PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

IL POPOLO EBRAICO E LE SUE SACRE SCRITTURE
NELLA BIBBIA CRISTIANA


III.
GLI EBREI NEL NUOVO TESTAMENTO 

66. Dopo aver esaminato i rapporti che gli scritti del Nuovo Testamento intrattengono con le Scritture del popolo ebraico, dobbiamo ora considerare i diversi giudizi espressi sugli ebrei nel Nuovo Testamento e, a tal fine, cominciare con l'osservare la diversità che si manifestava allora in seno allo stesso giudaismo. 

 

A. Punti di vista diversi nel giudaismo postesilico 

1. Gli ultimi secoli prima di Cristo 

« Giudaismo » è un termine appropriato per indicare il periodo della storia israelitica che inizia nel 538 a.C. con la decisione persiana di permettere la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme. La religione del giudaismo fu, in molti modi, l'erede della religione preesilica nel regno di Giuda. Il Tempio fu ricostruito; i sacrifici erano offerti; gli inni e i salmi cantati; le feste di pellegrinaggio nuovamente celebrate. Il giudaismo assunse una colorazione religiosa particolare per la proclamazione della Legge da parte di Esdra (Ne 8,1-12) nell'epoca persiana. A poco a poco le sinagoghe divennero un fattore importante nell'esistenza ebraica. Il loro diverso atteggiamento nei riguardi del Tempio divise spesso gli ebrei fino al 70 d.C., come si può vedere nella dissidenza samaritana e nei manoscritti di Qumran. Divisioni basate sulle diverse interpretazioni della Legge esistettero dopo il 70 come prima. 

La comunità samaritana costituiva un gruppo dissidente, rinnegato dagli altri (Sir 50,25-26). Essa si basava su una forma particolare del Pentateuco e aveva rifiutato il santuario e il sacerdozio di Gerusalemme. Il santuario dei samaritani era costruito sul monte Garizim (Gv 4,9.20). Avevano un loro sacerdozio. 

La descrizione, fatta da Giuseppe Flavio, di tre « partiti » o scuole di pensiero, Farisei, Sadducei ed Esseni (Ant. 13.5.9; § 171), è una semplificazione e va interpretata con cautela. Si può essere sicuri che molti ebrei non appartenevano ad alcuno di questi tre gruppi. D'altra parte, le divergenze tra questi andavano al di là del punto di vista strettamente religioso. 

L'origine dei Sadducei si situa probabilmente nel sacerdozio sadocita del Tempio. Come gruppo distinto sembrano apparire al tempo dei Maccabei, a causa dell'atteggiamento reticente di un'altra parte del sacerdozio nei confronti del potere asmoneo. Le difficoltà della loro esatta identificazione si manifestano quando si studia il periodo che si estende dalle lotte maccabaiche contro i Seleucidi a partire dal 167 fino all'intervento romano nel 63 a.C. I Sadducei si identificarono sempre di più con l'aristocrazia ellenizzata, che deteneva il potere; si suppone che avessero poco in comune con il popolo. 

L'origine degli Esseni si situa, secondo alcuni autori, intorno al 200 a.C., nell'atmosfera delle attese apocalittiche ebraiche, ma la maggior parte la vedono in un'opposizione al cambiamento di situazione concernente il Tempio a partire dall'anno 152, data in cui fu nominato sommo sacerdote Gionata, fratello di Giuda Maccabeo. Si tratterebbe degli Assidei o « pii » che si erano uniti alla rivolta maccabaica (1 Mac 2,42) e che si erano poi sentiti traditi da Gionata e Simone, fratelli di Giuda Maccabeo, che avevano accettato di essere nominati sommi sacerdoti dai re seleucidi. Le nostre informazioni sugli Esseni si sono notevolmente arricchite con la scoperta, a partire dal 1947, di rotoli e frammenti di circa 800 manoscritti a Qumran, presso il mar Morto. Gran parte degli studiosi ritiene, infatti, che questi documenti provengano da un gruppo di Esseni stabilitisi in questo luogo. Lo storico Giuseppe offre, ne La guerra giudaica, 307 una lunga descrizione carica di ammirazione per la pietà e la vita comunitaria degli Esseni, che, per certi aspetti, assomigliano a un gruppo monastico. Disdegnando il Tempio retto da sacerdoti che essi giudicavano indegni, i Qumraniti formavano la comunità della nuova alleanza. Cercavano la perfezione grazie a un'osservanza estremamente rigida della Legge, interpretata per essi dal Maestro di giustizia. Attendevano un avvento messianico imminente, intervento di Dio per eliminare ogni iniquità e punire i nemici. 

I Farisei non erano un movimento sacerdotale. Apparentemente, l'assunzione della dignità di sommo sacerdote da parte dei Maccabei non li preoccupava. Tuttavia, il loro stesso nome, che implica separazione, risulta probabilmente dal fatto che anch'essi, in definitiva, erano diventati molto critici verso gli Asmonei, discendenti dei Maccabei, e se ne erano dissociati, essendo il loro modo di governare diventato sempre più secolarizzato. Alla Legge scritta, i Farisei aggiungevano una seconda Legge di Mosè, orale. Le loro interpretazioni erano meno severe di quelle degli Esseni e più innovatrici di quelle dei Sadducei, che, con spirito conservatore, si attenevano alla Legge scritta. È così che a differenza dei Sadducei, i Farisei professavano una credenza nella risurrezione dei morti e negli angeli (At 23,8), credenze sorte nel corso del periodo postesilico. 

Le relazioni tra i diversi gruppi erano di tanto in tanto estremamente tese, arrivando fino all'ostilità. È utile ricordarsi di questa ostilità per poter collocare nel suo contesto l'inimicizia che si riscontra nel Nuovo Testamento dal punto di vista religioso. Alcuni sommi sacerdoti si resero responsabili di molte violenze. Uno di essi, di cui si ignora il nome, cercò di mettere a morte, probabilmente verso la fine del II secolo a.C., il Maestro di giustizia di Qumran, durante la celebrazione di Kippur. Gli scritti di Qumran coprono di ingiurie la gerarchia sadducea di Gerusalemme, sacerdoti cattivi accusati di violare i comandamenti, e denigrano ugualmente i Farisei. Esaltando il Maestro di giustizia, essi qualificano un altro personaggio (un esseno?) come arrogante e menzognero, che perseguitava con la spada « tutti quelli che camminano verso la perfezione » (Documento di Damasco, ms. A, I, 20). Questi incidenti ebbero luogo prima del tempo di Erode il Grande e dei governatori romani in Giudea, quindi prima del tempo di Gesù. 

 

2. Il primo terzo del I secolo d.C. in Palestina 

67. Questo periodo è quello della vita di Gesù, iniziata tuttavia un po' prima, essendo Gesù nato prima della morte di Erode il Grande avvenuta nell'anno 4 prima della nostra era. Alla morte di questi, l'imperatore Augusto divise il regno tra tre figli di Erode: Archelao (Mt 2,22), Erode Antipa (14,1; ecc.) e Filippo (16,13; Lc 3,1). Poiché il modo di governare di Archelao suscitava l'ostilità dei suoi sudditi, Augusto fece passare ben presto il suo territorio, la Giudea, sotto l'amministrazione romana. 

Quale poteva essere la posizione di Gesù in rapporto ai tre « partiti » religiosi che abbiamo menzionato? Bisogna considerare tre questioni principali. 

Al tempo della vita pubblica di Gesù qual era il gruppo religioso più importante? Giuseppe Flavio dice che i Farisei erano il partito principale, estremamente influente nelle città. 308 È forse questa la ragione per cui Gesù viene presentato in opposizione ad essi più che ad ogni altro gruppo, un indiretto omaggio alla loro importanza. A ciò si aggiunge che questa componente del giudaismo è sopravvissuta meglio delle altre ed il cristianesimo nascente ha dovuto confrontarsi soprattutto con essa. 

Quali erano le posizioni dei Farisei? I vangeli presentano spesso i Farisei come dei legalisti ipocriti e senza cuore. Si è cercato di confutare questa presentazione sulla base di alcune posizioni rabbiniche attestate nella Mishna, che non sono né ipocrite né strettamente legaliste. L'argomento non è decisivo, perché una tendenza legalista si manifesta anche nella Mishna e, d'altra parte, si ignora in che misura le posizioni della Mishna, codificate verso l'anno 200, corrispondano a quelle dei Farisei del tempo di Gesù. Detto ciò, bisogna ammettere che, molto probabilmente, la presentazione dei Farisei nei vangeli è influenzata in parte dalle polemiche più tardive tra cristiani ed ebrei. Al tempo di Gesù, c'erano certamente dei Farisei che insegnavano un'etica degna di approvazione. Ma la testimonianza diretta di Paolo, un fariseo « accanito sostenitore delle tradizioni dei padri », mostra a quali eccessi poteva condurre lo zelo dei farisei: « perseguitavo fieramente la Chiesa di Dio ». 309 

Gesù apparteneva a uno dei tre gruppi? Non c'è alcuna ragione di fare di lui un sadduceo. Non era sacerdote. La credenza negli angeli e nella risurrezione dei corpi così come le attese escatologiche che gli sono attribuite nei vangeli lo avvicinano molto di più alla teologia essena e farisaica. Ma il Nuovo Testamento non menziona mai gli Esseni e non ha alcun ricordo di un collegamento di Gesù con una comunità così specifica. Quanto ai Farisei, nominati spesso nei vangeli, la loro relazione con Gesù è regolarmente di opposizione, a causa del suo atteggiamento non conforme alle loro osservanze. 310 

È quindi più probabile che Gesù non sia appartenuto ad alcuno dei partiti che esistevano allora in seno al giudaismo. Era semplicemente solidale con la maggior parte del popolo. Ricerche recenti hanno cercato di situarlo in diversi contesti del suo tempo: rabbi carismatici di Galilea, predicatori cinici itineranti o perfino zeloti rivoluzionari. Ma egli non si lascia racchiudere in nessuna di queste categorie. 

