Introduzione torna su
La ricerca delle più profonde radici dell'identità ebraica fu appassionatamente perseguita da
Buber nell'intero corso della sua vita e sempre risuonò la sua parola di richiamo alle fonti originarie di una reale
ebraicità.
Perché ci chiamiamo Ebrei? - si chiedeva
nel lontano 1909 - Solo perché così si chiamarono i nostri Padri? Per una consuetudine ereditaria? O il nostro nome ha
origine in una realtà? (...) Esiste una reale religiosità ebraica? Non dogma o norma, e culto o regola, ma relazione
particolare e vissuta dell'uomo con l'Assoluto che si dovrebbe, per la sua sostanza, dichiarare ebraica e che si
concreta in una comunanza con gli Ebrei? Esiste ancora, nel nostro tempo, il sentimento elementare di Dio? la santa,
ardente, potenza di Elohim? (...) Considerata quale realtà interna - egli si rispondeva - la religiosità ebraica è un
ricordo, forse anche una speranza, ma non una manifestazione attuale(1).
E così era per una presunta "nazionalità
ebraica". Vivendo nella diaspora, privati della propria terra, della propria lingua e assimilando le forme di vita
della realtà circostante, gli ebrei vivevano e soffrivano la profonda frattura tra la soggettività della coscienza della
propria appartenenza alla catena delle generazioni che li avevano preceduti e plasmati e l'oggettività del proprio
partecipare alla cultura e alla realtà dell'ambiente in cui vivevano.
«Noi ebrei dobbiamo sapere - egli affermava - che non solo i costumi dei
padri, ma anche la loro sorte: tutto, pena miseria vergogna, tutto questo ha contribuito a formare la nostra essenza
...allo stesso modo che dobbiamo sentire e sapere che in noi vivono i cantori e i re di Giuda...»(2)
Ma sarebbe, pur tuttavia, insensato volersi
liberare della civiltà che vive intorno a noi, elaborata dalle forze più intime del nostro sangue e fatta nostra. Ciò
porta l'ebreo della diaspora ad un dissidio profondo tra la memoria della sua singola vita e la memoria dei millenni. Da
ciò "la tragicità e la grandezza" dell'auto-affermazione degli ebrei che devono vivere la complessità della
propria situazione per vivere veramente "ebraicamente". poiché a nessun altro popolo come all'ebreo è stato
costantemente contestato e sempre di nuovo posto in dubbio il diritto all'esistenza. Ad esso sempre di nuovo si chiede di
giustificare le ragioni per la propria sopravvivenza. Gli individui che formano questo popolo sono costretti ad una
costante auto-critica che possa giustificarne l'identità ai loro stessi occhi.
Il processo spirituale dell'ebraismo torna
su
Approfondendo l'analisi di se stesso,
ciascun ebreo, a detta di Buber, scopre dentro di sé una fondamentale bi-polarità che è espressione della più profonda
essenza della propria ebraicità.
La coscienza di tale bi-polarità ha le sue radici nell'antichità e nel mito: Nel mito del
peccato originale che compare nella Genesi, nei racconti sull'abbandono di Dio nei libri storici, negli appelli ripetuti
dei Profeti a vincere l'ingiustizia, nel richiamo alla purificazione in Dio che echeggia nei versetti del salmista, sempre
si presenta la dualità tra il bene ed il male. Ma dalla coscienza della divisione interna e della dualità originale
scaturisce per l'ebreo, come per nessun altro popolo, l'anelito verso l'unità.
L'anelito verso l'unità - scrive Buber - è
appunto quello che ha reso l'ebreo creativo. Dalla discordia dell'Io tendendo all'unità, egli creò l'idea del Dio-unità.
Anelando dal dissidio della collettività umana all'unità, creò l'idea della universale Giustizia. Dalla disunione
degli esseri viventi, aspirando all'unità, creò l'idea del Sommo Arnore (3).
«Solo se sei integro hai parte nell'eterno tuo Dio»
è detto nel Midrash. Ma all'età creativa dell'antico Israele seguì l'epoca improduttiva del Galuth, dell'esilio.
