ECUMENISMO E DIALOGO

Profili  di Renza Fozzati

Tratti da: N°1 Gennaio 2000 di "La Vita in Cristo e nella Chiesa" (Mensile per l'animazione liturgica).

Uomini e donne profeti e testimoni 

Due amici, che ci hanno lasciato nel corso di quest’anno (1999), sono fra coloro che, in modo diverso ma forse ugualmente intenso, hanno lavorato e sofferto per iniziare e far progredire il cammino del dialogo con gli amati “fratelli maggiori”. 

Un uomo, sacerdote e vescovo, una donna, giornalista: mons. Clemente Riva e la dottoressa Annie Cagiati hanno molto da dirci ancora, dopo averci lasciato un’eredità difficile e meravigliosa.

Due rapidi profili: lo spazio che dedichiamo loro su queste pagine è inversamente proporzionale a quanto meriterebbe la loro storia e a quanto ne vorremmo dedicare loro. Parliamo di “profili” perché essi hanno svolto una quantità di servizi a favore della Chiesa ma noi ci limitiamo a focalizzare solo la loro attività per il dialogo ebraico-cristiano.

 

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 Mons. Clemente Riva

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Nato a Medolago (Bergamo) il 5 giugno 1922. Entrato nel 1939 nell’Istituto della Carità (rosminiani), ordinato presbitero nel 1951, vescovo ausiliare di Roma dal 1975 al luglio del 1998.

Docente di Teologia pastorale presso la Pontificia Università Lateranense, ha presieduto la Commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.  E’ morto 1l 30 marzo 1999.

Fin dagli inizi del nuovo sentire della Chiesa verso il mondo ebraico mons. Riva ha svolto un’attività diuturna, generosa, spesso solitaria e mai facile, mai conclusa. A lui si deve in modo particolare il momento più significativo del dialogo con la comunità ebraica di Roma: la storica visita del Papa in sinagoga, il 13 aprile 1986.

In occasione della sua morte il rabbino capo ELIO TOAFF ha scritto:

“Con mons. Clemente Riva c’era un’amicizia che durava da molti anni. Lo ricordo sempre la sera di Kippur: veniva ogni anno, puntualmente, al tempio e si metteva in prima fila per essere il primo a darci l’augurio. E’ un ricordo che non si cancellerà mai.

Un mese fa eravamo insieme alla presentazione del mio ultimo libro “Il Messia e gli ebrei”.  Mons. Riva in quell’occasione improvvisò, e nelle sue parole affiorava nitidamente quello che è stato lo scopo della sua vita: liberare i rapporti fra ebraismo e cristianesimo da tutti gli ostacoli che si sono accumulati e sedimentati lungo i secoli.

Non posso dimenticare, inoltre, la storica visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma. Mons. Riva era stato in prima linea con me nell’organizzarla in tutti i particolari, dagli inviti all’assegnazione dei posti.

E’ un uomo eccezionale quello che oggi ricordiamo. Un uomo che alla straordinaria intelligenza e al grande cuore univa un’attività che non conosceva soste.

Abbiamo perso un grande amico che difficilmente potrà essere sostituito. E tuttavia la sua opera lascerà una traccia profonda: altri – ne sono certo – continueranno il suo lavoro e si dedicheranno a far sì che ebraismo e cristianesimo possano convivere senza lotte, senza i pregiudizi che si sono formati nel corso dei secoli.

Questo è il testamento che ci lascia mons. Riva”.


Non c’è nulla da aggiungere a parole tanto eloquenti. Ma desideriamo far conoscere tre “fioretti” della sua vita di dialogo che lui stesso amava raccontare ogni qualvolta si presentasse l’occasione. Narrava che, dopo aver vissuto l’indimenticabile giornata in sinagoga, mentre si recava nel suo ufficio, un confratello zelante della sua salvezza gli andava dietro nei corridoi dicendogli: “Sta’ attento! Pensa a quello che fai mettendoti con quegli ebrei”. E  poiché lui continuava a camminare senza replicare l’altro non trovò di meglio che dirgli: “Ebreo!”. E Monsignore commentava con un sorriso: gli ho risposto allora “Guarda che ciò che tu dici è la verità e un onore per me!”.

