L'aria, l'aria stessa a Gerusalemme è nutriente per le idee. [...] Anche la delicatezza della luce influisce su di me. [...] Qualcosa di intelligibile, qualcosa di metafisico viene comunicato da questi colori. L'universo interpreta se stesso davanti ai tuoi occhi nell'aperta distesa di questa valle pietrosa che digrada verso un'acqua morta. Altrove una muore e si disintegra, qui chi muore, si mescola. 
 (Saul Bellow, 
 Gerusalemme andata e
 ritorno
, Milano 1987, p.16)

 


Giacoma Limentani

[Tratto da: Jerushalaim «I nostri piedi stanno alle tue porte, Gerusalemme»
Atti del XVII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli 1996]



    Quando il sole a picco l'inonda scolorandola come il fuoco scolora il metallo che arroventa, Gerusalemme appare nitida e chiara: una carta topografica, una città in cui nessuno potrebbe perdersi né tendere agguati, perché tutto non può che accadervi alla luce del sole. Questo sole che l'illumina adempiendovi alla chiarissima e chiarificante funzione di lume, si chiama shemesh, nome che solo la differenza delle vocali distingue da shammash: inserviente. È il sole che serve a distinguere il giorno dalla notte e la luce dalle tenebre. Se però distinguere il giorno dalla notte è espressione che va intesa nel suo senso più piano e letterale, distinguere la luce dalle tenebre implica un modo di sceverare che, quando separa con troppo immediata nettezza, può indurre smarrimento. Perché la troppa luce annienta le sfumature, e ovunque si trovi contrastata da un muro, dalla curva di una strada, da un panno steso a una finestra o sia pure dal volo di un uccello, genera ombre accecanti: contrasti improvvisi come agguati.

     Il sole che così ne scandisce i percorsi e fa di Gerusalemme una città in bianco e nero, si chiama chammà da chom, calore. E questo sole è incandescente come il fuoco che imbianca i metalli con cui si forgiano le armi, mentre comunque vengano usate, le armi deturpano ogni candore col fitto nero del lutto. Certo, ben diversi nelle loro finalità sono il gesto che impugna l'arma per l'offesa e quello che la usa per la difesa, ma le parole offesa e difesa non sono che i due opposti poli della parola guerra, e spesso, troppo spesso nel corso dei millenni, sono stati opposti quanto accecanti convincimenti di agire in nome di ragioni odi fedi vissute come uniche e impareggiabili, a scatenare le guerre che hanno imbrattato di lutto Gerusalemme.

    Tremendo fu lo scontro intestino, mentre i romani premevano alle porte, fra gli ebrei che avrebbero voluto scendere a patti per risparmiare almeno il tempio dell'Eterno Dio Vivente, e quelli che invece rifiutavano ogni compromesso proprio in nome della sacralità del tempio. Furono questi ultimi a prevalere per soccombere poi sotto l'urto dei soldati di Roma, a loro volta accecati da una concretezza di pensiero che impediva loro di comprendere e tollerare, perché non poteva non avere in superstizioso orrore l'inafferrabile Dio d'Israele. Quel Dio alieno dalle immagini che raffiguravano tutto ciò cui essi erano usi, e quindi loro stessi e il loro mondo, per porli di fronte all'alterità massima: l'assoluta alterità fra divino e umano. E quando infine le fiamme degli incendi accesi dalle torce romane si incunearono nelle canne del grande organo, dalla crollante dimora terrena del Dio invisibile si levò un urlo disumano che assordò insieme sostenitori dei compromessi e paladini dell'intransigenza, conquistati e conquistatori cementando ognuno nella propria assoluta perentorietà.

     Altrettanto perentorio fu, circa un millennio più tardi, lo slancio con cui i crociati scalarono le mura della Città Santa, per redimerne l'anima inondandone però le strade di sangue sia musulmano che ebraico: comunque sangue infedele. Perentorio e ispirato a una fede che si voleva contrita, pur non avendo nulla da invidiare alla protervia romana.

     Questi assalti, queste distruzioni, questi massacri non furono i primi ne gli ultimi. Altri li avevano preceduti, altri li seguirono, tutti furono portatori delle atrocità secondarie che sempre fanno da scia a lotte intestine, guerre e dominazioni intransigenti. Quasi ad avvertirne il visitatore ignaro della sua storia, la cittadella di Gerusalemme si presenta chiusa in un anello di lapidi d'ogni tempo e fede. Una casa dei morti stringe d'assedio il cuore palpitante della sua vita, e però circolare come circolari sono i cicli della vita stessa, e disseminata di secolari alberi d'olivo, la pianta che come l'anelito alla pace ha fama di non morire mai. E così come i sempreverdi olivi temperano di speranza il rigore delle sue tombe dalle molte fedi, leggende e simboli d'ogni sorta infiorano le cupe realtà della sua storia.