Età di esilio reale, poiché, a detta di Buber, essa ci ha bandito dalla nostra essenza originale. Lontana dalla vita e
dall'anelito vivente verso l'unità, essa era sterile, anzi si volgeva sempre più contro la forza creatrice medesima,
contro tutto ciò che vi ha di libero e di nuovo. Come direbbe ora Finkielkraut: «Era un modo di dimenticare il messaggio
a favore dell'appartenenza»(4). Era un'età che, nutrita delle parole
dei libri, delle interpretazioni alle interpretazioni, stentava una vita povera, malata, contorta, in un'atmosfera di
astrazione senza idee. La desolante realtà esteriore, la condizione di emarginazione ed oppressione della vita del Galuth,
fatta di ghetti e di pogrom, di pericolo costante e del costante terrore di una sopraffazione distruttrice fu causa
concomitante di questa chiusura che minacciò la paralisi totale dell'aspirazione all'unità.
La fiaccola restò accesa e fu trasmessa alle seguenti generazioni per il fervore di pochi che
permisero la speranza in una redenzione. Tale speranza non può attuarsi per l'Ebraismo che con «l'effettiva ammissione
nella vita dell'Ebraismo profetico», con l'aspirazione a vivere in modo assoluto ed a concretare il proprio senso di Dio,
affinché, come dice Amos, «la giustizia si manifesti a guisa di rapido torrente». (5,24).
L'Ebraismo in effetti non è soltanto una confessione religiosa, ne è soltanto un popolo, ma è
«un processo spirituale che ha i suoi documenti nella storia interna del popolo ebraico e nelle opere dei grandi Ebrei»
e che si manifesta nella tensione per l'attuarsi di tre grandi idee e tendenze legate tra di loro: la tendenza all'unità;
l'ideale messianico; l'azione nel mondo come unica via all'attuazione del Messianesimo.
La tendenza all'unità non soltanto è generata, come è stato prima ricordato, dal
desiderio intenso di superare l'interiore dissidio, ma anche dall'insita natura dell'ebreo che è portato più a scorgere
le connessioni tra i fenomeni che non i singoli fenomeni stessi.
L'ideale messianico, nella sua visione più alta è l'aspirazione all'assoluto, alla
redenzione dello spirito umano e l'avvento non sarà né in un tempo prossimo né in un tempo lontano, ma nel tempo
definitivo, nella pienezza del tempo, alla fine dei giorni.
L'idea d'azione, d'altra parte, intesa nel suo pieno significato, è il vero centro vitale
della religiosità. «Per mezzo dell'atto santificato nella sua intenzione vengono liberate le cadute scintille divine
sparse nelle cose e negli esseri (la Skehinah)... e così facendo, chi agisce contribuisce alla redenzione del
mondo... Anzi, egli coopera alla redenzione di Dio medesimo, poiché, grazie al supremo accomunarsi e tendersi
dell'azione, egli può avvicinare per un istante incommensurabile, nell'ora della grazia, l'esiliata gloria di Dio e
penetrare in essa»(5). Tale è la sublimità e la pienezza di potere
attribuita all'azione.
La lotta per l'adempimento deve abbracciare tutta la realtà quotidiana, quella dell'individuo e
quella del popolo, poiché deve entrare nella vita. Si attueranno, allora, le parole di Isaia: "La voce d'un
annunziatore nel deserto: preparate ad Adonai la sua strada!.. (40,3). È questo il significato dell'affermazione del Midrash
Tannà debè Elijahu "Prendo per testimoni il cielo e la terra che lo spirito santo può riposare sul pagano e
sull'ebreo, sull'uomo e sulla donna, sul servo e sulla serva, unicamente per l'azione dell'uomo...
L'unità tra religione ed etica torna
su
Dall'azione per un rinnovamento della religiosità ebraica, dovrebbe, per Buber - in un
discorso profetico pronunciato prima del 1° conflitto mondiale - fiorire il rinnovamento spirituale dell'Ebraismo.
"Un altro popolo potrebbe forse trovare la sua salvezza altrove; al popolo ebreo essa non si schiude che nella
vivente energia... grazie alla quale esso ha durato: non nella sua religione, ma nella sua religiosità»(6).