Un’altra volta ebbe a tranquillizzare persone importanti che si dicevano preoccupate per il fatto che lui, con l’intera Commissione CEI, caldeggiasse l’iniziativa di una “Giornata per l’ebraismo”.  Si chiedevano: “Come potremo chiedere soldi per gli ebrei?”. Con la sua pazienza e il suo inimitabile sorriso egli spiegava che francamente si trattava di ben altro.

Infine, il “fioretto” più bello che anche il rabbino Toaff racconta volentieri. I due partecipavano ad un importante Convegno e nell’intervallo passeggiavano insieme sottobraccio. Ad un certo punto il rabbino dice a Riva: “Monsignore, chi ci avesse detto, anche solo pochi anni fa, che noi avremmo potuto andare così insieme davanti a tutti!… “

Questi sono i piccoli grandi prodigi di un dialogo difficile ed ancora incerto, ma che ha un grande futuro davanti, perché fecondato dall’amore e dal sacrificio di persone come mons. Clemente Riva.


Riva, un amico sincero di Emanuele Pacifici

Ho conosciuto mons. Clemente Riva tramite il mio grande maestro Augusto Segre Z.L. Era l’anno 1978. Il professor Segre fece l’Aliyà (= salita a Gerusalemme) in Israele nel 1979, ed i rapporti con mons. Riva s’interruppero per un certo periodo. Li ripresi in occasione di una trasmissione televisiva nella quale eravamo entrambi invitati, e si rafforzarono sempre più di una reciproca stima.

In ogni manifestazione che la Comunità ebraica di Roma organizzava, grande era il piacere di potersi incontrare con lui ed aggiornare le nostre “ultime notizie”. Alle cerimonie più solenni al Tempio Maggiore di Roma, mons. Riva era sempre presente. Tutto questo fu opera di Augusto Segre, che iniziò ad aprire il dialogo attraverso l’Amicizia ebraico cristiana; un messaggio che è stato perfettamente recepito dalle Suore di Nostra Signora di Sion, meglio conosciute come SIDIC.

A dirigerne l’organizzazione fu mons. Rijk; nel corso del tempo questo terzetto portò a piccoli passi il progetto di comune avvicinamento fino al rabbino capo di Roma professor Elio Toaff e, alla morte di mons. Rijk e del professor Segre, i rapporti con la Comunità ebraica romana rimasero affidati nelle mani di mons. Riva. Fu lui a preparare pazientemente con Rav Toaff la visita del Papa alla sinagoga: era il 13 aprile 1986; nelle foto, mons. Riva è seduto in prima fila a sinistra sulla Tevà (=  luogo della Parola). Proprio con lui dopo la cerimonia salimmo nell’ufficio rabbinico per un saluto diretto con il Pontefice.

E un altro ricordo torna alla mente. Non molti anni fa, per un errore del Ministero degli Interni, era stata fissata la data per le elezioni nell’ultimo giorno di Pesach, quindi “moed”, festa solenne per noi ebrei. Monsignor Riva, anche attraverso la stampa, propose di posticipare di una settimana le votazioni, nonostante cadessero durante la Pasqua cattolica: Per noi cattolici non è peccato scrivere, disse ai giornalisti.

Ogni prima mattina di Rosh Ha Shannà o la sera della vigilia di Kippur, Clemente Riva si affacciava timidamente al Tempio Maggiore e rimaneva lì fermo, nell’ultima fila. Spesso gli andavo incontro e lo invitavo a sedersi vicino a me. Anche il Presidente della Comunità lo invitava in prima fila, ma il suo desiderio era porgere gli auguri personalmente a Rav Toaff. Quando il momento lo permetteva, il rabbino capo scendeva, ed il desiderio di mons. Riva era appagato. Una volta parlò anche dalla Tevà porgendo a tutti i suoi auguri.

Sempre grazie al suo costante interessamento, e con l’aiuto di Nathan Ben Chorin – che per tanti anni è stato il funzionario dell’Ambasciata d’Israele con l’incarico di avere relazioni “ufficiose” con la Santa Sede – si riuscì ad ottenere l’attuale riconoscimento ufficiale d’Israele da parte del Vaticano, con regolari relazioni diplomatiche e scambio di ambasciatori.