Riguardo al rapporto di Gesù con i Gentili e il loro modo di pensare, ci si è ugualmente abbandonati a molte speculazioni, ma le informazioni a disposizione sono pochissime. In quest'epoca in Palestina, anche nelle regioni in cui la maggior parte della popolazione era ebraica, era forte l'influenza dell'ellenismo, ma non si faceva sentire dappertutto allo stesso modo. L'influenza esercitata su Gesù dalla cultura delle città ellenistiche come Tiberiade sulla riva del lago di Galilea e Sepforis (a 6 o 7 chilometri da Nazaret) resta molto problematica, perché i vangeli non danno alcuna indicazione di contatti di Gesù con queste città. Né abbiamo indizi che Gesù o i suoi più stretti discepoli parlassero greco in modo significativo. Nei vangeli sinottici, Gesù ha pochi contatti con i Gentili, ordina ai discepoli di non andare a predicare tra loro (Mt 10,5), vieta di imitare il loro modo di vivere (6,7.32). Alcune sue espressioni riflettono il sentimento ebraico di superiorità nei riguardi dei Gentili, 311 ma egli sa prendere le sue distanze di fronte a questi sentimenti e affermare, al contrario, la superiorità di molti Gentili (Mt 8,10-12). 

Qual era il rapporto dei primi discepoli di Gesù con il contesto religioso ebraico? I Dodici e gli altri condividevano probabilmente la mentalità galilaica di Gesù, sebbene i dintorni del lago di Galilea dove abitavano siano stati più cosmopoliti di Nazaret. Il IV vangelo riferisce che Gesù attira alcuni discepoli di Giovanni Battista (Gv 1,35-41), che ha dei discepoli della Giudea (19,38) e che conquista un intero villaggio di Samaritani (4,39-42). È quindi possibile che il gruppo dei discepoli riflettesse il pluralismo allora esistente in Palestina. 

 

3. Il secondo terzo del I secolo 

68. Il primo periodo di diretta amministrazione romana della Giudea terminò nel 3940. Erode Agrippa I, amico dell'imperatore Caligola (37-41) e del nuovo imperatore, Claudio (41-54), diventò re su tutta la Palestina (41-44). Egli guadagnò il favore dei capi religiosi ebrei e si sforzò di apparire pio. In At 12 Luca gli attribuisce una persecuzione e la messa a morte di Giacomo, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo. Dopo la morte di Agrippa, di cui At 12,20-23 presenta un racconto drammatizzato, iniziò un altro periodo di governo romano. 

Fu nel corso di questo secondo terzo del I secolo che i discepoli di Cristo risorto divennero molto numerosi e si organizzarono in « chiese » (« assemblee »). È verosimile che le strutture di alcuni gruppi ebraici abbiano esercitato un'influenza sulle strutture della Chiesa primitiva. Ci si può domandare se i « presbiteri » o gli « anziani » cristiani siano stati istituiti sul modello degli « anziani » delle sinagoghe e, d'altra parte, se gli « episcopi » (« sorveglianti ») cristiani siano stati stabiliti sul modello dei « sorveglianti » descritti a Qumran. La designazione del movimento cristiano come « la via » (hodos) riflette forse la spiritualità degli uomini di Qumran, partiti nel deserto per preparare la strada del Signore? Dal punto di vista teologico, si è creduto di trovare delle tracce dell'influenza di Qumran nel dualismo del IV vangelo, espresso in termini di luce e tenebre, verità e menzogna, nella lotta tra Gesù, luce del mondo, e il potere delle tenebre (Lc 22,53) e nella lotta tra lo Spirito della verità e il Principe di questo mondo (Gv 16,11). Ma la presenza di temi comuni non implica necessariamente una relazione di dipendenza. 

I procuratori romani degli anni 44-66 furono uomini senza levatura, corrotti e disonesti. Il loro cattivo governo suscitò la comparsa dei « sicari » (terroristi armati di pugnale) e degli « zeloti » (impietosi fanatici della Legge) e provocò, alla fine, una grande rivolta ebraica contro i Romani. Per domare questa rivolta furono impiegati rilevanti forze armate romane e i migliori generali. Per i cristiani, un evento notevole fu la messa a morte di Giacomo, « fratello del Signore », nell'anno 62, in seguito a una decisione del Sinedrio convocato dal sommo sacerdote Ananus (Anna) II. Questo sommo sacerdote fu destituito dal procuratore Albino per aver agito illegalmente. Solo due anni più tardi, dopo il grande incendio che devastò Roma nel 64, l'imperatore Nerone (54-68) perseguitò i cristiani nella capitale. Secondo una tradizione molto antica, gli apostoli Pietro e Paolo furono martirizzati in tale occasione. Ne consegue che, parlando in modo approssimativo, l'ultimo terzo del I secolo può essere chiamato periodo post-apostolico. 

 

4. L'ultimo terzo del I secolo 

69. La rivolta ebraica nel 66-70 e la distruzione del Tempio di Gerusalemme provocarono un cambiamento nella dinamica dei raggruppamenti religiosi. I rivoluzionari (sicari, zeloti e altri) furono sterminati. L'insediamento di Qumran fu distrutto nel 68. La cessazione dei sacrifici nel Tempio indebolì la base del potere dei dirigenti sadducei, appartenenti alle famiglie sacerdotali. Non sappiamo in che misura il giudaismo rabbinico sia erede dei Farisei. Ciò che è certo è che, dopo il 70, alcuni maestri rabbini, « i saggi d'Israele », furono a poco a poco riconosciuti come guide del popolo. Quelli che erano radunati ad Jamnia (Yavneh), sulla costa palestinese, furono considerati dalle autorità romane i portaparola degli ebrei. Dal 90 al 110 circa, Gamaliele II, figlio e nipote di celebri interpreti della Legge, presiedeva l'assemblea di Jamnia. È possibile che gli scritti cristiani risalenti a questo periodo, quando parlano di giudaismo, siano stati influenzati, in modo crescente, dai rapporti con questo giudaismo rabbinico in via di formazione. In certi settori, il conflitto tra i dirigenti delle sinagoghe e i discepoli di Gesù era acuto. Lo si vede dalla menzione dell'espulsione dalla sinagoga inflitta a « chiunque avrebbe confessato che Gesù è il Cristo » (Gv 9, 22) e, come contropartita, dalla forte polemica antifarisaica di Mt 23 nonché dal riferimento, fatto dall'esterno, alle « loro sinagoghe », designate come luoghi in cui i discepoli di Gesù saranno flagellati (Mt 10, 17). Spesso viene menzionata la Birkat ha-minim, « benedizione » sinagogale (in realtà una maledizione) contro gli eretici. La sua datazione all'anno 85 è incerta e l'idea che si trattasse di un decreto ebraico universale contro i cristiani è quasi certamente un errore. Ma non si può seriamente mettere in dubbio che a partire da date diverse a secondo dei luoghi, le sinagoghe locali non abbiano più tollerato la presenza dei cristiani facendo loro subire vessazioni che potevano arrivare fino alla messa a morte (Gv 16, 2).312 

Gradualmente, a partire dall'inizio del II secolo, una formula di « benedizione » che denunciava eretici o devianti di ogni tipo fu compresa come riferita anche ai cristiani e, molto più tardi, come riferita specialmente ad essi. Verso la fine del II secolo, le linee di demarcazione e di divisione tra ebrei che non credevano in Gesù e i cristiani erano dappertutto chiaramente tracciate. Ma testi come 1 Ts 2,14 e Rm 9–11 dimostrano che la divisione era già percepita chiaramente molto prima di questo tempo. 

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B. Gli ebrei nei vangeli e negli Atti degli apostoli 

70. Sugli ebrei, i vangeli e gli Atti hanno una prospettiva fondamentale molto positiva, perché riconoscono il popolo ebraico come il popolo scelto da Dio per realizzare il suo disegno di salvezza. Questa scelta divina trova la sua più alta conferma nella persona di Gesù, figlio di madre ebrea, nato per essere il salvatore del suo popolo e che conduce a buon fine la sua missione annunciando al suo popolo la buona novella e realizzando un'opera di guarigione e di liberazione, che culmina nella sua passione e risurrezione. L'adesione a Gesù di un gran numero di ebrei, durante la sua vita pubblica e dopo la sua risurrezione, conferma questa prospettiva, e ugualmente la scelta da parte di Gesù di dodici ebrei per partecipare alla sua missione e continuare la sua opera.

Accolta positivamente all'inizio da molti ebrei, la Buona Novella si scontra con l'opposizione dei dirigenti, che sono alla fine seguiti dalla maggior parte del popolo. Ne risulta, tra le comunità ebraiche e le comunità cristiane, una situazione conflittuale, che ha evidentemente lasciato il suo segno nella redazione dei vangeli e degli Atti.

 

1. Vangelo secondo Matteo

I rapporti tra il primo vangelo e il mondo ebraico sono particolarmente stretti. Molti dettagli manifestano in esso una grande familiarità con le Scritture, le tradizioni e la mentalità dell'ambiente ebraico. Più di Marco e Luca, Matteo insiste sull'origine ebraica di Gesù; la sua genealogia presenta Gesù come « figlio di Davide, figlio di Abramo » (Mt 1,1) e non va oltre. Il significato del nome di Gesù viene sottolineato: il bimbo di Maria porterà questo nome, « perché salverà il suo popolo dai suoi peccati » (1,21). La missione di Gesù, durante la sua vita pubblica, si limita « alle pecore perdute della casa d'Israele » (15,24) ed egli fissa lo stesso limite alla prima missione dei Dodici (10,5-6). Più degli altri evangelisti, Matteo si preoccupa di notare spesso che gli eventi dell'esistenza di Gesù avvengono « perché si compia quanto era stato detto dai profeti » (2,23). Gesù stesso si preoccupa di precisare di non essere venuto per abolire la Legge, ma per darle compimento (5,17). 

È tuttavia chiaro che le comunità cristiane hanno preso le loro distanze in rapporto alle comunità degli ebrei che non credono in Cristo Gesù. Dettaglio significativo: Matteo non dice che Gesù insegnava « nelle sinagoghe », ma dice: « nelle loro sinagoghe » (4,23; 9,35; 13,54), marcando così una separazione. Matteo mette in scena due dei tre partiti descritti dallo storico Giuseppe, i Farisei e i Sadducei, ma sempre in un contesto di opposizione a Gesù. Tale è anche il caso degli scribi, 313 spesso associati ai Farisei. Altro fatto significativo: le tre componenti del Sinedrio, « anziani, sommi sacerdoti e scribi », fanno la loro prima apparizione comune nel vangelo in occasione del primo annuncio della passione (16,21). Sono quindi anch'essi situati in un contesto di opposizione a Gesù, e di opposizione radicale. 