Poiché la religiosità è il vero principio creativo: "Ma se i riti ed i dogmi di una religione sono cosi irrigiditi
che la religiosità non è capace di smuoverli oppure non vuole più sottomettersi a loro, la religione diviene sterile e
quindi non vera... La religiosità si attua con la realizzazione sulla terra della libertà divina e dell'assoluto, per
mezzo della decisione umana. "Il nocciolo dell'Ebraismo è là dove l'assoluto è una faccia velata di Dio che vuole
essere scoperta nell'azione umana... "La vera religiosità non ha nulla in comune ne con i sogni dei cuori esaltati,
né con l'autogodimento delle anime estetizzanti, né coi giochi profondi di una intellettualità esercitata»(7)
La vera religiosità è "azione".
La concezione fondamentale della religiosità ebraica ed il
nocciolo del monoteismo ebraico consistono nel considerare ogni cosa come espressione di Dio, ogni evento come una
manifestazione dell'Assoluto. Per l'ebreo la realtà sensibile è una rivelazione dello spirito divino e della volontà
divina. L'ebreo antico non può raccontare altrimenti che sotto forma di mito, perché per lui un evento merita di essere
raccontato soltanto allorché può essere inteso nel suo senso divino. Tutti i libri narrativi della Bibbia hanno un solo
contenuto: la storia degli incontri di Dio col suo popolo. L'impronta specifica del mito ebraico consiste non nell'abolire
la causalità, ma nel porre al posto di quella empirica una causalità metafisica, un collegamento degli eventi vissuti
con la sostanza di Dio.
La realtà sensibile è divina, ma essa deve essere 'realizzata'
nella sua divinità da chi la vive veramente. Il mito ebraico assume, quindi, un duplice aspetto: l'uno è il mito della
conservazione del mondo attraverso le opere del Signore; l'altro è quello della redenzione del mondo attraverso la
decisione e l'opera dell'uomo. La quale opera non può portare alla redenzione se non nella realizzazione della comunione
e nel formarsi della collettività operante nella luce del Signore. Poiché, per Buber, queste sono le linee fondamentali
della dottrina su cui si basa la vocazione dell'Ebraismo:
Dio è il sole delle anime. Ma non sta saldo e non vive in faccia a Dio colui che si
sottrae al mondo delle cose e contempla, dimentico di se stesso, il sole; bensì colui che respira nella Sua luce, che
vive nella Sua luce, che immerge se stesso e tutte le cose nella Sua luce... Essa albeggia nell'essere, in tutti, ma
diventa splendida non in loro, ma fra loro... il divino può svegliarsi nel singolo... ma raggiunge la sua vera
pienezza allorché i singoli esseri... si aprono l'uno all'altro, comunicano uno con l'altro, si aiutano l'un l'altro...
quando si schiude la sublime prigione della personalità e l'uomo si rivela all'uomo, quando nello spazio che c'è tra
loro, nello spazio apparentemente vuoto, sorge l'eterna sostanza: il vero luogo della realizzazione è la collettività,
e vera collettività è quella in cui il divino si realizza tra gli uomini(8)
.
Per Buber, dunque, la particolarità dell'ebraismo consiste non
nella religione, né nell'etica, ma nell'unità di ambedue questi elementi. Nel vero Ebraismo non ci sono ne
morale ne fede considerati come campi separati. Il mondo spirituale diviso in santità dell'opera e santità della Grazia
gli è estraneo. E parimenti non possono per esso essere separati il principio nazionale e quello sociale: nazionale
significa la materia; sociale significa il compito. Ambedue sono uniti nell'idea di plasmare il popolo in una vera
collettività umana, in una comunità sacra. Il mondo del vero ebraismo è il mondo dell'unità di ogni vita sulla terra,
d'una unità non in essere, ma in divenire e di un divenire non di se stesso, ma dello spirito, dello spirito umano eletto
dallo spirito divino perché sia, come proclama la sublime parola ebraica, suo compagno nell'opera della creazione.
