La radice che ci porta
Christoph Schönborn, Rimini 1996

Nel corso del Meeting di Rimini organizzato da "Comunione e Liberazione" nel 1996, l'Arcivescovo di Vienna ha tenuto una conferenza dal titolo: «Il popolo eletto e la salvezza delle nazioni». I legami tra cristianesimo ed ebraismo. «Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te». Ne proponiamo un ampio stralcio.

Il punto di partenza è un fatto (sia per gli ebrei che per i cristiani si tratta qui di una realtà e non semplicemente di una teoria): che una volta e solo una volta nella storia dell'umanità c'è stata e c'è una terra, una terra ben precisa che Dio ha preso in possesso per sempre come "sua eredità" (1 Sam 26,19) e che Egli ha affidato al popolo, che si è scelto in quanto sua "proprietà", come eredità e dono (Dt 1, 36). [...]

Cosa significano queste molteplici relazioni, questi legami infiniti che uniscono il cristianesimo con Gerusalemme, con il tempio, con la terra di Israele? Certamente molti vanno in pellegrinaggio nella "Terra Santa". Ma sono essi interessati alla Terra Santa nel senso della promessa biblica? Ha la terra per i cristiani, anche solo approssimativamente, raggiunto il significato che essa ha nelle promesse bibliche e che ha oggi per Israele? La missione cristiana ha portato la Torah, la Legge a tutti i popoli, ma li ha presentati loro attraverso una chiave di lettura ben precisa. Il professor Zwi Werblowsky dell'Università ebraica ha formulato il problema con precisione: «Già il Nuovo Testamento mostra una tendenza chiara a ciò che si potrebbe definire come "deterritorializzazione" dell'idea di santità, così come alla logica dissoluzione di simboli legati ad un luogo. Dice: non il tempio e il Sancta Sanctorum sono il punto centrale per i cristiani, ma Cristo; non la città santa o la Terra Santa rappresentano la sfera della santità, ma la nuova comunità, il Corpo di Cristo». Sorprendente analisi di un professore ebreo di Gerusalemme.

In questo modo Gerusalemme e la Terra Santa, per la tradizione cristiana, possono in un certo senso essere dovunque vi siano uomini, che conducano una vita cristiana. Questa "universalizzazione" della promessa della terra potrebbe già annunciarsi nelle beatitudini di Gesù, quando dice: «Beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5, 5).
Ci sono ebrei che ci dicono che questa è una "falsificazione" della promessa della terra. Alcuni potrebbero forse sentire, come una sorta di "usurpazione", che la speranza ebraica della Terra di Israele sia stata "spiritualizzata" dalla tradizione cristiana, e ciò con la pretesa di rappresentare il "vero Israele" e di essere così subentrati al posto del "vecchio".

In primo luogo vorrei richiamare l'attenzione ad un aspetto positivo di questa "universalizzazione" della promessa della terra. È piuttosto un'intuizione che una tesi elaborata e verificata. Credo che gli uomini e i popoli, cui arrivò la Bibbia come Parola di Dio, impararono con il popolo d'Israele, nella cui storia essi entrarono, anche l'amore per la terra della promessa, il desiderio di Gerusalemme; impararono così a conoscere qualcosa come "patria"; nella scuola della Bibbia, dei salmi, della storia santa crebbe qualcosa come una cultura dell'amor patrio. 

Mi domando se ciò che in Europa è conosciuto come amore della patria, forse anche come patriottismo, non sia anche un frutto di questa educazione sentimentale nel mondo della Bibbia. L'intero mondo biblico dell'immagine, della lingua e del sentimento riguardanti l'essere all'estero o in patria, l'esilio e il ritorno in patria ha formato il senso per l'amor patrio. Qualcosa della gioia per Erez Israel (la Terra di Israele) è passata agli altri popoli e ha dato loro lo splendore della patria. Qualcosa del desiderio della Terra di Israele ha formato anche il desiderio dei cuori per la propria patria. Forse questo si capisce più facilmente nel mondo tedesco dove la parola "aimat" ha una consonanza emozionale più forte di ogni altra lingua. Ma questo amore della patria rimase equilibrato quando conobbe, come contrappeso, il desiderio della Gerusalemme celeste, della patria eterna. Infatti i popoli impararono dalla Bibbia, con l'amore della patria, anche l'essere forestieri e inquilini con Abramo, di essere pellegrini, e che non abbiamo quaggiù alcuna fissa dimora.

Ovviamente dove venne a mancare questo desiderio della terra futura, del mondo del cielo, della patria celeste, dove l'amor patrio divenne irreligioso, esso si capovolse in nazionalismo, che usurpa l'elezione di Israele e la conferisce ad un altro popolo, ad un'altra razza, ad un'altra classe, che così vengono assolutizzati e idolatrati.

