“Non restare in silenzio davanti alla violenza e alla
    sopraffazione e promuovere la riconciliazione”. Con questo spirito
    partiranno i trenta vescovi della delegazione del Consiglio delle Conferenze
    episcopali europee (Ccee) e della Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America
    che da domani (fino al 19 gennaio) saranno in Terra Santa per una visita
    divenuta ormai una tradizione. A parlare è mons. Patrick Kelly,
    vicepresidente della Conferenza episcopale dell'Inghilterra e del Galles,
    cui spetta il coordinamento dei lavori della delegazione: “Le vicende
    della Terra Santa fanno parte integrante della nostra storia attuale. Stanno
    avvenendo grandi cambiamenti. 
 Ariel Sharon potrebbe non far più parte della
    scena politica e ciò causerebbe grosse implicazioni, le incertezze intorno
    alle elezioni palestinesi sono fonte anch’esse di preoccupazione. Il modo
    in cui tutte queste vicende influenzano le sorti del medio Oriente ci
    spingerà, quest’anno, anche in Giordania. Raccomando la Terra Santa alle
    preghiere di tutti. Che a guidarci sia l’insegnamento di Gesù”.
    
    La delegazione inizia il suo viaggio incontrando i giovani della Caritas
    di Ramallah. Nei giorni seguenti incontra le autorità
    palestinesi e israeliane, le popolazioni locali, giovani sacerdoti e
    seminaristi. Particolarmente significativa è la celebrazione pubblica della messa
    nella Basilica della natività a Betlemme, lunedì 16 gennaio. I vescovi si
      dirigono ad Amman dove la delegazione incontra per la prima
    volta il re di Giordania. Lì si discute della situazione del Paese e
    della situazione delle varie chiese cristiane presenti. [Importante
      dichiarazione del re di Giordania] La visita si
      conclude giovedì 19 gennaio a Gerusalemme con incontri con le autorità
    israeliane e palestinese, una conferenza stampa e con una celebrazione con
    la comunità melkita. [Comunicato
      emesso dai Vescovi]
    
    “Rafforzare i legami che ci uniscono e mostrare concretamente che tutta la
    cristianità si interessa alla vita dei cristiani a Gerusalemme e in Terra
    Santa”. È questo, secondo padre Pierre Grech, segretario generale
    della Conferenza dei vescovi latini delle Regioni arabe (Celra), lo scopo
    della riunione della delegazione di vescovi rappresentanti il Consiglio
    delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e degli Stati Uniti d’America
    in Terra Santa. La visita cade in
    “un momento delicato della vita politica israeliana e palestinese e
    sentire che come cristiani non siamo soli è importante. Non bisogna
    dimenticare Gerusalemme”.
      ______________________________
    
      [Fonte: AsiaNews 13 gennaio 2006]
        
        
    
 
        
        
              
         
    
 
    
Sguardi nuovi sul destino
    della capitale.                       
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    Preservare Gerusalemme città «una e trina»
    Elio Maraone, su Avvenire del 20.1.2006
    «Non bisogna svuotare Gerusalemme dei suoi
    abitanti arabi cristiani: occorre incoraggiarli a restare nella Città Santa
    perché essa mantenga la sua autenticità e identità». L’allarme e l’appello
    – legati al timore che l’impoverimento spirituale di Gerusalemme diventi
    irrimediabile – non sono nuovi, perché si ripetono dal 1948 (quando la
    città fu divisa in due) e si infittiscono dal 1967 (quando, con la guerra
    dei Sei Giorni, Israele si annesse anche la parte araba). Nuovo è invece il
    fatto che a lanciare allarme e appello sia re Abdallah II di Giordania,
    ossia il capo di un Paese moderato che sino al 1967 ha retto anche i Luoghi
    Santi, e che, soprattutto negli ultimi anni, ha caldeggiato una soluzione
    diplomatica del conflitto israelo-palestinese. Le parole di Abdallah II
    vanno riferite all’occasione (l’incontro del sovrano, martedì scorso,
    con 20 vescovi europei ed americani), ma nascono anche da un convincimento
    condiviso con esponenti dell’islam e dell’ebraismo, nonché, e in primo
    luogo, delle Chiese cristiane. Dal convincimento cioè che «la città della
    speranza e della pace» (per usare la vecchia e bella espressione ripresa
    martedì da Abdallah II), la città delle tre religioni monoteiste, va
    conservata nella sua identità insieme unitaria e trinitaria: è un’esigenza
    della verità e della giustizia, che sono fondamento della pace, e che
    dovrebbero esprimersi in tutta la regione, con conseguenze finalmente
    rasserenanti.
    
