...da Avvenire del 2 Agosto 2002

     

UN KAMIKAZE IN MENO

«MIO FIGLIO NO» IL GRIDO DI UNA PALESTINESE 
Marina Corradi

Quelli di Hamas lo hanno giurato: cento israeliani uccisi, per ogni loro capo ammazzato. Mentre, dopo la strage dell'università di Gerusalemme, Sharon promette una «durissima reazione». La ferocia di vendette e rappresaglie fa pensare alla sorte dei due popoli come a un sasso, che rotola sempre più veloce verso un abisso, irrefrenabile verso il nulla. Chi sta a guardare, attonito, trova nelle cronache di ieri solo un appiglio - fragile, minimo - di speranza. 

In un nastro registrato, sequestrato dagli israeliani nel quartier generale di Arafat a Ramallah, si ascolta il dialogo fra un uomo e una donna. L'uomo è un militante di Hamas, reclutatore di giovani suicidi. Va cercandone altri, che carichi d'esplosivo si facciano saltare fra la folla. È un grande onore, nella logica di Hamas, morire sfracellando il nemico; non il nemico in divisa, ma quello inerme in giro a far la spesa, col figlio in passeggino. E dunque nella telefonata l'uomo di Hamas chiede a una donna che suo figlio s'immoli per la causa. Non è una donna qualunque: è Abdel Aziz Rantizi, moglie di un dirigente di Hamas. Moglie di un combattente, madre di Moahammed, già individuato come candidato kamikaze. All'altro capo del filo, il cacciatore di ragazzi s'aspetta un «sì» fiero, quasi orgoglioso. E invece, Abdel Aziz Rantizi è irremovibile. Suo figlio, uno dei suoi figli volontario al macello? Il reclutatore insiste: sarà un eroe, sarà un martire. E la donna: cercatene un altro. Mio figlio, no.

E così avremo un kamikaze in meno, e dieci o cento civili uccisi in meno, per quel «no» rabbioso. Fossero cento, mille come lei. Per la causa palestinese, certo, ma mai al punto di essere pronte ad annientarsi, in odio al nemico. Perché cos'è, mandare i propri figli carichi di tritolo a far morire la gente per le strade, se non annientamento puro, anche di sé? Cosa resta di un popolo che scientemente, freddamente spedisce i suoi ragazzi al suicidio? Cosa resta negli altri, in quelli che continuano a vivere, se non orrore e odio? Da dove ricomincia, un popolo che, con i suoi figli, simbolicamente si suicida?

Si obietterà che è un no soltanto viscerale, quello della donna di Hamas; che pure nell'odio, nel non dire «mai» ma «cercate un altro», ha semplicemente prevalso l'istinto possente della madre, il non poter permettere che ciò che è venuto, vivo, da lei, si annienti - più atroce ancora: si annienti, con il suo consenso. Bene: solo viscerale istinto materno- ferino quasi, come quel lampo che si intravvede negli occhi delle gatte che allattano, quando s'avvicina un estraneo. Se anche è solo questo il no della donna di Hamas, di quanto è immensamente superiore e più vitale e fecondo della virile spietatezza degli uomini che promettono: cento morti, per ognuno dei loro.
A quel sasso che rotola verso l'abisso, alla voglia di nulla, si oppone per sua natura l'anima femminile. Qualcosa non glielo permette. Qualcosa dentro, una innata vocazione alla luce. Da millenni gli uomini si massacrano in una guerra infinita. Da millenni le donne mettono al mondo figli. Sanno da sempre quanta attesa e fatica e pazienza c'è voluta, per crescere ognuno di quei figli: che nelle guerre degli uomini sono un nulla, e che un attimo basta a cancellare.

 

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