rotolo.jpg (4733 byte) Le Scritture
e l’epoca di Gesù - 5.3

Gesù e il Tempio (Gv 7,2-8,1s.12)

In un testo precedente, analizzando Gv 2, si è parlato del legame che Gesù manifesta tra il tempio di Gerusalemme e il suo corpo (cf. Gv 2,19-21). Si è detto anche che tale discorso può essere compreso adeguatamente nel quadro delle profezie veterotestamentarie. Con il presente articolo si vuole trattare ancora del tema Tempio-Cristo, dal momento che nel vangelo giovanneo esso è come un filo rosso che lo attraversa.

Stavolta, si considererà Gv 7,2-8,1s.12. La cornice del nuovo episodio che Giovanni narra è quello della festa delle Capanne (7,2), in ebraico Sukkot. Essa serve per inquadrare l’insegnamento che Gesù impartisce alla folla e le reazioni che suscita in essa: si tratta del riconoscimento o meno del mistero della persona di Cristo. Correntemente si legge il brano evangelico senza soffermarsi troppo sulla cornice liturgica, attenti soprattutto alla superficie del racconto. In realtà, proprio la festa ebraica di Sukkot offre molti spunti per capire meglio il brano.

La festa delle Capanne, che nel calendario ebraico ricorda il soggiorno del popolo eletto nel deserto al tempo dell’Esodo (vedi Lev 23,42-43), cade nel settimo mese dell’anno, cioè in autunno (il calendario ebraico, fondato sui cicli lunari, è diverso dal nostro che si fonda sul ciclo solare). Il settimo mese è forse il più antico, ma senz’altro il più importante e il più ricco di festività liturgiche del calendario ebraico. Esso si apre con la festa di Capodanno, il Rosh-ha-Shanà (Lev 23,23-25), e si continua con quella del Kippur (la festa dell’Espiazione) (Lev 23,26-32) e quella di Sukkot (Lev 23, 33-36.39-43). La relazione tra queste scadenze liturgiche è molto stretta, ma lo era soprattutto nell’antichità, quando si cominciava il ciclo delle feste autunnali con il Capodanno, cioè con la festa che celebra la creazione della nuova realtà: nuovo anno, Alleanza e istituzioni rinnovate, nuova creazione. Il Capodanno era la festa che in qualche modo dava l’avvio e orientava il resto delle ricorrenze. Tra queste vi era anche la celebrazione della dedicazione del Tempio, in base a quanto ci dice 1 Re 8,2 appunto quando il re Salomone, dopo la costruzione del Tempio di Gerusalemme, ha voluto celebrare tale festa: “Tutto Israele si radunò presso il re Salomone per la festa, nel mese di Etanim, cioè il settimo mese”. La dedicazione contemplava la presa di possesso del santuario da parte di Dio. È quanto vuole esprimere il racconto quando dice più avanti: “Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nuvola riempì il tempio e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio. Allora Salomone disse: «Il Signore ha deciso di abitare sulla nube. / Io ti ho costruito una casa potente, / un luogo per la tua dimora perenne»” (1 Re 8, 10-13). Il farsi presente di Dio nel suo santuario viene descritto come l’entrata della gloria del Signore nel Tempio.