     Leggende e simboli indispensabili a comprendere proprio le realtà della storia, anche e forse tanto più proprio quando ne sfalsano l'oggettività. Perché Gerusalemme, la dimora terrena scelta dall'Eterno Dio il cui sigillo è Verità, non ha mai albergato un'unica verità religiosa. Perfino in seno al solo ebraismo le verità religiose di Gerusalemme si intrecciano osi scontrano spiegandosi oppure negandosi a vicenda, e accavallandosi con ideali laici vissuti come religioni con evidenze innegabili e che pure un'altrettanto innegabile incongruità ammanta di mistero.

     Non è per esempio incongruo che in una zona di alture geograficamente strutturate come inespugnabili fortezze naturali, la cittadella di Gerusalemme sia stata eretta su una vetta riarsa e lontana anche dalla più vicina polla d'acqua: l'unica vetta della zona che, come Amos Oz nota nel suo Gerusalemme città di specchi, presenta un lato vulnerabilissimo? Non dovrebbe perciò destare meraviglia che a stabilire su questa vetta la capitale del suo regno e quindi a farne per forza di cose la più intima fortezza, sia stato proprio David, il re guerriero che di assedi e battaglie doveva intendersene? E anche volendo ammettere che David se ne sia invaghito al punto di non poter prendere in considerazione nessun'altra altura, come mai ne a quanti hanno occupato dopo di lui il trono di Giuda, ne ai diversi dominatori che li hanno seguiti è venuto in mente di andarsi ad arroccare su un'altra e davvero inespugnabile vetta?

    Quando logica politica e necessità strategica li impongono, i trasferimenti di capitale sono prassi consueta nelle storie degli stati. Gerusalemme deve quindi avere esercitato un fascino irresistibile su chiunque, possedendola e pur non sopportando l'idea di perderla, l'ha voluta lì e così nonostante l'arsura strutturale e la fragilità difensiva. Forse perché l'acqua, spesso paragonata alla purezza della fede sincera, deve essere anche premio di valente, continua conquista, bene preziosissimo che non può darsi per scontato? Perché il lato naturalmente arroccato e inespugnabile di Gerusalemme volta le spalle al tramonto, mentre il suo valico naturale è sempre baciato dal primo sole? Perché questi due elementi insieme sembrano star li a dimostrare che il suo possesso va vissuto come testimonianza di un favore divino da ostentare oppure da ambire?

   lo non sono una storica e le realtà storico-geografiche cui accenno mi vengono da libri di storia che non riesco a leggere senza gli occhiali di una riflessione intrisa di leggenda ebraica, come pure di poesia d'amore odi fede. Leggere delle rivalità che hanno avvelenato Gerusalemme, delle stragi che l' hanno insanguinata, dei tesori che fra una guerra e l'altra le sono stati donati e che di guerra in guerra le sono stati sottratti per essere portati in innumerevoli Babilonie a un tempo più forti e più caduche, comunque avide della sua mistica autorevolezza, è per me vedere un flusso d' oro che da lei si diparte per andare a riverberare la sua essenza nel mondo intero. Perciò, insieme con William Blake, mi viene fatto di cantare: «Ti do il capo di un filo d'oro, / tu avvolgilo, fanne un gomitolo, / ti guiderà alla porta del cielo / che si apre sopra le mura di Gerusalemme». E perciò pensando a quando il cielo si apre per comunicare con la terra, ricordo che stando all'esegesi rabbinica proprio qui, sotto la porta del cielo, nel luogo stesso dove sorgeranno il tempio e l'altare per le offerte, è stato commesso il primo assassinio.

   Il cielo si era già aperto per ricevere i sacrifici dei due primi fratelli, ma solo quelli del pastore Abele che aveva immolato le parti grasse e scelte dei più teneri fra i suoi animali, vi aveva trovato accoglienza. Con cupo rancore l'agricoltore Caino si era visto rifiutare la frutta che pure sapeva di avere colta a casaccio, quasi l' offerta di un dono non meritasse speciale attenzione.