Gesù si trova a fronteggiare l'opposizione degli scribi e dei farisei in molteplici occasioni e vi risponde, per ultimo, con una vigorosa controffensiva (23,2-7.13-36), in cui ricorre sei volte l'invettiva « scribi e farisei ipocriti ». Questa presentazione riflette in parte, certamente, la situazione della comunità di Matteo. Il contesto redazionale è quello di due gruppi che vivono in stretto contatto l'uno con l'altro: il gruppo degli ebrei cristiani, convinti di appartenere al giudaismo autentico, e quello degli ebrei che non credevano in Cristo Gesù ed erano considerati dai cristiani come infedeli alla loro vocazione ebraica per docilità a dei dirigenti ciechi e ipocriti. 

Bisogna anzitutto notare che la polemica di Matteo non ha di mira i Giudei in generale. Questi vengono nominati solo nell'espressione « re dei Giudei », applicata a Gesù (2,2; 27,11.29.37), e in una frase dell'ultimo capitolo (28,15), di importanza molto secondaria. La polemica è quindi piuttosto interna tra due gruppi appartenenti entrambi al giudaismo. D'altro canto, essa ha di mira solo i dirigenti. Mentre nell'oracolo di Isaia viene biasimata tutta la vigna (Is 5,1-5), nella parabola di Matteo vengono accusati solo i vignaioli (Mt 21,33-41). Le invettive e le accuse lanciate contro gli scribi e i farisei sono analoghe a quelle che si trovano nei profeti e corrispondono al genere letterario dell'epoca, utilizzato sia in ambiente ebraico (ad esempio a Qumran) che in ambiente ellenistico. Sono del resto, come nei profeti, un aspetto dell'appello alla conversione. Lette nella comunità cristiana, esse mettono in guardia gli stessi cristiani contro atteggiamenti incompatibili con il vangelo (23,8-12). 

Inoltre, la virulenza antifarisaica di Mt 23 è da vedere nel contesto del discorso apocalittico di Mt 24–25. Il linguaggio apocalittico è usato in tempo di persecuzione per rafforzare la capacità di resistenza della minoranza perseguitata e rinsaldare la sua speranza in un intervento divino liberatore. Visto in questa prospettiva, il vigore della polemica sorprende meno. 

Bisogna tuttavia riconoscere che Matteo non restringe sempre la sua polemica alla classe dirigente. La diatriba di Mt 23 contro gli scribi e i farisei è seguita da un'apostrofe indirizzata a Gerusalemme. È tutta la città a essere accusata di « uccidere i profeti » e di « lapidare quelli che le sono inviati » (23,37) ed è alla città che viene annunciato il castigo (23,38). Del suo magnifico Tempio « non resterà pietra su pietra » (24,2). Si ritrova qui una situazione parallela a quella del tempo di Geremia (Ger 7; 26). Il profeta aveva annunciato la distruzione del Tempio e la rovina della città (26,6.11). Gerusalemme sarebbe diventata « una maledizione per tutte le nazioni della terra » (26,6), esattamente il contrario della benedizione promessa ad Abramo e alla sua discendenza (Gn 12,3; 22,18). 

71. Al tempo della redazione del vangelo, la maggior parte del popolo ebraico aveva seguito i suoi dirigenti nel rifiuto di credere in Cristo Gesù. Gli ebrei cristiani non erano che una minoranza. L'evangelista prevedeva quindi che le minacce di Gesù si sarebbero realizzate. Queste non avevano di mira gli ebrei in quanto ebrei, ma in quanto solidali con i loro dirigenti indocili a Dio. Matteo esprime questa solidarietà nel suo racconto della passione, quando riferisce che su istigazione dei sommi sacerdoti e degli anziani, « le folle » pretesero da Pilato che Gesù fosse crocifisso (Mt 27,20-23). In risposta alla negazione di responsabilità espressa dal governatore romano, « tutto il popolo » lì presente si addossò la responsabilità della condanna a morte di Gesù (27,24-25). Da parte del popolo, questa presa di posizione manifestava certamente la convinzione che Gesù meritasse la morte, ma agli occhi dell'evangelista, una tale convinzione era ingiustificabile. Gesù avrebbe potuto far proprie le parole di Geremia: « Sappiate bene che se mi uccidete, attirerete sangue innocente su di voi, su questa città e sui suoi abitanti » (Ger 26,15). Nella prospettiva dell'Antico Testamento è inevitabile che le colpe dei capi provochino conseguenze disastrose per tutta la collettività. Se la redazione del vangelo fu completata dopo l'anno 70, l'evangelista sapeva che, come la predizione di Geremia, quella di Gesù si era realizzata. Ma in questa realizzazione egli non poteva vedere un punto finale, perché tutta la Scrittura attesta che, dopo la sanzione divina, Dio apre sempre prospettive positive. 314 Ed è effettivamente su una prospettiva positiva che si conclude il discorso di Mt 23. Verrà un giorno in cui Gerusalemme dirà: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore » (23,39). La passione stessa di Gesù apre la prospettiva più positiva che ci potesse essere, perché, Gesù trasforma il suo « sangue innocente », versato in modo criminale, in un « sangue di alleanza », « versato per il perdono dei peccati » (26,28). 

Come il grido del popolo nel racconto della passione (27,25), la conclusione della parabola dei vignaioli sembra mostrare che, all'epoca della composizione del vangelo, la maggior parte del popolo era rimasta solidale con i suoi capi nel loro rifiuto della fede in Gesù. Infatti, dopo aver predetto a costoro: « Il Regno di Dio vi sarà tolto », Gesù non aggiunge che il Regno sarà dato « ad altre autorità », ma dice che sarà dato « a una nazione, che lo farà fruttificare » (21,43). L'espressione « una nazione » si oppone implicitamente a « popolo d'Israele »; essa suggerisce, certo, che un gran numero dei suoi membri non sarà di origine ebraica. Ma la presenza di ebrei non è per questo esclusa, perché l'insieme del vangelo fa capire che questa « nazione » sarà costituita sotto l'autorità dei Dodici, in particolare di Pietro (16,18), e i Dodici sono ebrei. Con essi ed altri ebrei « molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori » (8,11-12). Questa apertura universalistica trova la sua conferma definitiva nel finale del vangelo, perché Gesù risorto ordina lì agli « undici discepoli » di andare ad ammaestrare « tutte le nazioni » (28,19). Ma questo finale conferma al tempo stesso la vocazione d'Israele, perché Gesù è un figlio d'Israele e in lui si compie la profezia di Daniele che riguarda il ruolo d'Israele nella storia. Le parole del risorto: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra »  315 precisano in che senso bisogna ora comprendere la visione universalistica di Daniele e degli altri profeti. 

Conclusione. Il vangelo di Matteo, più degli altri sinottici, è un vangelo del compimento — Gesù non è venuto per abolire ma per portare a compimento — e insiste quindi sull'aspetto di continuità con l'Antico Testamento, fondamentale per la nozione di compimento. È questo aspetto che permette di stabilire dei legami fraterni tra cristiani ed ebrei. Ma, d'altra parte, il vangelo di Matteo riflette una situazione di tensione e persino di opposizione tra le due comunità. Gesù prevede che i suoi discepoli saranno flagellati nelle sinagoghe e perseguitati di città in città (23,34). Matteo si preoccupa perciò di difendere i cristiani. Essendo poi la situazione mutata radicalmente, la polemica di Matteo non deve più intervenire nei rapporti tra cristiani ed ebrei e l'aspetto di continuità può e deve prevalere. Lo stesso si deve dire della predizione della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Questa distruzione è un evento del passato, che deve ora suscitare solo una profonda compassione. I cristiani devono assolutamente evitare di estenderne la responsabilità alle generazioni successive del popolo ebraico e devono aver cura di ricordarsi che dopo una sanzione divina Dio non manca mai di aprire nuove prospettive positive. 

 

2. Vangelo di Marco 

72. Il vangelo di Marco è un messaggio di salvezza senza alcuna precisazione circa i suoi destinatari. Il finale, aggiunto successivamente, lo destina in modo audace « a tutta la creazione », « in tutto il mondo » (16,15), il che corrisponde alla sua apertura universalistica. Sul popolo ebraico, Marco, egli stesso ebreo, non esprime un giudizio d'insieme. Il giudizio negativo del profeta Isaia (Is 29,13) viene applicato da Marco solo ai Farisei e agli scribi (Mc 7,5-7). Al di fuori del titolo « re dei Giudei », applicato cinque volte a Gesù nel racconto della passione, 316 il nome « Giudei » appare una sola volta nel vangelo, nel corso di una spiegazione sulle usanze ebraiche (7,3), inserita evidentemente per lettori non ebrei. Questa spiegazione si trova in un episodio in cui Gesù critica l'estremo attaccamento dei farisei alla « tradizione degli antichi », che fa loro trascurare « il comandamento di Dio » (7,8). Marco nomina « Israele » solo due volte, 317 e altrettanto « il popolo ». 318 Nomina, al contrario, molto spesso « la folla », composta naturalmente soprattutto da ebrei, e questa folla è molto favorevole a Gesù, 319 fatta eccezione dell'episodio della passione, dove i sommi sacerdoti la spingono a preferire a lui Barabba (15,11). 

Lo sguardo critico di Marco verte sull'atteggiamento delle autorità religiose e politiche. Il giudizio riguarda essenzialmente la loro mancanza di apertura alla missione salvifica di Gesù: gli scribi accusano Gesù di bestemmia, quando esercita il suo potere di rimettere i peccati (2,7-10); non accettano che Gesù « mangi con i pubblicani e i peccatori » (2,15-16); lo dichiarano posseduto da un demonio (3,22). Gesù deve fronteggiare la loro opposizione e quella dei farisei. 320 

Le autorità politiche sono chiamate in causa più di rado: Erode per la morte di Giovanni Battista (6,17-28) e per il suo « lievito » associato a quello dei Farisei (8,15); il Sinedrio ebraico, autorità politico-religiosa (14,55; 15,1), e Pilato (15,15) per il loro ruolo nella passione. 

Nel racconto della passione, il secondo vangelo cerca di rispondere a due interrogativi: da chi è stato condannato Gesù e perché è stato messo a morte? Comincia col dare una risposta d'insieme, che colloca gli eventi nella luce divina: tutto è accaduto « perché si adempissero le Scritture » (14,49). Poi mostra il ruolo delle autorità ebraiche e quelle del governatore romano. 