Un riferimento più ampio e significativo alla relazione tra il Capodanno e il Tempio si ha nel testo che in altra occasione abbiamo citato, il libro del profeta Ezechiele. Nel giorno di Capodanno del settimo mese (il testo non nomina il mese, ma lo si arguisce), il profeta sacerdote Ezechiele riceve la grande visione del nuovo Tempio (Ez 40,1). La descrizione dettagliata di esso nei cc. 40-48 viene denominata da Dio stesso come la Torà del Tempio (Ez 43,12), cioè il nuovo insegnamento o la nuova Legge, che, basata sul Tempio e significata da esso, avrebbe ridato una rinnovata identità al popolo eletto d’Israele e la possibilità di relazionarsi a Dio in una nuova alleanza (cf. Ez 36, 26-27). La vivificazione o dedicazione del nuovo santuario viene descritta nel testo biblico come ritorno di Dio o della gloria del Signore in quella dimora a Gerusalemme (Ez 43,1-4), che precedentemente egli aveva abbandonato per i peccati d’Israele (vedi Ez 8-11), allontanandosi verso oriente e fermandosi sul Monte degli Ulivi (Ez 11,23). Quando, nella stessa visione finale di Ezechiele, Dio si è insediato nel Tempio con la sua gloria, il Tempio diventa sorgente d’acqua vivificante, che da rivolo che usciva dalla sua soglia si trasforma in un grande fiume in piena, di cui beneficia tutta la terra d’Israele (Ez 47,1-12).

I riferimenti dell’Antico Testamento appena citati, vengono immediatamente evocati proprio dal testo del vangelo giovanneo che c’interessa.

Per comprendere appieno il testo, bisogna ricordare che per Giovanni Gesù è il “Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, mostrando la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre “ (cf. Gv 1,14). In altri termini, quando l’evangelista parla di Gesù, non ne riferisce come se si trattasse di un soggetto di cronaca, ma lo fa incedere in tutto il significato teologico della sua persona, percepibile soltanto con gli occhi della fede. Tenendo presente ciò e leggendo il racconto del c. 7 alla luce dei riferimenti veterotestamentari suddetti, Gesù sembra muoversi sulla scena come la gloria di Dio che va e viene dal Tempio, dispensando dottrina (Torà).

“Quando si era ormai alla metà della festa (delle Capanne), Gesù saliva al tempio e vi insegnava. I Giudei ne erano stupiti e dicevano: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?». Gesù rispose: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato»” (Gv 7, 14-16). La dottrina o Torà di Gesù, basata sulle Scritture, ha origine da Dio. Una conferma che qui si parli di Torà si ha più avanti, al v. 19, nel riferimento che Gesù fa alla Legge di Mosè. Gesù, nella sua gloria di Unigenito, quindi, dimora nel tempio in qualità di datore di Torà. Il suo insegnamento dura vari giorni, inframmezzato da discussioni sulla sua origine e sul significato della sua persona (7,25-30.40-52). È lo scontro tra la luce della fede e le tenebre dell’incredulità. Terminata questa prima fase “tornarono ciascuno a casa sua. Gesù si avviò allora verso il Monte degli Ulivi (vedi Ez 11,23 e Zacc 14,4). Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava….Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»” (7,53-8,1-2.12). Il rientro di Gesù nel tempio con la sua gloria divina è l’ingresso della luce divina, riecheggiante il testo di Ezechiele : “Mi condusse allora verso la porta che guarda a oriente ed ecco che la gloria del Dio d’Israele giungeva dalla via orientale (cioè dal monte degli Ulivi) e il suo rumore era come il rumore delle grandi acque e la terra risplendeva della sua gloria…La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda ad oriente….Sentii che qualcuno mi parlava e mi diceva: «Figlio dell’uomo, questo è il luogo del mio trono…Descrivi questo tempio alla casa d’Israele…Questa è la legge (Torà) del tempio” (43,1-2.4.6-7.10-12). Rispetto a questo testo scritturistico, Giovanni sembra voler dire che Gesù è la gloria di Dio e l’incarnazione della sua Parola, quale vuol essere la Legge in quanto volontà di Dio. E come tra Legge e Tempio vi era coincidenza nell’antica profezia, così ora in Gesù si concentrano la luce della dottrina e la figura del Tempio, rappresentato dal suo corpo (vedi Gv 2,21).

Quanto abbiamo abbozzato in questo breve articolo potrebbe essere sviluppato ulteriormente, ma basti l’idea che è stata offerta ancora una volta: il carattere ebraico della rivelazione cristiana.

Roma, 7 febbraio 2003

(indice) (continua)


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