   Dio l'aveva ammonito contro gli irriflessivi moti d'ira: «Attento» gli aveva detto lasciando intendere che per ogni essere umano la porta dell'anima deve essere contigua a quella del cielo. «Attento, il peccato è in agguato alla porta, ma tu devi dominarlo». E lo devi in quanto lo puoi.

   L 'episodio illustra due diversi modi d'intendere e praticare i rapporti con la Divinità e testimonia del pessimo carattere di Caino, ma anche se la Scrittura sembra farne l'introduzione all'assassinio che per primo intrise di sangue la terra di Gerusalemme, può anche non essere letto come sua causa diretta. La tradizione rabbinica separa infatti i due episodi dando dell'assassinio  una lettura premonitrice delle passioni che faranno di Gerusalemme una fortezza perennemente contesa: le passioni base di ogni umano eccesso.

   In Genesi IV ,8 è scritto: «E disse Caino ad Abele suo fratello, e accadde che mentre erano nel campo, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise». Il testo non accenna neppure a quel che Caino avrebbe detto, in compenso i rabbini ipotizzano che parlò anche Abele, e drammatizzano il loro dialogo in tre separate versioni. Una attesta che i due fratelli, unici eredi della prima coppia umana, si erano accordati per spartirsi il mondo: a Caino l'agricoltore era toccata la terra e al pastore Abele i beni mobili. Subito però l'avidità di possesso aveva sconvolto le loro menti. «Gli abiti che indossi sono tessuti con la lana dei miei agnelli! Spogliati!» aveva gridato Abele mentre Caino gli ingiungeva: «La terra su cui cammini è mia! Vola!». Siccome Abele non riusciva a volare, erano venuti alle mani con le conseguenze che sappiamo.

   In base alla seconda versione Caino e Abele si sarebbero divisi in parti uguali beni mobili e beni immobili, per trarne poi subito motivo di contesa. «Il tempio sorgerà nel mio territorio!» avevano gridato entrambi, chiaramente intendendo: «Saranno la mia religione e le mie leggi a dominare, e tu o chinerai la testa o te la taglierò». Così introducendo nel mondo l'intransigenza religiosa e la prepotenza politica, si erano scagliati uno contro l'altro e Caino aveva ucciso Abele. Secondo la terza versione erano scesi a vie di fatto per via di Eva che era sì la loro madre, ma era anche l'unica donna esistente al momento, e per quanto possa sembrare strano, proprio questa terza versione getta su Gerusalemme e sulle passioni di cui viene fatta oggetto, una luce tanto più illuminante in quanto squisitamente simbolica.