Questa splendida vocazione dell'Ebraismo dovette, tuttavia, sempre
lottare contro le formidabili opposizioni contro lo spirito. Per essa lottarono eroicamente i profeti per i quali il regno
di Dio doveva realizzarsi per opera dell'uomo. Essi, spesso costretti a disperare nel suo avvento attuale, proiettarono il
quadro delle loro verità nell'avvenire assoluto e, secondo Buber, «il quadro del messianesimo è l'espressione creatrice
della loro disperazione». La lotta costante ed eroica per la realizzazione del regno di Dio sulla terra fallisce molto
spesso, creando terribili delusioni e gravi pericoli per la vita dello spirito. «Vero è - come dice Dante -
che come forma non s'accorda / molte fiate all'intenzione dell'arte, / perché a risponder la matera è sorda, /
così da questo corso si diparte talor la creatura» (Primo Canto del Paradiso, vv. 127-129).
Le deviazioni tuttavia che si sono verificate e che si verificano
nella vita dell'Ebraismo devono venire corrette dalla sempre presente aspirazione alla vera collettività. Buber, nel
maggio del 1918, parlando del progetto che si stava realizzando attraverso il Sionismo, della costruzione di una vera
collettività in Sion, scriveva:
Sappiamo che ci attende una lotta contro una resistenza
smisurata. Non dimentichiamo che all'azione per il divenire della collettività si oppone tutto: la rigidità di coloro
che nessuna concessione vogliono fare all'eredità dei Padri e l'inerzia di coloro che sono schiavi del momento;
l'egoismo meschino e l'in docile vanità; l'isterico sperpero di se stessi; il culto del puro pensiero ed il culto della
"politica reale"; non dimentichiamo la natura della massa eterna che si oppone con tutta l'energia manifesta e
latente alla volontà formatrice dell'imperativo morale. E, nondimeno, noi speriamo... Certo, conosciamo abbastanza l'Erev
Rav, la plebe eterogenea, pronta ai compromessi e nemica della realizzazione che profana ogni puro divenire
dell'Ebraismo. Ma, molto più profondamente, noi siamo, sopra tutte le delusioni del passato e dell'avvenire,fiduciosi
in Israele e coscienti di Dio(9) .
Il filosofo sapeva che la vera via per il rinnovamento non avrebbe
mai potuto essere un'adesione alla dottrina ebraica come a qualche cosa di compiuto e di univoco; né I alla legge ebraica
come a qualche cosa di chiuso e di immutabile. Non poteva essere altro che un'adesione alle forze originarie, alle viventi
forze religiose che si erano sempre manifestate operando in tutto l'ambito della religione ebraica.
Costruire la pace è completare la creazione torna
su
Dopo le terribili e meravigliose esperienze di morte e di vita, subite e realizzate da
Israele, con la Shoà e con la ricostruzione dello Stato ebraico, il mondo aspetta qualcosa da Buber, dal suo più
profondo contenuto spirituale. Egli, parlando a New York nel 1951(10),
indicava questa «domanda silenziosa» rivolta dal mondo d'oggi all'Ebraismo, come un fenomeno nuovo nella storia. Per
secoli, infatti, il più profondo contenuto spirituale dell'Ebraismo o era rimasto sconosciuto, o aveva ricevuto scarsa
attenzione, per la ragione, forse, che durante il periodo dei Ghetti la realtà sottomessa della vita ebraica era
intravista a stento dal mondo esterno, mentre, durante il periodo dell'emancipazione, gli Ebrei soltanto e non l'Ebraismo,
apparvero a scena aperta.
Il terribile massacro di milioni di Ebrei,
l'avviarsi al martirio di tanti di loro nel nome del Signore, sorretti nell'inumano destino dai cantici della fede e della
speranza e, d'altra parte, il rifiorire nella terra dei Padri di un novello stato ebraico, opera umana apparentemente
miracolosa, dovuta alla tenace e faticata volontà ed all'azione dei pionieri, tutto questo ha contribuito a far sì che
il mondo abbia gradualmente iniziato a percepire che dentro l'Ebraismo vi è qualcosa che ha a che fare, in un modo
speciale, con i bisogni spirituali del mondo presente.
