Giorgio Perlasca


La vicenda di Giorgio Perlasca è oramai nota; il film televisivo ha portato nelle case degli italiani la straordinaria vicenda di un italiano che inventandosi un ruolo, quello di Console spagnolo a Budapest, riuscì a salvare oltre 5200 ungheresi di religione ebraica.

Si trovava a Budapest per conto di una ditta italiana che importava carne per l’esercito, la SAIB. L’ 8 di settembre del 1943 lo coglie a Budapest, non aderisce alla RSI rimanendo fedele al governo del Re.  Internato prima in un castello per diplomatici, man mano che le sorti della guerra peggiorano per i tedeschi la situazione diventa sempre più pericolosa, sino al colpo di stato dell’ottobre ‘44 quando le croci frecciate, i nazisti ungheresi, prendono il potere.

La situazione diventa drammatica, trova ospitalità all’Ambasciata di Spagna e come combattente della guerra civile spagnola è in possesso di un documento a firma del Generale Franco che dice “caro camerata in qualunque parte del mondo ti troverai, rivolgiti alle Ambasciate spagnole”. Ottiene un regolare passaporto a nome di Jorge Perlasca e comincia ad aiutare l’ambasciatore spagnolo nell’opera umanitaria di protezione che già la Spagna svolgeva di concerto con le altre potenze neutrali presenti a Budapest.

Il 1 dicembre 1944 Sans Briz, l’ambasciatore spagnolo, lascia l’Ungheria per la Svizzera; ma Giorgio Perlasca non lo segue e si autonomina Console spagnolo.

Ed iniziano i 45 giorni ricordati nel film.  

Perché lo fece e perché mantenne per oltre 45 anni il silenzio.

È una domanda che mi sono purtroppo posto solo recentemente e non quando mia padre fu scoperto e ritrovato a fine anni ‘80, e lo vidi anch’io sotto una nuova veste.

Sorpreso dalla scoperta ma soprattutto dalla tranquillità e serenità con cui mio padre viveva quei momenti, diedi tutto per scontato, quasi naturale, ovvio.   Ma non era così.

Rileggendo con attenzione le due relazioni scritte, sulla base delle agendine, dopo la guerra per il Governo spagnolo una e per uno scrittore ungherese, si coglie una parte del perché.

La prima relazione del giugno ’45 è scritta quasi per scusarsi di aver usurpato un posto non suo ma di averlo fatto per il bene e l’onore della Spagna.  Così termina questa relazione “mi permetto di credere che la gravità della situazione e la necessità inderogabile di salvare con qualunque mezzo la vita di migliaia di persone, possano giustificare la singolarità, forse senza precedenti, della posizione da me assunta nei confronti della Legazione di Spagna a Budapest. Il pieno successo della mia opera, per le sue alte qualità umanitarie, oso pensare non disdica al decoro della Spagna e alle sue grandi tradizioni civili . . . “

Nello stesso momento avverte, per correttezza, con lettera del 12 giugno ’44 il Console generale d’Italia ad Istanbul (ove si trovava sulla via del ritorno in Italia) di aver consegnato una relazione al Governo spagnolo su quanto aveva fatto.

La seconda (chiamata pro memoria) che racconta in maniera impersonale, quasi da testimone e non da protagonista, quei 45 giorni, solo per ristabilire una verità storica, viene redatta su richiesta dello scrittore ungherese Jeno Levai.

Riteneva semplicemente di aver fatto il proprio dovere e chi fa il proprio dovere non deve aspettarsi una ricompensa.

Il tutto poi “aggravato” dal fatto che, pur non essendo fascista dall’epoca dell’alleanza con la Germania e dalle sciagurate leggi razziali mai divenne antifascista, mai rinnegò il passato, la guerra in Spagna come volontario, anzi.

E dal fatto che il ruolo della Spagna ne usciva troppo bene per il periodo, come una nazione che aveva contribuito a salvare, e non solo in Ungheria, migliaia e migliaia di ebrei

Negli anni ‘50, poi, il settimanale Il Tempo di Milano pubblicò un servizio su Wallenberg accreditando la tesi che fosse stato ucciso o deportato dai russi. Giorgio Perlasca scrisse una lettera (18 febbraio 1957) raccontando, lui che Wallenberg l’aveva ben conosciuto e con cui aveva collaborato costantemente e giornalmente, la sua convinzione che fosse rimasto ucciso per tragica fatalità durante i giorni caotici dell’ingresso delle truppe dell’Armata Rossa in città. Ma senza rivendicare ruoli, solo come testimonianza storica.

Così come prima di andarsene da Budapest trova il tempo e la voglia di aiutare il maggiore Tarpataki, l’ufficiale ungherese “buono” che lo aveva aiutato in quei 45 giorni, scrivendo una lettera autografa alla Polizia politica sovietica, spiegando quanto di buono aveva fatto il maggiore.

Tutta la sua vicenda poteva essere conosciuta già nel primo dopoguerra ma nessuno ne ebbe la volontà, la voglia, la convenienza forse a renderla nota.