Il 20 dicembre 1998 il Comune di Sanremo organizzò con Rav Toaff una magnifica serata in suo onore, e in tale occasione venne presentato il suo ultimo libro “Il Messia e gli Ebrei”; presentatore del libro ed abile commentatore era ancora mons. Riva.

Il 27 gennaio 1999, a Palazzo Giustiniani si svolse una serata patrocinata dal Senato della Repubblica per ricordare la Shoà. Erano presenti, fra l’altro, le massime autorità dello Stato, il Presidente dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) Amos Luzzatto, il Presidente della CER (Comunità Ebraica di Roma) Sandro Di Castro, il rabbino capo Elio Toaff; vicino a lui, in prima fila, non poteva mancare la gradita presenza di Sua Eccellenza mons. Clemente Riva. E’ stata la sua ultima apparizione nelle cerimonie della nostra Comunità. Era malato da molto tempo, ma non lo dava a vedere a nessuno; in silenzio ha passato un breve periodo di agonia nell’ospedale Pio XI fino al 30 marzo, giorno in cui ha lasciato questo mondo.

E in agonia, così è stata riportato, ha faticosamente sussurrato “Pesach”. Qualcuno ha immaginato desiderasse che s’inviassero gli auguri a Rav Toaff per l’imminente festività, e così è stato fatto. Noi ebrei italiani, e in particolare romani, perdiamo un grande e sincero amico del popolo d’Israele.

Sia ricordato il nome di Clemente Riva in benedizione.

 

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Annie Cagiati

"Per amore di Sion non tacerò"

Annie copia.jpg (38139 byte)  Fino a diversi anni dopo il Concilio, Annie rimane una signora di ottima famiglia, imparentata con nobili e ambasciatori, che scrive libri per ragazze in uno stile spiritoso e gentile. Poi accade qualcosa che lasciamo descrivere a lei, perché nessuno riuscirebbe ad esprimerne meglio l’impeto e la generosità:

“Personalmente, della religione ebraica non so proprio nulla, come, del resto, di tantissime altre cose. E per molti anni ho messo questa ignoranza al livello di tutte le altre. Dell’ebraismo infatti ho cominciato ad occuparmi solo per un senso di responsabilità, sempre più cosciente delle enormi colpe “cristiane” e della necessità di ristabilire la verità in un campo in cui era stata troppo a lungo travisata e taciuta, con gravissimo danno di un intero popolo. Il popolo di Gesù.

 Ho scoperto che l’ebraismo non mi riguarda solo a livello umano, ma coinvolge la mia stessa fede religiosa. Per un cristiano infatti l’ebraismo non è una delle tante conoscenze facoltative di cui è pieno il mondo. E non è neppure una delle tante religioni in cui credono gli uomini. Per un cristiano ignorare le proprie radici ebraiche è come per un medico ignorare la struttura ossea, o per un insegnante la pedagogia… Praticamente è un assurdo. La conseguenza logica della nostra ignoranza collettiva è il tenace prosperare di gravi pregiudizi, ai quali è urgente opporre la conoscenza delle più elementari verità.

Ripeto, io di religione ebraica non so nulla. Perciò ho dovuto cercare in varie direzioni le risposte agli interrogativi che ponevo prima di tutto a me stessa. E man mano che procedevo di scoperta in scoperta si sgretolava dentro di me, dolorosamente, quel trionfalismo così poco evangelico che mi ero costruita dentro in cinquant’anni di vita cristiana. Mi sono chiesta perché mai mi abbarbicavo con tanta disperata tenacia a certe convinzioni che i fatti dimostravano chiaramente errate, e ho dovuto riconoscere – ma non è stato facile! – che il mio amore per la Chiesa è pavido, fragile, anemico e traballante. Perché un amore forte e sicuro non ha paura della verità e non ha bisogno di nascondersi dietro al paravento rassicurante del trionfalismo. Un amore maturo ama senza idealizzare, senza trasformare gli uomini in dei, e sa riconoscere errori e debolezze senza turbarsi o entrare in crisi.

Auguro ai miei fratelli in Cristo di lasciarsi coinvolgere fino al midollo della loro fede in questo crollo che ci scaraventa in una nuova realtà e scopre sulle nostre teste un insospettato pezzo di cielo limpido e trasparente. Quel cielo verso il quale dobbiamo tendere insieme, ebrei e cristiani, con la rinnovata vitalità di un albero che ha riscoperto, finalmente, tutta la profondità e la forza delle proprie radici”.