Si può intendere ciò solo considerando l'Ebraismo nella sua interezza e nel suo totale percorso
spirituale. Ma «questa interezza, queste fondamentali tendenze e la loro evoluzione - diceva ancora Buber nel 1951 - sono
per la maggior parte non riconosciute dagli stessi Ebrei, perfino da coloro che cercano ardentemente il sentiero della
verità(11). E portava l'esempio di ebrei spiritualmente importanti
come Henry Bergson e Simone Weil:
Tutti e due, Bergson e Weil, erano ebrei. Tutti e
due erano convinti che nel misticismo cristiano avrebbero trovato la verità religiosa che stavano cercando. Bergson
ancora vedeva nei profeti d'Israele i precursori della Cristianità, mentre S. Weil semplicemente si sbarazzò tanto di
Israele quanto dell'Ebraismo. Nessuno dei due si convertì al Cristianesimo. Bergson, probabilmente perché andava
contro le sue inclinazioni lasciare la comunità degli oppressi e perseguitati, e S. Weil per ragioni derivanti dal suo
concetto di religione(12).
Ambedue, secondo Buber, cercavano e credevano di
avere trovato nel Cristianesimo la risposta religiosa che stavano cercando e respingevano l'Ebraismo perché non lo
conoscevano nella sua interezza:
Non è vero che Israele non abbia dedicato
all'intimità spirituale il suo posto di diritto; piuttosto, non si è accontentato di questo. I suoi maestri contestano
l'autosufficienza dell'anima. L'interna verità deve divenire vita reale, altrimenti non rimane verità. Una goccia di
realizzazione messianica deve essere mescolata con ogni ora, altrimenti l'ora è priva di Dio, a dispetto di ogni pietà
e devozione. Di conseguenza, quello che può essere chiamato il principio sociale della religione d'Israele... ha
rapporto con l'umanità sociale, perché la società umana è qui legittimata soltanto se fondata su relazioni reali tra
i suoi membri; e l'umanità è considerata nel suo significato religioso. perché la reale relazione con Dio non può
essere compiuta sulla terra se mancano le relazioni con il mondo e con l'umanità(13)
.
L'uomo nell'accettare la creazione dalle mani di Dio
s.impegna a collaborare all'opera ancora incompiuta: «La creazione è incompleta perché i regni dentro di essa sono
ancora discordi e la pace può emergere soltanto dal creato». Nella tradizione ebraica. colui che effettua la pace è
chiamato «il compagno di Dio nell'opera della creazione... in nessun luogo l'azione essenziale dell'uomo è così
strettamente legata al mistero dell'Essere»(14).
E proprio per questa ragione la risposta alla domanda silente posta dal mondo contemporaneo in
maniera inconscia e non riconosciuta, ma suggerita dai più intimi recessi del cuore, «là dove dimora la disperazione».
la domanda di un insegnamento di fede nella realtà, nelle verità dell'esistenza. «cosicché la vita abbia qualche scopo
e l'esistenza abbia qualche significato», la domanda rivolta alle religioni storiche, non nei loro dogmi ne nei loro
rituali, ma nella intrinseca realtà di fede, appare a Buber come essenzialmente rivolta all'Ebraismo.
Ma vorrà l'Ebraismo stesso - egli si domanda - rendersi conto che proprio la sua
esistenza dipende dal rifiorire della sua esistenza religiosa? Lo stato ebraico può assicurare - egli dice - il futuro di
una nazione di Ebrei, anche dotata di una cultura sua propria. ma l'Ebraismo vivrà soltanto se legherà ancora alla vita
la primitiva relazione ebraica con Dio, con il mondo e con l'umanità. I profeti di Israele servirono lo spirito, nel
mondo umano, generazione dopo generazione, con aggressività, lottando contro chi non attuava «la verità divina nella
pienezza della vita di ogni giorno, evadendo così nel puramente formale e rituale, vale a dire nel non impegnativo»,
limitando il servizio di Dio alla sfera puramente sacrale.
Il principio religioso-normativo d'Israele è essenzialmente storico. A differenza delle altre
religioni, la sua rivelazione è un fatto di storia nazionale. Con questa fede storica, ad un tempo realistica e
messianica, il popolo ebreo andò nel mondo, nel suo esilio universale. Il principio della nostra fede, la verità e la
giustizia di Dio, l'amore tra gli uomini nella luce della realtà divina: «Ama il prossimo tuo come te stesso. lo sono il
Signore tuo Dio» (Lv 19,18), questo principio tentò di attuarsi nel dominio della vita e della storia umane. Ma noi
abbiamo negato a noi stessi l'attuarsi del nostro principio nel mondo. L'idea messianica si perse in furiose estasi
collettive o in tardive speculazioni gnostiche. E, tuttavia, pur nell'epoca dei ghetti e dei pogrom, si attuò, nel seno
delle comunità ebraiche, il principio dell'amore per Dio, per gli uomini e per il mondo, soprattutto nel hassidismo che
animò di puro fervore l'intrinseca realtà di fede.