Sans Briz continuò la carriera diplomatica, fu anche ambasciatore presso la Santa Sede negli anni ‘60, ma mai volle riconoscere il ruolo di Giorgio Perlasca.  Ma per fortuna il tempo è stato galantuomo, ristabilendo la verità storica e morale.

Giorgio Perlasca riteneva di aver fatto il proprio dovere.

Lei, cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo gente inerme uccisa senza un motivo, era la risposta che dava alla domanda ricorrente: perché lo ha fatto ?

E chi fa il proprio dovere non deve essere premiato; d’altronde chi voleva, chi doveva sapeva; dalla Spagna, ai Governi delle potenze neutrali che avevano cooperato con lui nel salvataggio degli ebrei, al governo italiano che aveva copia del memoriale.

Nei suoi diari ricorda l’incontro con il nunzio Pontificio Monsignor Rotta a cui, in confessione, rivelò di non essere uno spagnolo ma un italiano, chiedendo di avvertire la famiglia se gli fosse successo qualcosa.

Ma nessuno ricordò.

E cosa doveva fare; cercare di vendere la sua storia per avere qualcosa in cambio. Non era il suo carattere, il suo stile.

Forse, pensò, a nessuno interessa sapere quanto era successo.

E la sua storia rimase nel cassetto sino a che non fu ritrovato da queste donne ungheresi e tedesche e la storia uscì sia pur faticosamente.

Era difficile credere che un uomo solo, senza struttura, inventandosi un ruolo avesse salvato oltre 5200 persone. Si metteva in crisi un apparato: cosa si sarebbe potuto fare con una struttura, allora.

Vi fu Mixer, il libro di Deaglio, le onorificenze in Israele, Ungheria, Stati Uniti, Spagna ed Italia. Giorgio Perlasca venne a mancare il 15 agosto del 92; poi tutto sommato calò l’oblio, la sua vicenda rimase confinata in un ristretto cerchio, di quasi addetti ai lavori.

Quando – penso – in altri paesi sarebbe diventato l’eroe, l’esempio da imitare. Ma l’Italia è uno strano paese che spesso sembra vergognarsi dei grandi italiani, che l’Italia l’hanno amata (penso a Cefalonia episodio totalmente dimenticato) e tende ad esaltare e compiacersi sugli esempi in negativo.

Poi il progetto del film, faticoso, lungo, non semplice; era una vicenda dura, scomoda e con tanti stop. Quello che chiedemmo fu una storia rispettosa dei fatti, senza tentazioni ideologiche di parte, e con due assicurazioni che sempre mio padre aveva richiesto: non parlare male della Spagna del generale Franco e non parlare o inventare storie private.

Entrambe sono state rispettate; il film è la trasposizione della vicenda di quei 45 giorni, senza indulgere in sentimentalismi o storie d’amore inventate.

Un film coraggioso per la Rai, una scommessa vinta però: quei 13 milioni di spettatori alla seconda puntata, con uno share di oltre il 43%, testimoniano che i tempi erano maturi per una storia di questo genere.

Dopo il film ho ricevuto, all’indirizzo e-mail del sito dedicato a Giorgio Perlasca, centinaia di messaggi la maggior parte dei quali rivendicava, finalmente, l’orgoglio, la riscoperta dell’orgoglio d’essere italiani.

Una vicenda, questa, che unisce, che deve unire e non dividere, al di sopra d’ogni ideologia; una storia non contro ma per qualcuno e qualcosa.

E questa riscoperta dell’orgoglio di essere italiani avrebbe fatto felice mio padre, che amava l’Italia ed amava orgogliosamente essere italiano.

Sempre e comunque, mantenendo l’autonomia di pensiero.

La frase finale del film quando il maggiore ungherese saluta Giorgio Perlasca, ricercato in quel momento dai russi è sintomatica; cambiano i vincitori ma lei rimane sempre dalla parte degli sconfitti.

Frase bellissima che spiega molte, troppe cose. Così come il racconto di quel compatriota, tal B., che a Budapest nel dicembre del 1944 lo accusava di essere un “traditore” in quanto proteggeva gli ebrei e che mio padre ritrova a Venezia nell’agosto del 1945 nominato dal CLN direttore dell’alimentazione della provincia di Venezia.

La metafora dell’intera vicenda è comunque rappresentata dai versi della tradizione ebraica sui 36 giusti; al mondo esistono sempre 36 giusti, nessuno sa chi sono e nemmeno loro sanno d’esserlo, che prendono sulle loro spalle il destino del mondo e rappresentano il motivo per cui Dio non lo distrugge.

E la storia di Giorgio Perlasca è la storia di uno dei 36 Giusti; nemmeno lui sapeva d’esserlo ma è riuscito a dare dignità ed amore ad un periodo tragico.

Lo stesso concetto lui lo esprimeva con un proverbio.

L’occasione può rendere l’uomo ladro od eroe; a me – diceva – ha portato a fare quello che ho fatto.

                Franco Perlasca

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Ringraziamo la Comunità Ebraica di Cassino, che ci ha messo a disposizione questo articolo ricevuto direttamente da Franco Perlasca 

 


 

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