Prendiamo queste frasi dalla prefazione di un libro che Annie pubblicò nel 1982 presso le Ed. Marietti, “Che cosa sappiamo della religione ebraica?”, e che fu tra i primi di una lunga serie di lavori, tutti dichiaratamente “del suo stile”. Cioè con l’impegno di dare spazio ai documenti del Magistero, alle parole dei vescovi di tutto il mondo; con lo zelo di prevenire e correggere ogni volta che trovasse all’interno della sua Chiesa segni di antisemitismo, o parole e gesti offensivi in quello che viene detto “mondo laico”. E certo le occasioni non erano poche, nell’uno e nell’altro ambito. Né Annie si arrese mai. Sfidando la sua precarissima salute, lavorava indefessamente e … non dava tregua agli amici che accettassero di lavorare con lei. Preziosissimo collaboratore nella sua opera di scrittrice, l’editore Carucci, per molti anni, fino all’estinzione di quella piccola, apprezzata casa editrice, benemerita per il dialogo con gli ebrei.

Molto si deve all’opera lucida ed energica di Annie per quanto riguarda l’iniziativa della Giornata del 17 gennaio. Come accadde per mons. Riva, con il quale ha molto condiviso nella notevole diversità di stile, anche per lei dobbiamo dire che la riservatezza esigente c’impedisce di dire ma pure di sapere molte cose che sarebbe bello poter testimoniare.

Nel 1981 Annie fonda, con alcuni amici cristiani ed ebrei, l’Amicizia ebraico cristiana di Roma. E parte un lavoro intensissimo di conferenze, corsi, contatti.

Nel 1989 fonda il gruppo Cristiani contro l’antisemitismo. La sua sensibilità le dice che questo terribile peccato non è ancora sentito abbastanza come tale nella comunità cristiana, e lei tenta con tutti i mezzi a sua disposizione d’indicare il pericolo ovunque si trovi. Non sempre il suo “amore per Sion” e per la sua Chiesa è compreso. Molti si sentiranno “aggrediti” dalla sua veemenza. Le toccheranno molta solitudine e incomprensione. Ma anche molte splendide amicizie.

In occasione della sua morte scrive di lei l’avvocato FRANCESCO LUCREZI, presidente dell’Associazione Italia-Israele di Napoli e consigliere della Federazione:

“Per apprezzare pienamente il valore del contributo dato da Annie Cagiati alla causa del dialogo ebraico cristiano, della lotta contro l’intolleranza e l’antisemitismo e della difesa delle legittime ragioni della nazione israeliana, occorre storicizzare e contestualizzare il suo operato, non dimenticare il clima in cui per lunghi anni esso si è svolto…  Non era facile in particolare conciliare una propria identità cattolica ed una propria convinta appartenenza alla comunità ecclesiale con un atteggiamento di solidarietà attiva con il popolo e lo stato d’Israele, paese con cui, com’è noto, fino ad epoca recente la Santa Sede non intratteneva relazioni diplomatiche e nei cui confronti manteneva un atteggiamento di aperta diffidenza e freddezza. 

Annie Cagiati è riuscita, per lunghi, difficili anni, a perseguire questo difficile obiettivo: lottare con pazienza, tenacia e passione per il riconoscimento dei diritti della patria degli ebrei e ciò non già nonostante la propria fede cristiana, ma proprio in ragione di essa. Eliminare dalla catechesi cattolica anche le più piccole tracce di antisemitismo, sollecitare la comunità dei credenti a considerare le antiche radici della propria fede, evidenziare, con rispetto ma con sincerità, gli errori e le disinformazioni delle stesse autorità ecclesiastiche, significava, per Annie, non certo tradire la propria fede o allontanarsi da essa, ma impegnarsi a renderla più pura e limpida, liberandola da ogni scoria d’intolleranza. Si potrebbe pensare, forse, che il suo impegno sia stato non pienamente valorizzato, che non abbia ottenuto tutto il riconoscimento che avrebbe meritato. Ma se oggi la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi dell’ebraismo e del Medio Oriente è così significativamente mutata, se l’atteggiamento generale degli organi d’informazione sulla situazione medio-orientale  è sensibilmente migliorato, ciò si deve a tutti quegli spiriti coraggiosi come Annie che, per anni, hanno tenacemente lavorato per rimuovere pesanti ostacoli, permettendo che un domani altri raccogliessero il frutto di tale impegno.

