l'accento cade non sul perdono divino, ma sull'espiazione dell'uomo, sul suo riconoscimento delle responsabilità. Una responsabilità, una colpa che è sempre individuale, come il perdono: non esiste colpa collettiva, non esiste possibilità di perdonare al posto di un altro. E non solo per gli uomini. In qualche modo, Dio stesso non può farlo. È quanto ci suggeriscono i testi di Elie Wiesel, quando ci parlano del perdono in rapporto ad Auschwitz.

L'idea di un periodo dell'anno tutto dedicato all'espiazione è lontana dalla concezione del perdono fatta propria dal cristianesimo, in cui la connessione con il ciclo dell'anno è ormai recisa e il perdono è legato non al tempo ma alla confessione individuale della colpa. Propria di ambedue le religioni è la caratterizzazione fortemente ritualizzata del processo di espiazione e di perdono. In entrambe, in modi diversi, il rituale porta, o dovrebbe portare, ad una riconciliazione: innanzitutto con se stessi, con il proprio passato, con la propria identità, e poi con gli altri o, se si preferisce, con Dio. Senza riconciliazione, non esiste società organizzata: è il problema di fronte a cui le religioni si sono trovate a confrontarsi, a cui ebraismo e cristianesimo hanno, come le altre religioni, dato la loro risposta. E se il cristianesimo ha accentuato l'idea del perdono come dono gratuito di Dio, l'ebraismo ha accentuato, in questo processo, il ruolo del riconoscimento, dell'espiazione: il perdono come esito di uno scambio. Per secoli, nella polemica antiebraica della Chiesa del passato, questa diversità d'accento ha portato a definire il cristianesimo come religione del perdono, l'ebraismo come religione della vendetta. Solo in anni recenti, queste etichette false e semplificatorie sono state cancellate.

Ma c'è un'altra caratteristica inquietante del perdono, ed è che esso implica sempre una superiorità di colui che perdona su colui che viene perdonato. Il perdono è un dono (le due parole sono semanticamente vicine in molte lingue), e in quanto tale implica una dissimmetria. Ne parla, in questo senso Paul Ricoeur in alcune pagine illuminanti del suo ultimo libro, pubblicato quest'anno da Il Mulino, Ricordare, dimenticare, perdonare, dove esorta a «fare sulla colpa stessa il lavoro del lutto», aprendo così nuove strade all'idea di perdono e rendendo possibile, forse, riportare perdono, espiazione e riconciliazione a far parte dello stesso processo di infinita costruzione e ricostruzione dell'essere umano.

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