   Punto d'attrazione e d'incontro di culture, fedi, ideali tutti assoluti, tutti determinati a presentarsi come l'unico tanto puramente candido da meritare di possederla, troppo spesso la troppo amata Gerusalemme è stata vittima di malintesi amori. Perché malinteso è l'amore che invece di cercare soprattutto il bene dell'oggetto amato, vuole l'oggetto amato solo per sé, a costo di mandarlo distrutto o di avvelenarne il respiro pur di non cederlo né condividerlo con altri. Città con una storia particolarissima che non si lascia leggere come le storie delle altre città, Gerusalemme è stata ed è amata con la passione esclusiva che si dedica a una moglie, a una madre, comunque al fondamento femminile di una maschile storia individuale.
                   Lo stesso essere stata tante volte eletta a capitale d'una singola fede in un luogo che l'esibisce a ogni sguardo e quindi a ogni brama senza però garantirle l'imprendibilità, l'accosta a quelle mogli che la superbia di mariti gelosi agghinda e ostenta per metterne alla prova la fedeltà, senza però che venga loro garantita quella pace interiore che è l'unico vero baluardo contro ogni cedimento. E come queste mogli, una volta perdute, diventano specchi di rimorsi e rimpianti, ecco la Gerusalemme vedova e madre di figli esiliati, che nelle Lamentazioni piange in gramaglie sulle rovine del proprio passato splendore, infestate ormai da rovi e scorpioni.
                    La madre che da gestante è tutt'uno col figlio e poi accetta che dal suo corpo si distacchi, che lo nutre con la propria linfa ma per dargli vita autonoma, che sempre perdona e sempre torna ad accogliere, punto focale di esistenza ed essenza, è per l'ebraismo figura concretamente palese eppure inscrutabile in quanto il rapporto madre-figlio è in se stesso mistero. E non è misterioso il rapporto fra Gerusalemme e i suoi figli ebrei?
                    Se nasce ebreo chi è figlio di madre ebrea, se nel Libro dei Proverbi l'insegnamento di questa madre è chiamato Torà come la base prima di ogni insegnamento ebraico, se sempre nei Proverbi al figlio viene raccomandato di non distaccarsi da questo insegnamento perché da esso dipende la sopravvivenza dell'intero Israele, ebbene, allora, quanta parte della sopravvivenza d'Israele è dovuta alla grande madre Gerusalemme o, meglio, al ricordo di lei? Soprattutto al ricordo, che insieme con 10 studio della Torà per secoli e secoli ha fatto sì che gruppi di esuli dispersi per il mondo e onnai diversi fra loro per la lingua quotidianamente parlata, per gli abiti, per le golosità gastronomiche e perfino per le caratteristiche somatiche, continuassero a sentirsi parte di un'unità chiamata Israele. Un'unità integra che dal giorno dell'esilio una volta all'anno in coro ha continuato ad auspicare: «L 'anno prossimo a Gerusalemme!».
                   I ricordi non sono dati storici e mai persistono immutati. perfino quelli individuali tendono a sfumare e a trasformarsi sotto l'incalzare delle esperienze con cui vengono a contatto. Se poi le esperienze li tingono di rimpianto, diventano dignità, dovere. «La destra mi si paralizzi se ti dimentico, Gerusalemme. La lingua mi si incolli al palato se non ti ricorderò, se non porrò Gerusalemme in cima a ogni mia gioia» canta il salmista esiliato a Babilonia. Dalla Toledo d'inizio millennio Jehudà ha-Levi echeggia: «Il mio cuore è in Oriente e io sono al confine d'Occidente. Come trovare sapore nel cibo? Come può il cibo essere dolce per me? Come potrò adempiere ai miei voti... quando Sion è ancora in ceppi di Edom e io sono qui fra gli arabi in catene?».
                   Certo né il salmista né Jehudà ha-Levi ignorano le tante parole amare scagliate dai profeti all' indirizzo di Gerusalemme. Essi però di certo non ignorano neppure che nella città di Gerusalemme i profeti hanno di volta in volta additato il contenitore delle malefatte dei suoi governanti, mentre nel sogno messianico che fa da contrappeso a ogni loro rampogna, una futura Gerusalemme redenta è alveo di armoniose fioriture d'amore e concordia universali. Ebbene, per gli ebrei dispersi le profetiche visioni del futuro si fondono alla nostalgia di un passato che il rimpianto aureola di gloria, e che bisogna sforzarsi d'imitare nella speranza di farne rivivere lo splendore.

    Ed ecco che in Spagna, in Italia, in Lituania, ovunque insomma gli ebrei si imbattono in governi che consentono loro di coltivare in relativa tranquillità studi e costumi particolari e particolarmente amati, ecco che in ogni città o centro baciato dalla tolleranza dei gentili nascono innumerevoli, nuove, piccole, fervidissime Gerusalemme. Tesori di libri, ricami, oggetti di culto, speculazioni mistiche e costumi gioiosi, canti conviviali, di fede e d'amore scaturiscono dalle radici enfatiche di queste cittadelle del ricordo, per disperdersi però a uno a uno col ciclico estinguersi delle tolleranze dei gentili. E come dalla Gerusalemme in rovina si era sparso per il mondo il flusso dorato del suo ricordo unificante, dallo spegnersi delle tante Piccole Gerusalemme si dipartono fili e fili che avvolgendosi in gomitoli arrivano alla Gerusalemme bianca e nera della storia, per inondarla col sole dei suoi crepuscoli.

   È un attimo quello in cui levandosi oppure tramontando il sole l'investe coi suoi raggi obliqui. In quell'attimo Gerusalemme diventa tutta d'oro, quasi si specchiasse nella città gemella che l'attende alla porta del cielo. 
Sogno di aspirazioni alla pace ciclicamente frustrate dalle vicissitudini della Gerusalemme terrena, la Gerusalemme celeste ne è il controluce spirituale, l'esempio, l'invito, lo stimolo. Scenderà su di essa e con essa si fonderà, quando la Gerusalemme terrena sarà capace di elevarsi verso il cielo per raggiungerla. Dal cielo intanto, nel breve attimo dei suoi crepuscoli le legge ogni giorno il Cantico dei Cantici perché, come dice lo Zohar, «unendo fra loro tutti i cantici celesti, questo cantico racchiuse in sé tutti i misteri della Legge e della saggezza, come pure tutti gli eventi passati e futuri». E di Legge e saggezza ha bisogno la Gerusalemme terrena, come pure di ricordare, per costantemente indagarlo, il mistero della propria nascita, quando emerse dalle acque dell'inizio, primo lembo di terra e pietra, ombelico del mondo creato da Elohim.