A chi ha conosciuto Annie Cagiati, di persona o attraverso i suoi scritti, resta il compito di custodire la memoria della sua tenacia, della sua forza di volontà, della sua fede negli uomini, della sua chiarezza di principi morali, ricordandone la figura come quella di un’anima nobile e sincera, di una coscienza aperta ma rigorosa, di una cittadina solidale, partecipe e generosa”.

Persona di cultura e di forti principi” scrive di lei alla notizia della sua morte l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede dottor LOPEZ. “Annie Cagiati ha saputo levare la voce con forza contro l’ingiustizia e la menzogna. Personalità dal coraggio singolare e dai più alti valori spirituali”. Che la sua memoria sia in benedizione – come dicono i nostri fratelli ebrei.

 

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Gli amici ricordano...

Ricordo di Annie di Chicca Falcone


L’ho conosciuta nel 1984. Era vicepresidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Roma di cui era stata una delle fondatrici. È stata lei che mi ha aperto quella magica porta sul mondo ebraico che da allora ha avuto un peso così grande nella mia vita.

  È stata per me un’amica a volte scomoda perché mi pungolava continuamente perché migliorassi me stessa; è stata una maestra perché mi ha insegnato a studiare, a fare ricerche, a riassumere testi; è stata un esempio da imitare nella sua volontà di andare avanti a tutti i costi se ne valeva la pena.

  Era un’idealista, lottava contro tutti e contro tutto pur di far trionfare la verità e il diritto dei calpestati.  Era una timida che si chiudeva nella sua casa per non dover affrontare le persone con cui non riusciva a stabilire un contatto positivo.

Era una generosa che aveva attrezzato la sua casa principalmente per gli ospiti. Quanti di noi amici hanno goduto della sua generosa ospitalità a Tuoro? Tuoro sul Trasimeno, la sua bella villa in cima alla collina, la vista sul lago, la piscina tonda che aveva fatto costruire solo per gli ospiti perché lei, freddolosa, non ci metteva nemmeno un piede! E poi altri letti, la casetta, il frigo sempre pieno di gelati, i libri....noi tutti eravamo accolti come mai nessuna padrona di casa saprà fare. Andavo a Tuoro sempre quando sapevo che era sola: mi piaceva avere la casa solo per noi due.

Sapevamo rispettare i tempi e i silenzi dell’altra. Leggevamo, lavoravamo per il nostro grande amore “Israele”, facevamo passeggiate con la sua cagnetta, Chicca come me, alla sera la tv in stanze separate ma con continui commenti nei passaggi lungo il corridoio.

Rivivendo questi ricordi, queste immagini, mi sembra impossibile che lei non ci sia più! Lei da sempre malata che dava tanta forza e coraggio a chiunque la avvicinava e che sapeva ridere con lo stesso gusto, lo stesso entusiasmo con cui lavorava.

Sicuramente una donna non facile, ma bastava trovare la chiave del suo carattere per apprezzarne la lealtà, la sincerità, l’entusiasmo, la capacità nella lotta e la generosità. Io l’ho molto amata, perché nel corso di tutti questi lunghi anni, tra noi si è sviluppato un rapporto che mi dava sicurezza, coraggio, conforto.

Sapevo che lei era lì pronta a sostenermi, come una roccia di un mare in tempesta che comunque rimane al suo posto. Lei donna dalla salute tanto precaria mi dava questa impressione: di stabilità e coraggio, ma sapevo anche che era fatta di grande fragilità e paure che però erano sue e che non riusciva a portare in superficie.

Grazie Annie, grazie per quello che hai dato con tanta generosità ad Israele, alla gente che hai avvicinato e di cui ti occupavi, a noi che abbiamo lavorato per lunghi anni al tuo fianco, alle persone che comunque cercavi di aiutare e so che sono tante.

Grazie di avermi fatto sentire tante volte amata da te, di avermi sempre sostenuto soprattutto nel lavoro e di avermi guidato su questa strada che mi ha portato ad amare Israele!

 

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