    Quest’ultimo punto, in sostanza, hanno ricordato ieri a Gerusalemme, e
    cioè dopo aver incontrato Abdallah II, i pastori del coordinamento delle
    Conferenze europee e nordamericane a favore della Chiesa della Terra Santa;
    e tutto ciò nel rispetto del diritto alla piena sicurezza di Israele, che
    è legato ai diritti dei palestinesi. Tra questi diritti, aggiungono i
    vescovi, figura quello «della terra e dell’acqua», che si associa a
    quello della libertà di movimento e di intrapresa: condizioni per quello
    sviluppo economico che potrebbe arrestare la massi ccia, sconfortante
    emigrazione che affligge non soltanto il popolo cristiano, e non soltanto
    Gerusalemme. Di qui, e ancora da parte dei vescovi, l’appello a tutti i
    fedeli perché sostengano la Chiesa di Terra Santa in ogni modo e a tutti i
    governi perché si adoperino per una giusta pace.
    
    Quella pace purtroppo tarda a venire, anche perché la «questione di
    Gerusalemme» continua a dividere. E se, per esempio, la città rimane per
    lo Stato di Israele capitale irrinunciabile e indivisibile, un’analoga
    rivendicazione viene avanzata dai palestinesi: con ciò respingendo tra l’altro,
    da entrambi i fronti, la saggia ipotesi di una garanzia internazionale per i
    Luoghi Santi, se non di una loro vera e propria internazionalizzazione. La
    situazione rimane difficile, aggravata (com’è stato ieri a Tel Aviv) dall’orribile
    ripresa dell’attività terroristica nell’imminenza delle elezioni
    palestinesi. Ma una soluzione va trovata e realizzata, se non si vuole che
    alla lunga, e tra l’altro, i Luoghi Santi diventino una sorta di grande
    museo, repertorio di vestigia antiche e non luogo di memoria ben viva e
    presente.
    
    Tuttavia, qualcosa sta cambiando. Ieri, per esempio, è stato pubblicato dal
    giornale Haaretz un sondaggio secondo il quale oltre la metà degli
    israeliani, in cambio di un accordo di pace con i palestinesi, rinuncerebbe
    alla parte araba, e pure a qualcosa di più, di Gerusalemme (esclusa
    naturalmente la zona del Muro del pianto, sopra il quale si erge la Spianata
    delle moschee). Non è molto, ma è un segno di tempi che stanno cambiando.
    Anche in meglio.
     
    
    
    Padre Pizzaballa: «Restare qui per dire
    no alla violenza»     
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    «È un momento sicuramente
    difficile per i cristiani in Terra santa. Oggi rappresentiamo soltanto
    l'1,7% della popolazione. Chi resta, però, è motivato, e continuare a
    vivere qui, da cristiani, è anche una vocazione. Non diventeremo come la
    Turchia e il Nord Africa, dove la presenza cristiana è scomparsa. Ne sono
    convinto: anche se le difficoltà sono molte, abbiamo gli anticorpi».
    Padre Pierbattista Pizzaballa è il giovane custode di Terra Santa.
    Bergamasco, quarant'anni, conosce molto bene le comunità cattoliche di
    lingua ebraica di Gerusalemme di cui ha avuto a lungo la cura pastorale.
    Grazie a lui, è stato fatto conoscere il cristianesimo anche all'interno
    dell'esercito israeliano.
    
    Padre Pizzaballa, un nuovo attentato suicida ieri a Tel Aviv. È il sesto
    dallo scorso anno, quando è stato dichiarato il cessate il fuoco con le
    autorità palestinesi. Cosa possono fare i cristiani di fronte a questa
    violenza?
    «L'unica testimonianza che noi cristiani possiamo dare in Terra Santa
    è il perdono. I nostri sforzi devono essere tutti rivolti a fare in modo
    che la logica della violenza non entri nelle nostre case».
    
