«Toaff? Un’indicazione per il successore»
Intervista a Tullia Zevi, L'unità del 7 aprile 2005

Quello di papa Wojtyla sarà un pontificato che resterà nella storia dei rapporti tra mondo ebraico e cristianità, come forte resterà il ricordo e il sentimento di amicizia della comunità ebraica romana verso questo il vescovo di Roma venuto dall'Est.

«L’aver nominato il rabbino Toaff nel suo testamento spirituale non è solo il riconoscimento da parte di Giovanni Paolo II del rapporto di reciproca cordialità che il Papa ha avuto con Elio Toaff già prima della storica visita di Karol Wojtyla alla Sinagoga di Roma. Quel riferimento segnala anche uno degli aspetti più significativi del lungo pontificato di Giovanni Paolo II: l’importanza data allo sviluppo del dialogo interreligioso, in particolare con i “fratelli maggiori” ebrei. In questo senso, quel riferimento esplicito al rabbino capo della più antica comunità ebraica del mondo occidentale non può che essere inteso anche come un lascito di Karol Wojtyla al suo successore perché prosegua nel cammino del dialogo». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative dell’ebraismo italiano: Tullia Zevi, già presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane. E sul futuro, pontificato, Tullia Zevi spera che «non vi sia né rallentamento né inversione nel cammino del dialogo interreligioso avviato dal Concilio Vaticano II e consolidato da Karol Wojtyla».

Come interpretare l’esplicito riferimento fatto da Giovanni Paolo II nel suo testamento spirituale al rabbino Toaff?
«Indubbiamente c’è anche un dato personale in questo riferimento che riguarda un rapporto di reciproca cordialità che ha legato Giovanni Paolo II a Elio Toaff ancor prima della visita del Papa alla Sinagoga di Roma nel 1986. Ma oltre al dato personale, in quel voler nominare il rabbino capo di Roma è racchiuso uno degli aspetti più significativi del pontificato di Karol Wojtyla: la sua particolare apertura al dialogo con l’altro da sé, e in questa volontà di aprire la Chiesa cattolica al dialogo, Giovanni Paolo II ha sempre guardato con grande interesse e partecipazione al mondo ebraico».

Lei ha fatto riferimento alla visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Quell’atto segnò una svolta nel rapporto con il mondo ebraico...
«Una svolta che non nasce però con il pontificato di Karol Wojtyla. Quella visita si muove nella scia del Concilio Vaticano II, fortemente voluto da Giovanni XXIII°. Il documento Nostra Aetate conteneva una parte che si riferiva specificamente agli Ebrei. Karol Wojtyla ha proseguito sulla strada del dialogo tracciata da Giovanni Paolo II, imprimendo ad essa la sua straordinaria capacità di condensare in atti simbolici di grande impatto il valore di un messaggio ecumenico...».

Un atto simbolico è anche la scelta della Sinagoga di Roma?
«Direi proprio di sì. In questa scelta non c’è solo il riconoscimento della più antica comunità ebraica del mondo occidentale; c’è anche qualcos’altro che inerisce a una vicinanza che ha subito fasi alterne. Fasi anche drammatiche, perché va ricordato che il Ghetto a Roma fu creato nel 1555 per decisione papale con una bolla pontificia in cui si sanciva che era assurdo che ebrei vivessero “frammischiati” a cristiani. Nella scelta di Roma c’è anche un altro tratto peculiare di questo pontificato.

Quale sarebbe questo tratto?
«La capacità di Giovanni Paolo II di tenere insieme politica, ecumenismo, impatto mediatico. Per segnare una svolta nel dialogo con il mondo ebraico, Giovanni Paolo II avrebbe potuto partire da un dato quantitativo, e dunque scegliere la comunità ebraica più numerosa, quella statunitense. Invece ha scelto la “piccola” comunità romana, piccola nelle dimensioni ma straordinariamente ricca di storia. La comunità più vicina al centro della cristianità, una vicinanza ininterrotta di due millenni, e per questo più sensibile agli atteggiamenti, positivi e non, assunti dalla Chiesa. In fondo, quella visita era un fatto “naturale”. Ma proprio per questo più difficile da compiere».

Quell’atto simbolico quale messaggio ecumenico sintetizza?
«Racchiude in sé la grande apertura verso il mondo esterno che ha caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II, e in questa apertura, Wojtyla ha ha mostrato una particolare attenzione e affetto verso le comunità ebraiche, Israele compreso».

Un alto momento di particolare significanza nel dialogo tra il capo della Chiesa cattolica e i «fratelli maggiori» ebrei fu la visita a Gerusalemme.
«Quel viaggio ha avuto molteplici significati: il riconoscimento dolente dell’unicità dell’Olocausto, con la visita allo Yad Vashem, e soprattutto la visita al Muro occidentale (il Muro del Pianto) con il Papa che si immedesima pienamente con i “fratelli ebrei” lasciando un bigliettino in una fessura del Muro. Un gesto che ebbe un grande impatto emozionale non solo per Israele ma per tutto il popolo ebraico».

Il riferimento al rabbino capo Toaff può essere inteso anche come un messaggio lanciato da Giovanni Paolo II al suo successore?
«Me lo auguro, anche se è meglio non pretendere di fare i profeti. Spero che non vi sia né un rallentamento né inversione nel cammino che è stato aperto dal Concilio Vaticano II e consolidato da Giovanni Paolo II nel corso del suo pontificato. Un pontificato caratterizzato da un rapporto dialogico con il mondo ebraico molto soddisfacente; mi auguro che in futuro questo rapporto si possa estendere anche all’altra grande religione monoteistica, quella musulmana, e al mondo laico».

Lei ha avuto modo di incontrare più volte Giovanni Paolo II. Quale impressione ha ricavato?
«Una impressione di vigore, di sicurezza, di un uomo, oltre che di un leader religioso, aperto verso il prossimo».

______________________
[Fonte: L'Unità 7 aprile 2005]