L'arresto di Gesù è stato effettuato per ordine dei tre componenti del Sinedrio, « sommi sacerdoti, scribi e anziani » (14,43), ed è il risultato di un lungo processo, iniziato in Mc 3,6, dove però i protagonisti sono diversi: lì sono i Farisei che si associano agli Erodiani per complottare contro Gesù. Fatto significativo: « gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi » appaiono insieme per la prima volta nel primo annuncio della passione (8,1). In 11,18, « i sommi sacerdoti e gli scribi » cercano il modo per far morire Gesù. Le tre categorie si ritrovano in 11,27 per sottomettere Gesù a un interrogatorio. Gesù racconta loro la parabola dei vignaioli omicidi; la loro reazione è che « cercano di catturarlo » (12,12). In 14,1 la loro intenzione è di catturarlo per « metterlo a morte ». Il tradimento di Giuda offre loro l'occasione propizia (14,10-11). L'arresto e la conseguente condanna a morte sono quindi responsabilità dell'allora classe dirigente della nazione ebraica. All'atteggiamento delle autorità, Marco oppone regolarmente quello della « folla » o del « popolo », favorevole a Gesù. A tre riprese, 321 l'evangelista nota che le autorità sono state frenate nel loro progetto omicida dal timore della reazione del popolo. Ciononostante, alla fine del processo davanti a Pilato, i sommi sacerdoti riescono a mettere la folla presente in uno stato di eccitazione e a farla decidere a favore di Barabba (15,11) e quindi contro Gesù (15,13). La decisione finale di Pilato, impotente nel calmare la folla, è quella di « assecondarla », il che, per Gesù, significa la crocifissione (15,15). Questa folla occasionale non può evidentemente essere confusa con il popolo ebraico di quel tempo e ancora meno con il popolo ebraico di tutti i tempi. Bisogna piuttosto dire che essa rappresentava il mondo peccatore (14,41), di cui facciamo tutti parte. 

Colpevole di aver « condannato » Gesù, secondo Marco è il Sinedrio (10,33; 14,64). Di Pilato egli non dice che abbia espresso un giudizio di condanna contro Gesù, ma che, senza avere contro di lui alcun motivo di accusa (15,14), lo consegna perché sia messo a morte (15,15), il che rende Pilato ancora più colpevole. Il motivo della condanna del Sinedrio è che Gesù, nella sua risposta, affermativa e circostanziata, al sommo sacerdote che gli domandava se era « il Cristo, il Figlio del Benedetto », ha pronunziato una « bestemmia » (14,61-64). Marco indica così il punto di rottura più drammatico tra le autorità ebraiche e la persona di Cristo, punto che continua a essere il disaccordo più grave tra il giudaismo e il cristianesimo. Per i cristiani, la risposta di Gesù non è una bestemmia, ma la pura verità, che è stata manifestata tale dalla sua risurrezione. Agli occhi dell'insieme degli ebrei, i cristiani hanno il torto di affermare la filiazione divina di Cristo in un senso che offende gravemente Dio. Per quanto doloroso, questo disaccordo fondamentale non deve degenerare in ostilità reciproca, né far dimenticare l'esistenza di un ricco patrimonio comune, ivi compresa la fede nel Dio unico. 

Conclusione.Sostenere che, secondo il vangelo di Marco, la responsabilità della morte di Gesù sia da attribuire al popolo ebraico, è frutto di un'erronea interpretazione di questo vangelo. Questo tipo di interpretazione, che ha avuto conseguenze disastrose nel corso della storia, non corrisponde affatto alla prospettiva del vangelo che, come abbiamo visto, oppone molte volte l'atteggiamento del popolo o della folla a quello delle autorità ostili a Gesù. Si dimentica, d'altra parte, che i discepoli di Gesù facevano ugualmente parte del popolo ebraico. Si tratta quindi di un abusivo trasferimento di responsabilità, di cui la storia umana è purtroppo ricca di esempi. 322 

Conviene piuttosto ricordarsi che la passione di Gesù fa parte di un misterioso disegno di Dio, disegno di salvezza, perché Gesù è venuto « per servire e dare la propria vita in riscatto per molti » (10,45) ed ha fatto del suo sangue versato un « sangue di alleanza » (14,24). 

 

3. Vangelo secondo Luca e Atti degli apostoli 

73. Indirizzati all'« illustre Teofilo » allo scopo di completare la sua istruzione cristiana (Lc 1,3-4; At 1,1), il vangelo di Luca e il libro degli Atti sono scritti di grande apertura universalistica e, al tempo stesso, molto favorevoli a Israele. 

 

I nomi: « Israele », « i Giudei », « il popolo » 

L'attenzione riservata a « Israele » si manifesta subito positiva nel vangelo dell'infanzia, dove questo termine ricorre 7 volte. Nel resto del vangelo s'incontra solo altre 5 volte, in contesti più critici. Il nome « Giudei » appare cinque volte soltanto, di cui 3 nel titolo « re dei Giudei » attribuito a Gesù nel racconto della passione. Più significativo è l'uso del termine « popolo », che conta 36 ricorrenze nel vangelo (contro le due del vangelo di Marco) e vi appare regolarmente in una luce favorevole, anche alla fine del racconto della passione. 323 

Negli Atti, la prospettiva di partenza resta positiva, perché gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo e il perdono dei peccati a « tutta la casa d'Israele » (2,36) e ottengono molte adesioni (2,41; 4,4). Il nome d'Israele ricorre 14 volte nella prima parte degli Atti (At 1,6–13,24) e una quindicesima volta alla fine (28,20). Con 48 ricorrenze, il termine « popolo » è molto più frequente; « il popolo », all'inizio molto favorevole alla comunità cristiana (2,47; 5,26), finisce col seguire poi l'esempio dei suoi dirigenti e col diventare ostile (12,4.11), fino a volere, in particolare, la morte di Paolo (21,30-31). Questi ci tiene ad affermare di non « aver fatto nulla contro il popolo » (28,17). La stessa evoluzione si riflette negli usi del temine « Giudei », estremamente frequente (79 ricorrenze). I Giudei del giorno di Pentecoste (2,5), ai quali Pietro si rivolge chiamandoli rispettosamente con questo nome (2,14), sono chiamati alla fede in Cristo risorto e vi aderiscono in gran numero. All'inizio, essi sono i destinatari esclusivi della Parola (11,19). Ma ben presto, soprattutto a partire dal martirio di Stefano, diventano persecutori. La messa a morte di Giacomo da parte di Erode Antipa è un'azione che dà loro soddisfazione (12,1-3) e la loro « attesa » è che la stessa sorte sia riservata a Pietro (12,11). Prima della sua conversione, Paolo era un persecutore accanito (8,3; cf Gal 1,13); poi, da persecutore, diventa perseguitato: già a Damasco, « i Giudei ordirono un complotto per ucciderlo » (9,23); e lo stesso accadrà a Gerusalemme (9,29). Paolo continua nondimeno ad annunciare il Cristo « nelle sinagoghe dei Giudei » (13,5; 14,1), portando alla fede « un gran numero di Giudei e Greci » (14,1), ma questo successo provoca le reazioni ostili dei « Giudei increduli » (14,2). Lo stesso fenomeno si ripete spesso, con molteplici varianti, fino all'arresto di Paolo a Gerusalemme provocato dai « Giudei della provincia d'Asia » (21,27). Ciò nonostante, Paolo proclama con fierezza: « Io sono Giudeo » (22,3). Subisce l'ostilità da parte dei Giudei, senza però essere loro ostile. 

 

Il racconto evangelico 

74. Il vangelo dell'infanzia crea un'atmosfera estremamente favorevole al popolo ebraico. Gli annunci di nascite straordinarie presentano « Israele » (1,68) o « Gerusalemme » (2,38) come beneficiari della salvezza, nel compimento di una economia radicata nella storia del popolo. Ne risulta: « grande gioia per tutto il popolo » (2,10), « redenzione » (1,68-69), « salvezza » (2,30-31), « gloria del tuo popolo Israele » (2,32). Questi lieti annunci sono ben accolti. Però si intravede, per il futuro, una reazione negativa al dono di Dio, perché Simeone predice a Maria che il suo figlio diventerà un « segno contestato » e prevede che « una caduta » precederà il « rialzamento » (o: la risurrezione) « di molti in Israele » (2,34). Egli apre in questo modo una prospettiva profonda, in cui il salvatore si trova alle prese con forze ostili. Un tocco di universalismo, che si ispira al Secondo Isaia (42,6; 49,6), unisce la « luce per la rivelazione alle nazioni » alla « gloria per il tuo popolo Israele » (2,32), il che è una chiara dimostrazione che universalismo non significa antigiudaismo. 

Nel seguito del vangelo Luca inserisce altri tocchi di universalismo: prima a proposito della predicazione di Giovanni Battista (3,6; cf Is 40,5) e poi facendo risalire fino ad Adamo la genealogia di Gesù (3,38). Ma il primo episodio del ministero di Gesù, la sua predicazione a Nazaret (4,16-30), mostra subito che l'universalismo porrà dei problemi. Gesù invita i suoi concittadini a rinunciare a un atteggiamento possessivo in rapporto ai suoi doni di taumaturgo e ad accettare che anche degli stranieri beneficino di questi doni (4,23-27). La loro reazione di stizza è violenta: cacciata e tentato omicidio (4,28-29). Luca rende così chiaro in anticipo quella che sarà spesso la reazione dei Giudei al successo di Paolo presso i Gentili. I Giudei si oppongono in modo violento a una predicazione che livelli i loro privilegi di popolo eletto. 324 Invece di aprirsi all'universalismo del Secondo Isaia, essi seguono Baruc che consiglia loro di non cedere a degli stranieri i loro privilegi (Ba 4,3). Altri Giudei, però, resistono a questa tentazione e si mettono generosamente a servizio dell'evangelizzazione (At 18,24-26). 

