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                    Dell' ultimo periodo degli anni oscuri di Gesù, dopo la 
                  visita al tempio, praticamente non si sa niente, ed è molto 
                  difficile formulare delle congetture, come è stato fatto sino 
                  ad ora. Per ogni essere, anche se predestinato, l'infanzia e 
                  l'adolescenza sono in gran parte determinate da dati molto 
                  facilmente definibili: ambiente sociale e storico. I primi 
                  anni di Gesù potevano essere parzialmente descritti in 
                  funzione di questi elementi. 
                  
 Ma, 
                  dopo questo episodio decisivo, costituito dalla sua prima 
                  visita al tempio, tutto è diverso. Ormai, lo storico esita e 
                  il miracolo fa la sua apparizione. A questo punto, nel fondo 
                  di una coscienza diventata adulta e votata a Dio, avviene uno 
                  dei drammi più straordinari e maggiormente pieni di 
                  conseguenze che abbia conosciuto la storia del 
                  mondo. 
                  Indubbiamente è normale che persista questa oscurità e 
                  che un tale mistero non si lasci analizzare in tutti i 
                  particolari. Proudhon, che fu, tra gli atei, uno dei più 
                  attratti dalla figura di Gesù [1], mette in ridicolo quelli 
                  che vogliono ridurre gli episodi della sua vita alle 
                  dimensioni abituali della nostra vita quotidiana. Esiste 
                  gente, dice press'a poco, che vorrebbe sapere se, durante 
                  l'ultima Cena, si usavano le forchette. 
                  Non 
                  seguiremo il loro esempio. Per l'ultimo periodo degli anni 
                  oscuri, ciò che importa sicuramente ben più che i particolari 
                  dei fatti, rimasti nell'ombra, è il significato e il risultato 
                  dell' itinerario spirituale, in germe prima della visita al 
                  tempio, stimolato da questa visita, e che ha termine più tardi. Le due 
                  precedenti parti di questo libro ci hanno permesso di 
                  precisare alcuni dati iniziali dell'evoluzione di Gesù. 
                  L'ultima concerne il compimento del suo destino, partendo dai 
                  fattori storici e spirituali che costituivano la formazione di 
                  un giovane ebreo del suo tempo. 
                  Tutto 
                  ciò che possiamo, alla peggio, formulare come ipotesi precisa 
                  sulla fine degli anni oscuri, concerne fatti di due specie, 
                  d'altronde molto controversi. 
                  Il 
                  primo ha rapporti con i manoscritti del Mar Morto, che furono 
                  recentemente scoperti. Ne risulta che, all'epoca in cui viveva 
                  Gesù, comunità ebraiche, d'ispirazione essena, se non 
                  dipendenti da questa setta, conducevano una vita 
                  monacale.  
                  Sensibili alla crisi religiosa che turbava allora le 
                  coscienze, esse annunciavano l'evento di una "Nuova Alleanza"; 
                  la loro regola comportava probabilmente dei precetti che il 
                  cristianesimo riprenderà in seguito per i propri sacerdoti e 
                  per i propri conventi: povertà, castità, battesimo, pasto in 
                  comune, rinuncia dei sacrifici nel tempio, culto più intimo, 
                  disprezzo delle ricchezze… tali erano i precetti formulati dal 
                  "Signore di Giustizia", in cui si è tentati talvolta di 
                  scorgere una prima rappresentazione del Messia, un 
                  predecessore di Gesù Cristo.  
                  Tra 
                  questi precursori della vita monacale cristiana, alcuni 
                  vivevano interamente in comunità chiuse e praticavano 
                  l'ascetismo. Altri restavano nella vita secolare, potevano 
                  sposarsi, costituivano una specie di Ordine Terziario, di meno 
                  stretta osservanza, ma soggetti alle stesse regole morali, e 
                  condividevano le stesse speranze di una alleanza rinnovata. 
                  Gesù conobbe direttamente i monasteri del Mar Morto? Oppure ne 
                  apprese l'insegnamento, alla fine degli anni oscuri, da San 
                  Giovanni Battista? La decisione spetta agli 
                  esegeti.  
                  Sembra 
                  in ogni caso certo che la setta di Qumran stabilisce 
                  una transizione tra il giudaismo di stretta osservanza che il 
                  fanciullo Gesù aveva conosciuto a Nazareth e una fazione del 
                  giudaismo in cammino verso il cristianesimo o una causa o una 
                  conseguenza d'una evoluzione religiosa che sfociò nei Vangeli? 
                  In ogni caso, essa lo affianca e ne costituisce un 
                  sintomo. 
                  Dal 
                  punto di vista strettamente ebraico, l' esistenza di queste 
                  comunità monastiche riproponeva uno dei problemi che Israele 
                  continuamente deve porsi e discutere. 