Questa perversione dell'amore della patria iniziò già molto presto nel cristianesimo. Per esempio quando Eusebio di Cesarea, sotto l'imperatore Costantino (nel IV secolo), identifica l'impero romano diventato cristiano, senza problemi, con il popolo di Dio: «Non un piccolo ed insignificante popolo che vive in un qualsiasi angolo della terra», ma il grande e numeroso impero romano è per lui «il nuovo popolo di Dio».

L'identificazione del proprio popolo come quello eletto e così della propria terra come quella promessa è una delle fonti del nazionalismo europeo. Con tutte le sue perversioni si può interpretare il nazionalismo come usurpazione della promessa della terra fatta solo a un popolo, al popolo eletto da Dio. Ciò si profila in Francia già nel Medioevo. Ai tempi delle crociate si parla di Gesten Dei per Francos; la Francia sarebbe già il Regno di Dio, il "nuovo Israele". Non è un caso che il sorgere delle ideologie degli Stati nazionali proceda di pari passo con l'espulsione degli ebrei: nel 1290 dall'Inghilterra, nel 1306 per opera di Filippo il Bello dalla Francia; nel 1492 per opera dei re cattolici dalla Spagna.

Tuttavia solamente nel diciannovesimo secolo il nazionalismo assunse il volto minaccioso e perverso di una ideologia del potere che idolatra il proprio popolo, la propria nazione e che ha condotto alle grandi catastrofi del ventesimo secolo. La perversione radicale dell'elezione biblica e della promessa della terra avvenne nel razzismo del nazionalsocialismo e nell'ideologia marxista-classista del marxismo-leninismo. È di Ernst Bloch la frase terribile Ubi Lenin, ibi Jerusalem. In nessun caso questo può essere affermato.

Segni precursori di queste perversioni furono le diverse forme di messianismo nazionale, presenti sia in Italia che in Francia, Germania, Polonia e in modo particolare in Russia, dove alla soglia del nostro secolo si arrivò a pesanti pogrom antisemiti. Il pogrom di Kischinew del 1903 getta una luce sinistra sulle catastrofi che seguiranno.
Nell'ambito culturale del nazionalismo del diciannovesimo secolo l'ebreo agnostico-emancipato Theodor Herzl sviluppò il suo nazionalismo ebraico. Non è paradossale che egli, attraverso il giro vizioso del nazionalismo europeo, che è una perversione selvaggia della dottrina biblica della terra promessa, ritrovò le sue proprie radici ebraiche? Con la riflessione riguardante Erez Israel cominciò per l'agnostico Theodor Herzl la memoria delle sue radici giudaiche. Al primo congresso sionista a Basilea, precisamente 99 anni fa, Theodor Herzl disse: «Il sionismo è il ritorno all'ebraismo, ancor prima del ritorno nella terra degli ebrei».

Cosa significa per noi Erez Israel? Vorrei sintetizzare per concludere:

1. Fu d'importanza decisiva che il primo cristianesimo, la Chiesa di Roma abbia pronunciato un netto no a riguardo di Marcione e che così tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, sia stato portata in tutto il mondo, a tutti i popoli. Le conseguenze positive di questo sì alla legge e ai profeti erano il tema principale delle mie riflessioni. A dire il vero un sì non è stato pronunciato per molti secoli e questa omissione ha avuto delle conseguenze pesantemente negative: il sì alla permanenza del popolo eletto anche là dove esso, in Gesù di Nazareth, non ha potuto riconoscere il Messia d'Israele.

 C'è stato bisogno di un lungo tempo, un tempo traboccante di sangue e ferite fino a quando, nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate, si manifestò nella coscienza cristiana in modo chiaro quanto Paolo aveva già detto sulla fedeltà permanente di Dio al suo popolo e alla sua alleanza con Israele: dice, nel già citato capitolo 9 della Lettera ai Romani: «Essi sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne...» (Rm 9, 4-5); «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29).
Herzl parlava di ritorno all'ebraismo. 

Forse noi cristiani dobbiamo fare un ritorno alle nostre radici. Sempre più chiaramente si è coscienti della parola di Paolo: «Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Rm 11, 18). Prima di preparare la conferenza io non conoscevo il testo di don Giussani inviato per l'apertura della mostra "Dalla terra alle genti", nel quale si legge: «Ci accomuna al popolo di Israele il senso di una storia, cui si appartiene per misteriosa scelta ad una missione. Da tempo ripeto che la storia del popolo ebreo deve diventare coscienza della storia della nostra persona, perché nella misura in cui questo non lo fosse, non saremmo cristiani veri. Gesù Cristo, infatti, che autocoscienza aveva?» (30 marzo 1996 ndr). E veramente dobbiamo compiere questo ritorno, anche con pentimento, perché abbiamo dimenticato che noi non portiamo le radici, ma le radici ci portano.