Luca riporta le tradizioni evangeliche che mostrano Gesù alla prese con l'opposizione degli scribi e dei Farisei (Lc 5,17–6,11). In 6,11 egli attenua tuttavia l'ostilità di questi avversari non attribuendo loro fin dall'inizio, come invece in Mc 3, 6, un'intenzione omicida. Il discorso polemico di Luca contro i Farisei (11,42-44), esteso poi ai « dottori della legge » (11,46-52), è nettamente più breve di quello di Mt 23,2-39. La parabola del buon samaritano è la risposta alla domanda di un dottore della legge, al quale viene insegnato l'universalismo della carità (Lc 10,29.36-37). Essa mette in cattiva luce un sacerdote ebreo e un levita, proponendo, al contrario, come modello un samaritano (cf anche 17,12-19). Le parabole della misericordia (15,4-32), indirizzate ai Farisei e agli scribi, sono ugualmente un incitamento all'apertura di cuore. La parabola del padre misericordioso (15,11-32), che invita il figlio maggiore ad aprire il suo cuore al prodigo, non suggerisce direttamente l'applicazione, che talvolta è stata fatta, alle relazioni tra ebrei e Gentili (il figlio maggiore rappresenterebbe gli ebrei osservanti, poco inclini ad accogliere i pagani, considerati peccatori). È possibile tuttavia ipotizzare che il contesto più ampio dell'opera di Luca lasci una possibilità a questa applicazione, a causa della sua insistenza sull'universalismo. 

La parabola delle mine (19,11-27) contiene alcuni tratti particolari molto significativi. Mette in scena un pretendente al titolo di re che si scontra con l'ostilità dei suoi concittadini. Egli deve recarsi in un paese lontano per essere investito del potere regale; al ritorno, i suoi oppositori vengono messi a morte. Questa parabola, come quella dei vignaioli omicidi (20,9-19), costituisce, da parte di Gesù, un pressante avvertimento contro le conseguenze prevedibili di un rifiuto della sua persona. Altri passi del vangelo di Luca completano la prospettiva esprimendo tutto il dolore che Gesù prova al pensiero di queste tragiche conseguenze: piange sulla sorte di Gerusalemme (19,41-44) e si disinteressa del proprio dolore per preoccuparsi della sciagura delle donne e dei figli di questa città (23,28-31). 

Il racconto della passione secondo Luca non è particolarmente severo con le autorità ebraiche. Quando Gesù compare davanti « al consiglio degli anziani del popolo, i sommi sacerdoti e gli scribi » (22,66-71), Luca risparmia a Gesù il confronto con il sommo sacerdote, l'accusa di bestemmia e la condanna, il che ha come conseguenza anche l'attenuazione della colpevolezza dei nemici di Gesù. Questi formulano, poi, davanti a Pilato delle accuse di ordine politico (23,2). Pilato per tre volte dichiara che Gesù è innocente (23,4.14.22); esprime tuttavia l'intenzione di « dargli una lezione » (23,16.22), di farlo cioè flagellare, e alla fine cede alla pressione crescente della moltitudine (23,23-25), che si compone dei « sommi sacerdoti, dei capi e del popolo » (23,13). Nel seguito del racconto l'atteggiamento dei « capi » resta ostile (23,35), mentre quello del popolo ridiventa favorevole a Gesù (23,27.35.48) — lo abbiamo già notato — come lo era stato durante la vita pubblica. Da parte sua, Gesù prega per i suoi carnefici, da lui generosamente scusati, « perché non sanno quello che fanno » (23,34). 

Nel nome di Gesù risorto, « la conversione per il perdono dei peccati » deve « essere predicata a tutte le nazioni » (24,47). Questo universalismo non ha alcuna connotazione polemica, perché la frase precisa che tale predicazione deve « cominciare da Gerusalemme ». La prospettiva corrisponde alla visione di Simeone sulla salvezza messianica, preparata da Dio come « luce per la rivelazione alle genti e gloria del [suo] popolo Israele » (2,30-32). 

L'eredità che il terzo vangelo trasmette al libro degli Atti è quindi sostanzialmente favorevole al popolo ebraico. Le forze del male hanno avuto la loro « ora ». « Sommi sacerdoti, capi della guardia del Tempio e anziani » sono stati loro strumenti (22,52-53). Ma non hanno prevalso. Il disegno di Dio si è realizzato conformemente alle Scritture (24,25-27.44-47) ed è un disegno misericordioso di salvezza per tutti. 

 

Gli Atti degli apostoli 

75. L'inizio degli Atti fa passare gli apostoli di Cristo da una prospettiva limitata, la ricostituzione del regno d'Israele (At 1,6), a una prospettiva universalistica di testimonianza da rendere « fino agli estremi confini della terra » (1,8). L'episodio della Pentecoste situa, abbastanza curiosamente, i Giudei in questa prospettiva universalistica, e in modo molto simpatico: « C'erano, residenti a Gerusalemme, Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo » (2,5). Questi Giudei sono i primi destinatari della predicazione apostolica; essi simboleggiano, al tempo stesso, la destinazione universale del vangelo. Luca suggerisce così, ancora una volta, che giudaismo e universalismo, lungi dall'escludersi reciprocamente, sono fatti per andare insieme. 

I discorsi kerygmatici o missionari annunciano il mistero di Gesù sottolineando il forte contrasto tra la crudeltà umana, che ha messo a morte Gesù, e l'intervento liberatore di Dio, che l'ha risuscitato. La colpa degli « Israeliti » è stata di aver « fatto morire l'autore della vita » (3,15). Questa colpa, che è principalmente dei « capi del popolo » (4,8-10) o del « Sinedrio » (5,27.30), viene richiamata solo per giustificare un appello alla conversione e alla fede. Pietro, del resto, attenua la colpevolezza, non solo degli « Israeliti », ma anche dei loro « capi », dicendo che si tratta di una colpa commessa « per ignoranza » (3,17). Una simile indulgenza è impressionante; essa corrisponde all'insegnamento e all'atteggiamento di Gesù (Lc 6,36-37; 23,34). 

La predicazione cristiana, tuttavia, non tarda a suscitare l'opposizione delle autorità ebraiche. I Sadducei sono contrariati nel vedere gli apostoli « annunciare nella persona di Gesù la risurrezione dei morti » (At 4,2), alla quale non credono (Lc 20,27). Un fariseo tra i più influenti, Gamaliele, si schiera al contrario dalla parte degli apostoli, ritenendo possibile che la loro iniziativa « venga da Dio » (At 5,39). L'opposizione allora si attenua per un po' di tempo. Ma riprende da parte di sinagoghe degli ellenisti, quando Stefano, anch'egli ellenista, opera « grandi prodigi e segni tra il popolo » (6,8-15). Alla fine del suo discorso davanti ai membri del Sinedrio, Stefano riprende contro di essi le invettive dei profeti (7,51). La conseguenza immediata è la sua lapidazione. Imitando Gesù, Stefano prega il Signore di « non imputare loro questo peccato » (7,60; cf Lc 23,34). « In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme » (At 8,1). « Saulo » vi prende parte con accanimento (8,3; 9,13). 

Dopo la sua conversione e durante tutti i suoi viaggi missionari, sarà lui — come abbiamo visto — a subire la persecuzione da parte di quelli della sua stessa stirpe, provocata dal successo della sua predicazione universalistica. Questo è particolarmente evidente subito dopo il suo arresto a Gerusalemme. Quando prende la parola « in ebraico », « la moltitudine del popolo » (21,36) prima l'ascolta con calma (22,2), ma quando egli evoca il suo invio « alle nazioni », si eccita terribilmente contro di lui e chiede la sua morte (22,21-22). 

Il finale degli Atti è sorprendente, ma ancora più significativo. Poco dopo il suo arrivo a Roma, Paolo « convocò i più in vista tra i Giudei » (28,17), iniziativa unica nel suo genere. Cerca di « convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla Legge e dai Profeti » (28,23). Il suo scopo è di ottenere non delle adesioni individuali, ma una decisione collettiva che impegni tutta la comunità ebraica. Non avendola ottenuta, riprende a loro riguardo le severe parole di Isaia sull'indurimento di « questo popolo » (28,25-27; Is 6,9-10) e annuncia, come contrasto, l'accoglienza docile che le nazioni riserveranno alla salvezza offerta da Dio (28,28). In questo finale, che suscita interminabili discussioni, Luca vuole a prima vista prendere atto del fatto innegabile che non c'è stata, in fin dei conti, un'adesione collettiva del popolo ebraico al vangelo di Cristo. Al tempo stesso, Luca vuole rispondere alla grave obiezione che se ne poteva trarre contro la fede cristiana, mostrando che questa situazione era stata prevista dalle Scritture. 

 

Conclusione 

Non c'è dubbio che nell'opera di Luca si esprime una profonda stima per la realtà ebraica, in quanto ha un ruolo di primo piano nel disegno divino di salvezza. Tuttavia nel corso del racconto si manifestano gravi tensioni. Luca attenua allora i toni polemici che si incontrano negli altri sinottici. Ma evidentemente non può — e non vuole — mascherare il fatto che Gesù si è scontrato con una radicale opposizione da parte della autorità del suo popolo e che in seguito la predicazione apostolica si è trovata in una situazione analoga. Se il fatto di riferire in modo sobrio le manifestazioni di questa innegabile opposizione ebraica costituisse un fattore di antigiudaismo, allora Luca potrebbe essere accusato di antigiudaismo. Ma è chiaro che questo modo di vedere le cose è da respingere. L'antigiudaismo consiste piuttosto nel maledire e nell'odiare i persecutori e tutti il popolo al quale essi appartengono. Ora, il messaggio del vangelo invita, al contrario, i cristiani a benedire quelli che li maledicono, a fare del bene a quelli che li odiano e a pregare per quelli che li maltrattano (Lc 6,27-28), secondo l'esempio di Gesù (23,34) e quello del primo martire cristiano (At 7,60). È questa è una delle lezioni fondamentali dell'opera di Luca. Bisogna purtroppo rammaricarsi che nel corso dei secoli successivi essa non sia stata seguita abbastanza fedelmente. 

 

4. Vangelo di Giovanni 

76. A proposito degli ebrei, il IV vangelo contiene l'affermazione più positiva in assoluto, ed è Gesù stesso a pronunciarla nel suo dialogo con la samaritana: « La salvezza viene dai Giudei » (Gv 4,22). 325 D'altra parte, alla parola del sommo sacerdote Caifa, che dichiarava: « meglio che muoia un solo uomo per il popolo », l'evangelista riconosce un valore di parola ispirata da Dio e sottolinea che « Gesù doveva morire per la nazione », precisando subito dopo che non era « per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi » (Gv 11,49-52). L'evangelista dimostra una profonda conoscenza del giudaismo, delle sue feste e delle sue Scritture. Il valore del patrimonio ebraico viene riconosciuto in modo inequivocabile: Abramo vide il giorno di Gesù e se ne rallegrò (8,56); la Legge è un dono, ricevuto per mezzo di Mosè (1,17); « la Scrittura non può essere abolita » (10,35); Gesù è colui « del quale hanno parlato Mosè nella Legge e i profeti » (1,45); è « Giudeo » (4,9) e « re d'Israele » (1,47) o « re dei Giudei » (19,19-22). Nessuna seria motivazione permette di dubitare che l'evangelista fosse ebreo e che il contesto fondamentale per la composizione del vangelo sia stata la relazione con il giudaismo. 