   Ma chi, che cosa è Elohim? Elohim è Dio e Elohim è anche il nome con cui si definisce l'aspetto giudicante della Divinità, quello di cui il Signore dell'universo si avvale per mantenere tutto ciò che è di questo mondo. E come fa a mantenerlo? Lo mantiene in virtù del segreto insito nelle lettere di questo Suo nome, che se anagrammate danno: Mi elI eh, cioè a dire: chi, che cosa sono queste cose? Col Suo attributo giudicante, l'attributo del Supremo Giudice, infallibile perché prima di emettere giudizi non solo si interroga, ma consulta l'attributo della misericordia, indispensabile per temperare i giudizi e dare durata a ogni creazione, Dio ha quindi proceduto per gradi dando tempo al tempo.

   Come sarebbe: ha proceduto per gradi, e cosa significa: dando tempo al tempo? Significa che essendo il pensiero divino creazione, l'universo divenne realtà creata nel momento stesso in cui Dio pensò di crearlo. Siccome però gli elementi che lo compongono sono diversi e passibili di trovarsi in contrasto fra loro, Dio li mise in atto uno a uno, dopo essersi e averlo interrogato in modo da dare a ognuno il tempo di abituarsi all'altro e, prima ancora, di avvertirne il bisogno e perciò attenderlo come si attende un oggetto d'amore.

   Dalle acque dell'abisso, che si aprirono per amor suo, il monte di Gerusalemme emerse per primo, ombelico che lega la terra al cielo, perché le creature impastate con la terra avrebbero avuto bisogno di sentirsi legate al cielo, per trame ispirazione. Quando poi campi e fiumi e mari e foreste avvertirono la necessità di una presenza umana che li governasse, in un crepuscolo fra giorno e notte che fu annuncio dorato dei crepuscoli di Gerusalemme, e con la migliore terra della sua vetta vennero plasmati Adamo ed Eva, il padre e la madre di tutte le creature, i primi sposi della storia del mondo.

   «Lekhà dodì licrat callà» cantano gli ebrei nel crepuscolo del venerdì sera: «Vieni, mio diletto, incontro alla sposa». E sposa d'Israele è il Sabato, ultimo giorno della creazione, che andrebbe vissuto come un assaggio dell'era messianica. Vuole però la tradizione che questo canto vada, nell'intenzione, rivolto a Gerusalemme, perché sarà Gerusalemme ad annunciare questa èra quando sul suo monte si poserà la pace. Quando cioè potrà smettere le gramaglie e stringersi al cuore i figli che nell'intimo dei loro cuori si rifaranno a lei, e perciò saranno fra loro concordi pur essendo diversi come le lapidi che inanellano l'ombelico della sua vetta.

   Il mistero di Gerusalemme, quel mistero che i suoi crepuscoli da sempre annunciano e che Gerusalemme ancora stenta a rivelare, è il vitale mistero delle preziose alchimie che si realizzano quando più comunità di esseri umani si integrano in umanità senza perciò rinunciare alle proprie specifiche valenze, e così facendo si elevano verso il cielo facendo scendere il cielo sulla terra. Ebbene lì, a mezz'aria, nel punto d'incontro che fa della vita d'ogni giorno un'esistenza tesa oltre la quotidianità, si libra la Gerusalemme d'oro. Ci voleva un poeta per afferrare con una sola mano questi due aspetti estremi della sua valenza. Jehudà Ammichai l'ha fatto ricordandoci:

Ci sono preghiere infisse nelle fessure del muro del pianto
bigliettini di carta ripiegati e l'uno all'altro appiccicati.
Un bigliettino solitario se ne sta invece infilato in una vecchia porta di ferro
seminascosta da un cespuglio di gelsomino:
«Non sono riuscita a venire,
spero che capirai».

   Potrebbe averlo scritto la pace, cui l'attimo dell'incontro viene sempre impedito. Potrebbe averlo scritto l'amata del Cantico, che per le strade di Gerusalemme cerca e attende il suo amato, e che vuole a sua volta farsi cercare e attendere da lui. Potrebbe semplicemente averlo scritto una qualsiasi ragazza innamorata. Per sapere chi sia, non c'è che da attenderla così come chiunque sa veramente amare sa anche attendere ciò che più ama, e cioè spianando ogni possibile strada. La Gerusalemme d'oro vive nelle attese dell'anima.