«Salvatori e salvati»
Matteo Luigi Napolitano, su Avvenire del 16 gennaio 2006

Verso il Giorno della memoria, è possibile costruire una storia condivisa fra cristiani ed ebrei? Tenendo conto della tragedia, ma anche dei Giusti. Non solo le vittime fanno la storia dell’Olocausto, ma anche chi ha operato per il bene, tra cui molti cattolici. Il dramma della Shoah ha instillato un «seme di resistenza» che va coltivato e fatto germogliare nel dialogo tra le grandi religioni, soprattutto nelle relazioni ebraico-cristiane

Nel pieno della tragedia del Ghetto di Varsavia, prossimo a soccombere sotto il fuoco nazista, l'ebreo Yossi Rakover ha con sé tre bottiglie incendiarie, da usare contro l'oppressore e, in un estremo disperato sacrificio, anche contro se stesso. Pronto a morire, barricato nell'ultimo edificio del Ghetto che ancora resiste, Yossi Rakover si rivolge a Dio e gli chiede conto del suo silenzio di fronte alla tragedia del popolo ebraico, annientato dalla furia nazista. Fiero di essere ebreo, di appartenere «al più infelice dei popoli della terra», e non invece «di appartenere ai popoli che hanno generato e cresciuto gli scellerati responsabili» dei crimini contro gli ebrei, Yossi fa i conti con Dio. «Credo nel Dio d'Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui». Dio dice di aver nascosto il suo volto, ma che cosa deve capitare di peggio perché egli torni a mostrarlo? La vicenda di Yossi Rakover, narrata in un volumetto di Zvi Kolitz pubblicato da Adelphi, suggerisce alcune riflessioni. 

Proprio la rabbia e la determinazione dell'ultimo ebreo nel ghetto di Varsavia impone di chiedersi dove fossero tutti gli altri: coloro (anche non pochi cristiani) che assistevano alla Shoah in modo più o meno passivo; coloro che non avevano di questa tragedia se non un vago sentore; coloro che avevano altre priorità, altre strategie, altre esigenze che non porre fine alla barbarie anti-ebraica. 

Proprio queste domande conducono a una conclusione: per varie ragioni il mondo ebbe una consapevolezza assai tardiva della Shoah così come noi oggi la conosciamo. Di ciò si è molto parlato in sede storiografica e anche in una cerchia più ampia di studiosi e di pubblico. Non spetta a noi dare un giudizio morale in merito alle complesse circostanze che hanno prodotto questo fenomeno. 

Giova invece soffermarsi da un lato sul valore della Shoah come patrimonio collettivo, dall'altro sull'insegnamento che se ne può trarre anche ai fini del dialogo tra vari popoli e religioni. La ricchezza degli studi sulla Shoah (e l'esistenza di istituzioni culturali ad essa dedicate) ne dimostra l'importanza e l'attualità; come del resto testimoniano nuovi documenti e varie iniziative di cui la "Giornata della Memoria" non è che un esempio. 

Il numero ingente di vittime e l'efferatezza dei crimini antiebraici rende del tutto doveroso tener desta questa memoria. Va tuttavia aggiunto che, nell'avvicinarci a questa storia, insieme alle vittime incontriamo anche i salvati e i loro salvatori. Sulle motivazioni profonde che indussero da un lato istituzioni confessionali (di cui moltissime cattoliche, Vaticano in testa) e laiche (si pensi alla Croce Rossa Internazionale), e dall'altro persone di buon cuore (tra cui moltissimi cattolici), a prendere iniziative per salvare il maggior numero possibile di ebrei, abbiamo oggi una ragguardevole mole di fonti: si pensi alle fonti vaticane (la prestigiosa collana degli Actes et Documents du Saint-Siège, e la serie non meno autorevole Inter Arma Caritas), o alle fonti archivistiche (importanti quelle del Comitato internazionale della Croce Rossa, esaminate da Stefano Picciaredda in un bel volume sulla Diplomazia umanitaria); si pensi alle fonti riguardanti il World Jewish Congress e altre organizzazioni di assistenza ebraiche; si pensi alla documentazione, scritta e orale, raccolta da Martin Gilbert per il suo libro sui Giusti; si pensi alle fonti orali raccolte da Alessia Falifigli per il suo libro Salvàti dai conventi. 

Da tutte queste fonti (succintamente ricordate) non possiamo che concludere che la Shoah è ormai un patrimonio condiviso, in particolare tra ebrei e cattolici. Una tale storia, infatti, accomuna le vittime ai salvati, e costoro ai loro salvatori. Senza l'intervento di questi ultimi Hitler avrebbe certamente mietuto molte più vittime. Il dialogo ebraico-cristiano, più che essere periodicamente eroso da sterili polemiche, dovrebbe quindi incentrarsi su questo patrimonio condiviso che la memoria della Shoah ormai rappresenta. Quale insegnamento un tale patrimonio di valori può impartire? 

Il massimo insegnamento è forse la doverosa attenzione da prestare ai fenomeni attuali. La Shoah, lo si è detto proprio da queste colonne, è un evento unico ma non irripetibile. Tutti gli altri genocidi del Novecento stanno a testimoniare che l'efferatezza umana può riprodursi all'infinito, a qualsiasi latitudine; e ai danni dello stesso popolo d'Israele. 

Non a caso, nel suo primo discorso al Corpo diplomatico, Papa Benedetto XVI ha richiamato l'attenzione sul diritto d'Israele all'esistenza, oltre che sul diritto dei palestinesi a «sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche per un avvenire libero e prospero». 

Segno delle preoccupazioni che destano sia le minacce dell'Iran, sia gli appelli di Hamas alla «guerra santa» contro Israele; segno che le prediche di certi imam nello stesso senso non vanno prese alla leggera. Siamo tutti chiamati a riflettere costantemente su tali fenomeni per sventare il ripetersi di crimini e di genocidi in nome della politica o della religione. 

La Shoah ha instillato un "seme di resistenza" che va coltivato e fatto germogliare nel dialogo tra le grandi religioni monoteiste. Per quel che concerne il dialogo ebraico-cristiano, la Shoah vuol anche dire molto di più: giacché la sua storia s'interseca con quella dei salvati e dei loro salvatori. Essa è quindi anche storia di quei Giusti che il «tribunale del bene» di Yad Vashem a Gerusalemme continua ad onorare.

| home | | inizio pagina |