Il termine « Giudei » ricorre 71 volte nel IV Vangelo, abitualmente al plurale, 3 volte al singolare (3,25; 4,9; 18,35). È applicato in particolare a Gesù (4,9). Il nome « Israelita » appare solo una volta ed è un titolo onorifico (1,47). Un certo numero di giudei si mostra ben disposto verso Gesù. È il caso di Nicodemo, un « capo dei Giudei » (3,1), che riconosce in Gesù un maestro venuto da Dio (3,2), lo difende davanti ai suoi colleghi Farisei (7,50-51) e si prende cura, dopo la sua morte in croce, della sua sepoltura (19,39). Alla fine, « molti dei capi » credettero in Gesù, ma non avevano il coraggio di dichiararsi suoi discepoli (12,42). L'evangelista riferisce abbastanza spesso che « molte » persone credettero in Gesù. 326 Il contesto mostra che si tratta di Giudei, eccetto in 4,39.41; l'evangelista talvolta lo precisa, ma raramente (8,31; 11,45; 12,11). 

Il più delle volte, comunque, « i Giudei » sono ostili a Gesù. La loro opposizione si scatena in occasione della guarigione di un paralitico, effettuata di sabato (5,16); cresce dopo una dichiarazione in cui Gesù si fa « uguale a Dio », con la conseguenza che cercano di farlo morire (5,18). Più tardi, come il sommo sacerdote di Mt 26,65 e Mc 14,64 nel corso del processo di Gesù, lo accusano di « bestemmia » e cercano di infliggergli la colpa corrispondente: la lapidazione (10,31-33). È stato giustamente osservato che gran parte del IV vangelo anticipa il processo di Gesù, al quale è data la possibilità di fare la propria difesa e di accusare i suoi accusatori. Questi sono spesso chiamati « i Giudei », senza altra precisazione, il che ha come risultato di legare a questo nome un giudizio negativo. Ma non si tratta affatto di un antigiudaismo di principio, poiché — come abbiamo già ricordato — il vangelo riconosce che « la salvezza viene dai Giudei » (4,22). Questo modo di parlare riflette soltanto una situazione di netta separazione tra le comunità cristiane e quelle ebraiche. 

L'accusa più grave espressa da Gesù contro « i Giudei » è quella di avere per padre il diavolo (8,44); bisogna notare che quest'accusa non è mossa contro i Giudei in quanto Giudei, ma al contrario in quanto essi non sono veri Giudei, poiché nutrono intenzioni omicide (8,37), ispirate dal diavolo, che è « omicida fin da principio » (8,44). Ad essere preso di mira era quindi solo un numero molto ristretto di Giudei contemporanei di Gesù; si tratta paradossalmente, di « Giudei che avevano creduto in lui » (8,31). Accusandoli aspramente, il IV vangelo metteva in guardia gli altri Giudei contro la tentazione di simili pensieri omicidi. 

77. Si è cercato di eliminare la tensione che i testi del IV vangelo possono provocare tra cristiani ed ebrei nel mondo attuale, proponendo di tradurre « gli abitanti della Giudea », piuttosto che « i Giudei » o « gli Ebrei ». Il contrasto non sarebbe tra « gli ebrei » e i discepoli di Gesù, ma tra gli abitanti di quella regione, presentati come ostili a Gesù, e quelli della Galilea, presentati come accoglienti verso il loro profeta. Nel vangelo è certamente presente il disprezzo degli abitanti della Giudea per i galilei (7,52), ma l'evangelista non fissa una linea di demarcazione tra la fede e il suo rifiuto secondo un confine geografico e chiama hoi Ioudaioi i Giudei della Galilea che rifiutano l'insegnamento di Gesù (6,41.52). 

Un'altra interpretazione dell'espressione « i Giudei » consiste nell'identificare « i Giudei » con « il mondo », basandosi su affermazioni che esprimono tra loro un legame (8,33) o un parallelismo. 327 Ma il mondo peccatore ha chiaramente un'estensione più ampia dell'insieme degli ebrei ostili a Gesù. 

È stato osservato, d'altra parte, che in molti passi del vangelo che nominano « i Giudei » si tratta più precisamente delle autorità ebraiche (sommi sacerdoti, membri del Sinedrio) o talvolta dei Farisei. Un confronto tra 18,3 e 18,12 spinge in questo senso. Nel racconto della passione, Giovanni nomina più volte « i Giudei » là dove i vangeli sinottici parlano della autorità ebraiche. Ma questa osservazione vale solo per un numero limitato di testi e non è possibile introdurre nella traduzione del vangelo una simile precisazione senza mancare di fedeltà ai testi. Questi sono l'eco di una situazione di opposizione alle comunità cristiane, da parte non solo delle autorità ebraiche, ma della maggior parte dei Giudei, solidali con le loro autorità (cf At 28,22). Storicamente parlando si può pensare che solo una minoranza di Giudei contemporanei di Gesù fosse ostile a lui, che un piccolo gruppo porta la responsabilità di averlo consegnato all'autorità romana; un numero ancora più ristretto volle forse la sua morte, probabilmente per motivi di ordine religioso che a loro sembravano imprescindibili. 328 Ma questi pochi riuscirono a creare un consenso generale in favore di Barabba e contro Gesù, 329 il che permette all'evangelista di utilizzare un'espressione generalizzante, annunciatrice di un'evoluzione posteriore. 

La separazione tra i discepoli di Gesù e « i Giudei » si manifesta talvolta nel vangelo con un'espulsione dalla sinagoga inflitta a dei Giudei che confessano la loro fede in Gesù. 330 È probabile che un simile trattamento fosse effettivamente applicato ai Giudei delle comunità giovannee, che gli altri Giudei consideravano ormai non più parte del popolo ebraico perché infedeli alla sua fede monoteistica (mentre, in realtà, non era così perché Gesù dice: « Io e il Padre siamo una cosa sola »: 10,30). Di conseguenza, diventa in qualche modo normale dire « i Giudei » per designare coloro che riservavano solo per sé questo nome, opponendosi alla fede cristiana. 

78. Conclusione. Il ministero di Gesù aveva suscitato una crescente opposizione da parte della autorità ebraiche, che, alla fine, decisero di consegnare Gesù all'autorità romana perché fosse messo a morte. Ma egli si rivelò vivo, per dare la vera vita a tutti quelli che credono in lui. Il IV vangelo ricorda questi eventi, rileggendoli alla luce dell'esperienza delle comunità giovannee, che si scontravano con l'opposizione delle comunità ebraiche. 

Le azioni e le dichiarazioni di Gesù mostravano che egli aveva con Dio una relazione filiale molto stretta, unica nel suo genere. La catechesi apostolica approfondì progressivamente la comprensione di questa relazione. Nelle comunità giovannee si insisteva fortemente sui rapporti tra il Figlio e il Padre e si affermava la divinità di Gesù, che è « il Cristo, il Figlio di Dio » (20,31) in un senso trascendente. Questa dottrina provocò l'opposizione dei capi delle sinagoghe, seguiti dall'insieme delle comunità ebraiche. I cristiani furono espulsi dalle sinagoghe (16,2) e, al tempo stesso, si trovarono esposti a vessazioni da parte delle autorità romane, perché non godevano più dei privilegi accordati agli ebrei. 

La polemica si accentuò da entrambe le parti. Dagli ebrei Gesù fu accusato di essere un peccatore (9,24), un bestemmiatore (10,33) e un posseduto dal diavolo. 331 Quelli che credevano in lui furono considerati ignoranti e maledetti (7,49). Dai cristiani, gli ebrei furono accusati di disobbedienza alla parola di Dio (5,38), di resistenza all'amore di Dio (5,42), di ricerca di vanagloria (5,44). 

Non potendo più partecipare alla vita cultuale degli ebrei, i cristiani presero meglio coscienza della pienezza che ricevevano dal Verbo fatto carne (1,16). Gesù risorto è fonte di acqua viva (7,37-38), luce del mondo (8,12), pane di vita (6,35), nuovo Tempio (2,19-22). Avendo amato i suoi fino alla fine (13,1), diede loro il suo nuovo comandamento d'amore (13,34). Bisogna fare di tutto perché si diffonda la fede in lui e, mediante la fede, la vita (20,31). Nel vangelo l'aspetto polemico è secondario. Ciò che è di fondamentale importanza è la rivelazione del « dono di Dio » (4,10; 3,16) offerto a tutti in Gesù Cristo, specialmente a coloro che l'« hanno trafitto » (19,37). 

 

5. Conclusione 

I vangeli mostrano che la realizzazione del disegno di Dio comportava necessariamente uno scontro con il male, che era necessario estirpare dal cuore umano. Questo fatto ha portato Gesù a scontrarsi con la classe dirigente del suo popolo, com'era già accaduto per gli antichi profeti. Già nell'Antico Testamento il popolo ebraico si presentava sotto due aspetti antitetici: da una parte, come un popolo chiamato a essere perfettamente unito a Dio; dall'altra, come un popolo peccatore. Questi due aspetti non potevano mancare di manifestarsi nel corso del ministero di Gesù. Al momento della passione, l'aspetto negativo era sembrato prevalere, anche nell'atteggiamento dei Dodici. Ma la risurrezione mostra che in realtà l'amore divino era risultato vittorioso e aveva ottenuto per tutti il perdono dei peccati e una vita nuova. 

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C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo e in altri scritti del Nuovo Testamento 

79. La testimonianza delle lettere paroline sarà considerata secondo i raggruppamenti comunemente accettati: prima le sette lettere la cui autenticità è generalmente riconosciuta (Rm, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1 Ts, Flm), poi Efesini e Colossesi, infine le Pastorali (1-2 Tm, Tt). Saranno poi esaminate la lettera agli Ebrei, le lettere di Pietro, Giacomo e Giuda, e l'Apocalisse. 