Quando camminammo nel mondo fuori dal ghetto, ci capitò il peggio. Una spaccatura, sempre più
profonda, lacerò l'unità di popolo e religione. E questa spaccatura è presente anche nello stato ebraico. Israele e il
principio del suo essere procedono separati. La frattura si può saldare solo nell'adempimento di verità, giustizia,
amore di Dio sulla terra. Impresa tremendamente difficile. Nella diaspora, «ancora vigorosamente viva a dispetto della
immensa distruzione e devastazione» da nessuna parte vi è un potente sforzo di rinsaldare la frattura.
Siamo noi ancora Ebrei, Ebrei nelle nostre vite? È l'Ebraismo ancora vivo? In Erez Israel il
dubbio può essere ancora nascosto dalle controversie politiche e dal pericolo.
Ma alla diaspora si presenta nella sua nudità. Ci si rende conto della grande crisi dell'umanità. Qual'è la condizione
delle sue radici? Possono essere salvate? Possono ancora produrre un fresco germoglio? Riconosciamo noi stessi nel nostro
ebraismo reale. Noi siamo i custodi delle radici: lo siamo? - si domanda Buber - Come possiamo di nuovo ascoltare la voce
di Dio? «Egli è uno, il Signore della storia, il Dio che nasconde se stesso e che rivela se stesso». Vi sono delle ore
nella storia apparentemente abbandonate da Dio, silenziose. Dopo la Shoà, il nascondimento di Dio è troppo profondo.
possono "i Giobbe delle camere a gas" ancora parlare con Dio? Giobbe contese con Dio e lo accusò di
ingiustizia. Ricevette una risposta da Lui e la ascoltò, ma la parola di Dio non rispondeva all'accusa, non la toccava
nemmeno. E noi? - si domanda ancora Buber - «Noi, e con ciò si intende tutti quelli che non hanno superato quello che è
accaduto e non lo supereranno. Come è ciò con noi?.. Dobbiamo rimanere sopraffatti di fronte alla faccia nascosta di
Dio, come il tragico eroe dei Greci di fronte al fato senza volto? No, piuttosto sempre noi contendiamo, anche noi, con
Dio... Anche con Lui, il Signore dell'Essere che noi una volta, noi qui, abbiamo scelto per nostro Signore. Noi non
accettiamo supinamente l'esistenza terrena, noi lottiamo per la sua redenzione e, lottando, ci appelliamo all'aiuto del
nostro Signore che è sempre ed ancora nascosto. In tale stato noi aspettiamo la Sua voce, sia che essa venga fuori dalla
tempesta, sia che esca dalla calma che segue ad essa. Benché la sua veniente comparsa non assomigli a nulla di
precedente, riconosceremo ancora il nostro crudele e misericordioso Signore» (15)
______________________________
(*) Saggista. Già ordinario di storia e filosofia nei
licei. - Mantova.
1. M. BUBER, Sette discorsi sull'Ebraismo, Carocci, Roma 1976, pp. 3. 4.5.
2. ID., o. c., p. 11.
3. ID., o. c., pp. 23.24.
4. A. FINKIELKRAUT , L 'ebreo immaginario, Marietti, Genova 1990.
5. M. BUBER, o. c., p. 48.
6. In., o. c., p. 93.
7. ID., o. c., p. 109.
8. ID., o. c., p. 131.
9. In., o. c., pp. 177-78.
10. In., The silent question in At the turning, Ed Farrar, Strauss and
Young, New York 1952.
11. ID., o. c., pp. 33.34.
12. Ibidem, p. 38.
13. Ibidem, p. 38.
14. Ibidem, p. 39.
15. ID., Dialogue between Heaven and Earth, in At the turning, Ed.
Farrar, Strauss and Young, New York 1952, p. 62.