2. Papa Giovanni Paolo II, il 17 novembre del 1980, ha detto a Magonza (Mainz) in Germania che «l'antica Alleanza non è mai stata disdetta». Questo patto obbliga gli ebrei a servire Dio nella Terra di Israele. Per questo il rientro in Israele è per gli ebrei un comando sacro, che risulta dalla permanenza dell'Alleanza. Certamente questo dovere non è identico con la fondazione di uno Stato sovrano. Questo lo sapeva lo stesso Herzl quando rifiutava una teocrazia per lo "Stato ebraico". Ciò non deve essere d'impedimento ai cristiani nell'affermare e sostenere il desiderio del popolo ebraico di una patria nazionale. Solamente, questa fondazione dovrebbe accadere sul cammino di un faticoso e doloroso processo ancorato al diritto internazionale e che renda giustizia agli altri gruppi etnici e alle altre comunità religiose presenti sulla terra. La fatica di questo cammino dovrebbe avere delle conseguenze profonde sull'autocoscienza ebraica: la conoscenza dolorosa che il ritorno in Terra di Israele non rappresenta ancora la realizzazione della grande speranza d'Israele. Lo Stato d'Israele è un segno della speranza, ma non il suo compimento.

Ci troviamo qui di fronte ad un avvicinamento alla convinzione cristiana, che nessuna realizzazione politica - neanche lo Stato di Israele - può essere messa alla pari con il Regno di Dio? Cresce la coscienza negli ebrei, che noi tutti, i figli di Abramo, possiamo comprenderci con lui come "forestieri (pellegrini) e inquilini", alla ricerca di una città definitiva, di una patria eterna? Anche se la raccolta dei figli d'Israele nella terra è incominciata, essi sono ancora dispersi. E non cresce così la coscienza tra gli ebrei, che questa raccolta dei figli d'Israele dovrà essere allo stesso tempo una raccolta dei popoli (delle genti)? Cantiamo tante volte questo salmo: «Laudate Dominum omnes gentes, collaudate Eum omnes populi». Lodate il Signore tutti i popoli: ma chi canta questo Salmo? Lo canta da 3000 anni il popolo ebreo. È una cosa stupenda: nel desiderio del cuore di Israele, anche oggi vive questa speranza che tutte le nazioni canteranno la gloria di Dio. L'esperienza del ritorno nella Terra di Israele fa capire a Israele che gli ebrei non possono tornare soli, devono tornare con tutte le genti, per le quali hanno una missione universale. Israele non potrà tornare nella "terra promessa", senza che i popoli (le genti) ritrovino la via del ritorno al Dio vivente.

3. Tutto ciò significa anche che i popoli non potranno giungere a Dio e al suo messia Gesù Cristo senza gli ebrei. Il Catechismo della Chiesa cattolica lo dice in modo persuasivo nel capitoletto riguardante il mistero dell'Epifania (CCC 528): «I pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai Giudei (cfr Gv 4, 22) e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell'Antico Testamento (cfr Mt 2, 4-6)».

Dice il catechismo: «Gli ebrei non possono tornare in terra senza le genti, le nazioni», e noi non possiamo raggiungere la nostra missione, andare a tutta la terra, a tutte le nazioni, senza passare attraverso la promessa data al popolo ebraico. Il cammino del Vangelo dalla Terra alle Genti non potrà mai staccarsi dalla sua origine, da quella Terra, sulla quale la promessa è diventata una volta, una volta per tutte, realtà a Betlemme e Nazareth, in Gerusalemme. «Quand on pense, mon Dieu, quand on pense que cela n'est arrivé qu'une fois. Quand on pense, mon Dieu, quand on pense». È un testo di Péguy, di Charles Péguy, nel Mistero della carità. «Quando si pensa, mio Dio, quando si pensa che questo non è accaduto che una volta. Quando si pensa, mio Dio, quando si pensa». 

Il ritorno degli ebrei nella terra promessa ricorda a noi cristiani che il cristianesimo non è una teoria, ma una realtà, una realtà concreta come lo è la Terra di Israele, Erez Israel, concreta come il suo frutto più bello «terra dedit fructum suum» - la terra ha dato il suo frutto -: Gesù Cristo, il Dio fatto uomo da Maria, figlia di Sion. Fino a quando noi tutti, ebrei e cristiani, confesseremo veramente: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore».
Grazie per la vostra grande pazienza.
Amen. Alleluia!
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[Fonte: Tracce/1996]


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