 

1. Gli ebrei nelle lettere di Paolo di non contestata autenticità 

Personalmente Paolo continua a essere fiero della sua origine ebraica (Rm 11,1). Del tempo anteriore alla sua conversione egli afferma: « Facevo progressi nel giudaismo superando la maggior parte dei miei connazionali e dei miei coetanei per il mio accanito zelo per le tradizioni dei padri » (Gal 1,14). Diventato apostolo di Cristo, dice ancora, a proposito dei suoi rivali: « Sono ebrei? Anch'io! Sono Israeliti? Anch'io! ». Sono stirpe di Abramo? Anch'io! (2 Cor 11,22). È anche capace però di relativizzare tutti questi vantaggi e di dire: « Tutte queste cose che erano per me un guadagno, le ho considerate una perdita a causa di Cristo » (Fil 3,7). 

Egli continua tuttavia a pensare e a ragionare come un ebreo. Il suo pensiero resta chiaramente impregnato di idee ebraiche. Nei suoi scritti si trovano non soltanto, come abbiamo visto sopra, continui riferimenti all'Antico Testamento ma anche molte tracce di tradizioni giudaiche. Inoltre, Paolo utilizza spesso tecniche rabbiniche di esegesi e di argomentazione (cf I. D. 3, n. 14). 

I legami di Paolo con il giudaismo si manifestano anche nel suo insegnamento morale. Nonostante la sua opposizione contro le pretese dei fautori della Legge, si serve egli stesso di un precetto della Legge, Lv 19,18 (« Amerai il prossimo tuo come te stesso »), per riassumere tutta la morale. 332 Questo modo di riassumere la Legge in un solo precetto è del resto tipicamente giudaico, come mostra un ben noto aneddoto, che mette in scena Rabbi Hillel e Rabbi Shammai, contemporanei di Gesù. 333 

Qual era l'atteggiamento dell'apostolo nei riguardi degli ebrei? In linea di massima era un atteggiamento positivo. Li chiama: « miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne » (Rm 9,13). Convinto che il vangelo di Cristo è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima » (Rm 1,16), egli desiderava trasmettere loro la fede, non trascurando nulla a questo scopo; poteva affermare: « mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei » (1 Cor 9,20) ed anche: « con coloro che sono sotto la Legge sono diventato come uno che è sotto la Legge — pur non essendo personalmente sotto la Legge — allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge » (1 Cor 9,20). Anche nel suo apostolato presso i Gentili cercava di essere indirettamente utile ai fratelli della sua stirpe, « nella speranza di salvare alcuni di essi » (Rm 11,14), contando in questo su un riflesso di emulazione (11,11.14): la vista della meravigliosa fecondità spirituale che la fede in Cristo Gesù dava ai pagani convertiti avrebbe suscitato negli ebrei il desiderio di non lasciarsi superare e li avrebbe spinti ad aprirsi a questa fede. 

La resistenza opposta dalla maggior parte degli ebrei alla predicazione cristiana metteva nel cuore di Paolo « un grande dolore e una sofferenza continua » (Rm 9,2), il che manifesta chiaramente quale fosse la profondità del suo affetto per loro. Si dichiara disposto ad accettare per loro il più grande e il più impossibile dei sacrifici, quello di essere egli stesso « anatema », separato da Cristo (9,3). Il suo affetto e la sua sofferenza lo spingono a cercare una soluzione: in tre lunghi capitoli (Rm 9–11), approfondisce il problema, o piuttosto il mistero, della posizione d'Israele nel disegno di Dio, alla luce di Cristo e della Scrittura, e termina la sua riflessione soltanto quando può concludere: « allora tutto Israele sarà salvato » (Rm 11,26). Questi tre capitoli della lettera ai Romani costituiscono la riflessione più approfondita, in tutto il Nuovo Testamento, sulla situazione degli ebrei che non credono in Gesù. In essi Paolo esprime il suo pensiero nel modo più maturo. 

La soluzione che propone è basata sulla Scrittura, che, in certi momenti, promette la salvezza solo a un « resto » d'Israele. 334 In questa tappa della storia della salvezza, c'è quindi solo un « resto » di Israeliti che credono in Cristo Gesù, ma questa situazione non è definitiva. Paolo osserva che, fin d'ora, la presenza del « resto » è una prova che Dio non ha « ripudiato il suo popolo » (11,1). Questo continua a essere « santo », cioè in stretta relazione con Dio. È santo perché proviene da una radice santa, i suoi antenati, e perché le sue « primizie » sono state santificate (11,16). Paolo non precisa se per « primizie » intenda gli antenati d'Israele o il « resto », santificato dalla fede e dal battesimo. Egli sfrutta poi la metafora agricola della pianta, parlando di alcuni rami tagliati e di innesto (11,17-24). Si comprende che quei rami tagliati sono gli Israeliti che hanno rifiutato Cristo Gesù e che le marze sono i Gentili diventati cristiani. A costoro — l'abbiamo già notato — Paolo predica la modestia: « Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te » (11,18). Ai rami tagliati apre una prospettiva positiva: « Dio ha il potere di innestarli di nuovo » (11,23), e questo sarà anche più facile che nel caso dei Gentili, perché si tratta del « proprio olivo » (11,24). In fin dei conti, il disegno di Dio riguardo a Israele è interamente positivo: « il loro passo falso è stata la ricchezza del mondo », « che cosa non sarà la loro partecipazione totale alla salvezza? » (11,12). Un'alleanza di misericordia è assicurata loro da Dio (11,27.31). 

80. Negli anni precedenti la composizione della lettera ai Romani, dovendo fronteggiare un'opposizione accanita da parte di molti suoi « consanguinei secondo la carne », Paolo aveva talvolta espresso vigorose reazioni di difesa. Sull'opposizione dei Giudei, egli scrive: « Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno » (cf Dt 25,3); subito dopo egli nota di aver dovuto far fronte a pericoli provenienti sia da parte dei fratelli della sua stirpe che da parte dei Gentili (2 Cor 11,24.26). Rievocando questi fatti dolorosi, Paolo non aggiunge alcun commento. Era pronto a « partecipare alle sofferenze di Cristo » (Fil 3,10). Ma ciò che provocava da parte sua un'accesa reazione erano gli ostacoli posti dai Giudei al suo apostolato presso i Gentili. Lo si vede in un passo della prima lettera ai Tessalonicesi (2,14-16). Questi versetti sono talmente contrari all'atteggiamento abituale di Paolo verso i Giudei che si è cercato di dimostrare che non erano suoi o di attenuarne il vigore. Ma l'unanimità dei manoscritti rende impossibile la loro esclusione e il tenore dell'insieme della frase non permette di restringere l'accusa ai soli abitanti della Giudea, com'è stato suggerito. Il versetto finale è perentorio: « L'ira è giunta su di loro, al colmo » (1 Ts 2,16). Questo versetto fa pensare alle predizioni di Geremia, 335 e alla frase di 2 Cr 26,16: « L'ira del Signore contro il suo popolo fu tale che non ci fu più rimedio ». Queste predizioni e questa frase annunciavano la catastrofe nazionale del 587 a.C.: assedio e presa di Gerusalemme, incendio del Tempio, deportazione. Paolo sembra prevedere una catastrofe nazionale di simili proporzioni. È opportuno osservare, a tale proposito, che gli eventi del 587 non erano stati un punto finale, perché il Signore aveva poi avuto pietà del suo popolo. Ne consegue che la terribile previsione di Paolo — previsione purtroppo avveratasi — non escludeva una riconciliazione posteriore. 

In 1 Ts 2,14-16, a proposito delle sofferenze inflitte ai cristiani di Tessalonica da parte dei loro compatrioti, Paolo ricorda che le chiese della Giudea avevano subito la stessa sorte da parte dei Giudei e accusa allora costoro di una serie di misfatti: « hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi »; la frase passa poi dal passato al presente: « essi non piacciono a Dio e sono ostili a tutti gli uomini, ci impediscono di predicare ai Gentili perché possano essere salvati ». È evidente che agli occhi di Paolo quest'ultimo rimprovero è quello più importante e che è alla base dei due giudizi negativi che lo precedono. Siccome i Giudei ostacolano la predicazione cristiana rivolta ai Gentili, sono « ostili a tutti gli uomini », 336 e « non piacciono a Dio ». Opponendosi con ogni mezzo alla predicazione cristiana, i Giudei del tempo di Paolo si mostrano perciò solidali con i loro padri che hanno ucciso i profeti e con i loro fratelli che hanno chiesto la condanna a morte di Gesù. Le formule di Paolo hanno l'apparenza di essere globalizzanti e di attribuire la colpa della morte di Gesù a tutti gli ebrei senza distinzione; l'antigiudaismo le prende in questo senso. Ma, collocate nel loro contesto, esse riguardano esclusivamente coloro che si oppongono alla predicazione ai pagani e quindi alla salvezza di questi ultimi. Venendo meno questa opposizione, cessa anche l'accusa. 

Un altro passo polemico si legge in Fil 3,2-3: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla mutilazione (katatom); perché noi siamo la circoncisione (peritom) ». A chi si riferisce qui l'apostolo? Sono ingiunzioni troppo poco esplicite per poter essere interpretate con certezza, ma si può almeno escludere che riguardassero gli ebrei. Secondo un'opinione corrente, Paolo avrebbe di mira dei cristiani giudaizzanti, che volevano imporre l'obbligo della circoncisione ai cristiani provenienti dalle « nazioni ». Paolo applicherebbe ad essi, in modo aggressivo, un termine di disprezzo, « cani », metafora per l'impurità rituale che gli ebrei applicavano talvolta ai Gentili (Mt 15,26) e disprezzerebbe la circoncisione della carne, chiamandola ironicamente « mutilazione » (cf Gal 5,12) e opponendo ad essa una circoncisione spirituale, come faceva già il Deuteronomio, che parlava di circoncisione del cuore. 337 Il contesto sarebbe, in questo caso, quello della controversia relativa alle osservanze ebraiche all'interno delle chiese cristiane, come nella lettera ai Galati. Ma è forse meglio far riferimento, come per Ap 22,15, al contesto pagano in cui vivevano i Filippesi e pensare che Paolo attacchi qui delle usanze pagane: perversioni sessuali, azioni immorali, mutilazioni cultuali di culti orgiastici. 338 

81. Riguardo alla discendenza di Abramo, Paolo fa una distinzione — l'abbiamo già visto — tra i « figli della promessa alla maniera di Isacco », che sono anche figli « secondo lo Spirito », e i figli « secondo la carne ». 339 Non basta essere « figli della carne » per essere « figli di Dio » (Rm 9,8). Perché la condizione essenziale è la propria adesione a colui che « Dio ha inviato [...] perché ricevessimo l'adozione a figli » (Gal 4,4-5). 