    Abdallah II, re di Giordania, ha lanciato un appello a non svuotare
    Gerusalemme di cristiani. Teme l'esodo e la scomparsa della comunità
    cristiana in Terra santa?
    «La situazione è grave, ma non vedo un esodo che faccia temere la
    scomparsa dei cristiani. Attualmente siamo 175.000, un numero certamente
    ridotto, e con un basso tasso di natalità. Occorre aiutare economicamente e
    anche moralmente i cristiani di Terra Santa. I pellegrinaggi possono essere
    un sostegno in tale senso. E l'Italia ha un ruolo particolare, visto che il
    70% dei pellegrini nei Luoghi Santi sono italiani».
    
    Sono ripresi i pellegrinaggi, nonostante gli attentati?
    «Grazie a Dio sono ripresi. Non siamo ai livelli del milione di
    italiani registrati nel 2000, ma comunque sono diverse centinaia di
    migliaia. Da una parte questo costituisce un importante aiuto economico per
    l'economia locale, dall'altra rafforzano la testimonianza cristiana in Terra
    Santa. Sono una espressione di solidarietà verso i cristiani che vivono
    lì. Ma la cosa più importante ancora è che i pellegrini diventano un modo
    per far conoscere la realtà locale. E oggi c'è un bisogno estremo di
    parlare di quanto accade. È un modo anche di far pressione sulle autorità
    locali, perché s'imbocchi una strada diversa».
    
    Com'è oggi la situazione dei palestinesi?
    «È drammatica. La tensione è molto alta. C'è il muro che divide e
    impedisce ogni normale attività, anche economica. A volte c'è la
    sensazione di sentirsi abbandonati. Perché ormai la situazione si può
    risolvere soltanto con un forte impegno internazionale».
    
    Gli israeliani sostengono che il muro è richiesto da ragioni di
    sicurezza.
    «Il muro è una sconfitta: il simbolo della situazione di
    incomunicabilità fra ebrei e palestinesi. Trasmette una tristezza infinita.
    Non si può giustificare per alcun motivo. Io capisco il bisogno di
    sicurezza di Israele, ma non posso accettare che la risposta sia una resa
    come il muro. Non posso condividerlo: invece che accettarlo dobbiamo
    lavorare per abbatterlo».
    
    Da parte cristiana c'è grande interesse verso la cultura ebraica. In
    Israele che atteggiamento hanno gli ebrei verso i cristiani? C'è interesse
    a conoscere di più la cultura cristiana e a dialogare?
    «La società israeliana è curiosissima nei confronti del cristianesimo
    ed è pronta al confronto e al dialogo con la Chiesa. Accade piuttosto che
    siamo noi cristiani non abituati a comunicare con gli ebrei. Per certi versi
    è più facile essere Chiesa in Palestina, dove hanno bisogno di tutto, di
    scuole, di ospedali. E noi siamo in grado di darglieli. Più difficile è in
    Israele dove non hanno bisogno delle nostre scuole e dei nostri ospedali: ne
    hanno loro di migliori. Il confronto avviene sul piano culturale, nelle
    università, nell'arte. E in questo non siamo molto pronti. Occorre
    attrezzarci per un confronto culturale alto».
    
    Padre Pizzaballa, in Italia avete rilanciato la nuova sede delle Edizioni
    Terrasanta a Milano e avete rinnovato profondamente la rivista Terrasanta.
    Che cosa vi proponete?
    «Il nostro obiettivo è quello di potenziare l'informazione sulla Terra
    Santa. Spesso se ne parla, ma solo per riferire di violenze e attentati.
    Occorre invece fare informazione sugli aspetti positivi e ce ne sono e sono
    molti. La Terra Santa è un patrimonio immenso di fede e di fedi. Vogliamo
    far conoscere che cosa fa la Chiesa. I cristiani non hanno solo la custodia
    dei Luoghi Santi. Vivono in questa terra martoriata, condividono il cammino
    con gli uni e con gli altri. Anche se siamo una minoranza, come cristiani
    vogliamo essere presenti e propositivi dentro la società israeliana e
    palestinese».