In un altro contesto, l'apostolo non fa questa distinzione, ma parla degli ebrei globalmente. Egli dichiara allora che essi hanno il privilegio di essere depositari della rivelazione divina (Rm 3,1-2). Questo privilegio, tuttavia, non li ha esentati dal dominio del peccato (3,9-19) e quindi dalla necessità di ottenere la giustificazione per la fede in Cristo e non per l'osservanza della Legge (3,20-22). 

Quando considera la situazione degli ebrei che non hanno aderito a Cristo, Paolo ci tiene ad esprimere la profonda stima che ha per loro, enumerando i doni meravigliosi che hanno ricevuto da Dio: « Essi che sono Israeliti, che [hanno] l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, — che [hanno] i padri e dai quali [proviene], secondo la carne, Cristo, che è sopra ogni cosa, Dio benedetto in eterno, amen » (Rm 9,4-5). 340 Nonostante l'assenza di verbi, è difficile dubitare che Paolo voglia parlare di un possesso attuale (cf 11,29), anche se, nel suo pensiero, questo possesso non è sufficiente, perché rifiutano il dono di Dio più importante, il suo Figlio, che pure è nato da essi secondo la carne. Paolo attesta a loro riguardo che « hanno zelo per Dio », ma aggiunge: « non con piena conoscenza; ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (10,2-3). Ciò nonostante, Dio non li abbandona. Il suo disegno è di usare loro misericordia. « L'indurimento » che colpisce « una parte » d'Israele è solo una tappa provvisoria, che ha una sua utilità temporanea (11,25); essa sarà seguita dalla salvezza (11,26). Paolo riassume la situazione in una frase antitetica, seguita da un'affermazione positiva: 

« Quanto al vangelo, [sono] nemici a causa vostra, 
quanto alla elezione, [sono] amati a causa dei padri, 
perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » 
(11,28-29). 

Paolo vede la situazione con realismo. Tra i discepoli di Cristo e i Giudei che non credono in lui c'è una relazione di opposizione. Questi Giudei contestano la fede cristiana; non accettano che Gesù sia il loro messia (Cristo) e il Figlio di Dio. I cristiani non possono non contestare la posizione di questi Giudei. Ma a un livello più profondo di questa relazione di opposizione esiste fin d'ora una relazione d'amore, e questa è definitiva, mentre l'altra è solo provvisoria. 

 

2. Gli ebrei nelle altre lettere 

82. La lettera ai Colossesi contiene solo una volta il termine « giudeo », in una frase che afferma che, nell'uomo nuovo, « non c'è giudeo e greco » e che aggiunge subito un'espressione parallela: « circoncisione e prepuzio »; c'è soltanto « Cristo, tutto in tutti » (Col 3,11). Questa frase, che riprende l'insegnamento di Gal 3,28 e Rm 10,12, rifiuta ogni importanza al particolarismo ebraico a livello fondamentale della relazione con Cristo. Non vuole esprimere alcun giudizio sugli ebrei, non più che sui greci. 

Il valore della circoncisione prima della venuta di Cristo viene affermato indirettamente, quando l'autore ricorda ai Colossesi che un tempo erano « morti a causa dei [loro] peccati e l'incirconcisione della [loro] carne » (2,13). Ma questo valore della circoncisione ebraica è stato eclissato dalla « circoncisione di Cristo », « circoncisione non fatta da mano d'uomo, che spoglia del corpo di carne » (2,11); si riconosce qui un'allusione alla partecipazione dei cristiani alla morte di Cristo mediante il battesimo (cf Rm 6,3-6). Ne consegue che gli ebrei che non credono in Cristo si trovano in una situazione religiosa insufficiente, ma questa conseguenza non è espressa. 

Nella lettera agli Efesini, invece, non compare il termine « giudeo ». Vi si menziona solo una volta il « prepuzio » e la « circoncisione », in una frase che fa allusione al disprezzo che gli ebrei avevano per i pagani. Questi ultimi erano « chiamati “prepuzio” dalla sedicente “circoncisione” » (2,11). D'altra parte, conformemente all'insegnamento delle lettere ai Galati e ai Romani, l'autore, parlando a nome dei giudeo-cristiani, descrive la loro situazione di giudei prima della conversione in termini negativi: erano nel numero dei « figli della ribellione », in compagnia dei pagani (2,2-3), e avevano una condotta asservita « ai desideri della [loro] carne »; erano quindi « per natura figli d'ira, proprio come gli altri » (2,3). Tuttavia, un altro passo della lettera dà indirettamente un'immagine diversa della situazione degli ebrei, un'immagine questa volta positiva, quando descrive la triste sorte dei non ebrei, che erano « senza Cristo, privati del diritto di cittadinanza in Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo » (2,12). I privilegi degli ebrei vengono così evocati ed enormemente apprezzati. 

Il tema principale della lettera è proprio l'affermazione entusiasta che questi privilegi, portati al loro vertice con la venuta di Cristo, sono ora accessibili ai Gentili, « ammessi alla stessa eredità, membri dello stesso corpo, associati alla stessa promessa, in Cristo Gesù » (3,6). La crocifissione di Gesù è compresa come un evento che ha distrutto il muro di separazione stabilito dalla Legge tra Giudei e Gentili e che ha così abolito l'inimicizia (2,14). La prospettiva è quella di rapporti in perfetta armonia. Cristo è la pace tra gli uni e gli altri, in modo da creare a partire dai due un unico uomo nuovo e riconciliarli entrambi con Dio in un solo corpo (2,15-16). Il rifiuto opposto dalla maggior parte degli ebrei alla fede cristiana non viene evocato; si resta in un'atmosfera irenica. 

Le Lettere pastorali, preoccupate dell'organizzazione interna delle comunità cristiane, non parlano mai degli ebrei. Vi si trova una sola allusione a « quelli della circoncisione » (Tt 1,10), ma si tratta di giudeo-cristiani appartenenti alla comunità. Essi sono criticati per essere, più degli altri membri della comunità, « insubordinati, chiacchieroni e seminatori di errori ». D'altra parte si suppone che la messa in guardia contro « genealogie senza fine », che si trova in 1 Tm 1,4 e Tt 3,9, faccia riferimento a speculazioni ebraiche sui personaggi dell'Antico Testamento, « miti ebraici » (Tt 1,14). 

Anche la lettera agli Ebrei non nomina mai i « Giudei », né del resto gli « Ebrei »! Menziona una volta « i figli d'Israele », ma a proposito dell'Esodo (Eb 11,22), e due volte « il popolo di Dio ». 341 Parla dei sacerdoti ebrei chiamandoli « quelli che officiano il culto della Tenda » (13,10) e indica la distanza che li separa dal culto cristiano. Positivamente, ricorda i legami di Gesù con la « discendenza di Abramo » (2,16) e la tribù di Giuda (7,14). L'autore dimostra l'insufficienza delle istituzioni dell'Antico Testamento, soprattutto del culto sacrificale, ma sempre basandosi sullo stesso Antico Testamento, di cui riconosce pienamente il valore di rivelazione divina. A proposito degli Israeliti dei secoli precedenti, i giudizi dell'autore non sono unilaterali, ma corrispondono fedelmente a quelli dello stesso Antico Testamento; da una parte, citando e commentando Sal 95,7-11, ricorda la mancanza di fede della generazione dell'Esodo, 342 ma, dall'altra, abbozza un affresco stupendo degli esempi di fede dati, attraverso i secoli, da Abramo e dalla sua discendenza (11,8-38). Parlando della passione di Cristo, la lettera agli Ebrei non fa alcuna menzione della responsabilità delle autorità ebraiche, ma dice semplicemente che Gesù ha patito una forte opposizione « da parte dei peccatori ». 343 

La stessa osservazione vale per la Prima lettera di Pietro, che evoca la passione di Cristo dicendo che « il Signore » è stato « rigettato dagli uomini » (1 Pt 1,4), senza altra precisazione. Questa lettera attribuisce ai cristiani i titoli gloriosi del popolo israelita, 344 ma senza alcun accento polemico. Non nomina mai gli ebrei. Lo stesso è per la lettera di Giacomo, la seconda lettera di Pietro e la lettera di Giuda. Queste lettere, pur essendo impregnate di tradizioni ebraiche, non trattano della questione dei rapporti tra la Chiesa cristiana e gli ebrei contemporanei. 

 

3. Gli ebrei nell'Apocalisse 

83. Il giudizio molto favorevole dell'Apocalisse nei riguardi degli ebrei si manifesta in tutto il libro, ma in particolare nella menzione dei 144.000 « servi del nostro Dio », segnati « sulla fronte » con il « sigillo del Dio vivente » (Ap 7,2-4), che provengono da tutte le tribù d'Israele, nominate una per una (caso unico nel Nuovo Testamento: Ap 7,5-8). L'Apocalisse ha il suo vertice nella descrizione della « nuova Gerusalemme » (Ap 21,2), che ha « dodici porte » sulle quali sono incisi dei nomi, « quelli delle dodici tribù d'Israele » (21,12), in parallelo con « i nomi dei dodici apostoli dell'Agnello », incisi sui dodici basamenti della città (21,14). 

In due frasi parallele (2,9 e 3,9) si menzionano dei « sedicenti Giudei »; l'autore respinge le loro pretese e li chiama « sinagoga di Satana ». In 2,9 questi « sedicenti Giudei » sono accusati di diffamare la comunità cristiana di Smirne. In 3,9 Cristo annuncia che essi saranno costretti a rendere omaggio ai cristiani di Filadelfia. Queste frasi suggeriscono che i cristiani rifiutano l'appellativo di « Giudei » agli Israeliti che li diffamano e che si mettono così dalla parte di Satana, « l'accusatore dei nostri fratelli » (Ap 12,10). In se stesso, quindi, il titolo di « Giudei » è valutato positivamente, come un titolo di nobiltà, che è negato a una sinagoga attivamente ostile ai cristiani. 

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