                  Religione del Dio vivente, religione inserita nella 
                  storia, il giudaismo è contrario a ogni ascetismo. Bisogna, 
                  dichiara il Talmud [2] in un passo molto famoso, 
                  seguire " le strade della terra " : non bisogna isolarsi dalla 
                  vita sociale. Solo attraverso le vie dell'immanenza, mediante 
                  la pratica costante di un'esistenza normale, si può esprimere 
                  nel miglior modo possibile la Legge promulgata da Dio. Il 
                  rabbino, come abbiamo visto, non è un prete di professione; la 
                  sinagoga non è un tempio; le benedizioni sono riferite a tutti 
                  gli atti quotidiani, accompagnandoli con un contesto religioso 
                  senza trasformare la loro natura né isolarli dal 
                  mondo. 
                  Tutt'al 
                  più, si può discutere per sapere se, in alcuni momenti di 
                  grande crisi religiosa, di estremo pericolo per Israele, non 
                  convenga che certuni si tengano lontani da una società 
                  minacciata o pervertita, e apportino così al loro tempo quel 
                  supplemento d'anima necessario per compensare l'avvilimento 
                  della fede, supplemento " d'anima che il Talmud auspica 
                  e che, come noi ben sappiamo, Bergson ha raccolto, a sua 
                  insaputa, dalla eredità ebraica.  
                  Il meno 
                  che si possa dire delle comunità del Mar Morto è che esse 
                  probabilmente provocarono una costante disputa d'Israele, 
                  della quale è certo che Gesù era stato informato. 
                  Il 
                  secondo episodio che possiamo ricostruire con una certa 
                  verosimiglianza per la fine degli anni oscuri, è la morte del 
                  capo della famiglia in cui nacque Gesù, la morte del suo padre 
                  putativo, Giuseppe. 
                  Sembra 
                  probabile che il suo decesso avvenga in questo periodo e che 
                  Gesù abbia pregato davanti alla tomba di famiglia. 
                  I 
                  Vangeli apocrifi danno il testo di una preghiera che non 
                  sembra corrispondere a ciò che si conosce della liturgia 
                  ebraica [3], contemporanea di Gesù, e 
                  che probabilmente è stata redatta molto dopo la sua 
                  epoca. 
                  In 
                  cambio, per ritrovare le parole che Gesù probabilmente 
                  pronunciò in occasione di questo lutto, si può provare la 
                  tentazione di ricordare la preghiera che, ancora oggi è 
                  recitata dagli orfani e che data dall'epoca del secondo 
                  tempio. 
                   Questa preghiera, detta il Qaddish, è 
                  redatta in aramaico letterario, cioè in una lingua più vicina 
                  a quella parlata da Gesù di quanto non lo fosse l'ebraico 
                  biblico. Le intonazioni che essa racchiude possono così in una 
                  certa misura evocare l'accento stesso di Gesù, nella sua 
                  parlata quotidiana o nella sua predicazione durante gli 
                  offici. D'altra parte, è una preghiera fondamentale del 
                  giudaismo, una di quelle che, lungo i secoli, non ha cessato 
                  di serpeggiare attraverso tutte le manifestazioni della vita 
                  religiosa ebraica. 
  All’inizio aveva una funzione 
                  puramente scolastica, la si recitava alla fine delle 
                  conferenze culturali nelle scuole. Da qui passò nel rituale, 
                  dove sottolineava i passaggi di una parte dell'officio a 
                  un'altra: è dunque essa che, da duemila anni, a più riprese 
                  durante i servizi divini i fedeli ascoltano ritti in piedi, 
                  come un tema permanente d'adorazione in mezzo alle diversità 
                  del culto. 
                   Più tardi essa diventa la preghiera 
                  d'intercessione che il figlio dice per suo padre al momento 
                  dell'ultimo addio. È probabile che al funerale di Giuseppe 
                  quest'ultima applicazione del Qaddish non fosse ancora 
                  in vigore. Ma è quasi certo che durante le cerimonie che 
                  seguirono il suo lutto, Gesù la sentì pronunciare o la 
                  pronunciò egli stesso, se non altro durante gli offici della 
                  sinagoga dove egli rievocava il ricordo del defunto e ne 
                  occupava il posto vuoto. 
                   Ecco il testo del Qaddish nella traduzione 
                  di Edmondo Fleg :   
                   
                    "Sia innalzato e santificato il nome del Signore, 
                    nel mondo da lui creato secondo la sua volontà. Faccia 
                    regnare il suo regno nella vostra vita e nei vostri giorni, 
                    e nella vita di tutta la stirpe d'Israele, ora e sempre, E 
                    dite: Amen. Benedetto il nome del Signore, sulla terra e 
                    nell'eternità. Sia benedetto, lodato, onorato, esaltato, 
                    magnificato e glorificato il Nome del Santo, sia egli 
                    benedetto, oltre ogni benedizione e ogni canto, oltre ogni 
                    lode e ogni consolazione che si pronunciano in questo mondo, 
                    E dite: Amen, Siano ricevute le preghiere e le suppliche di 
                    tutto il popolo d'lsraele, davanti al loro padre che è nei 
                    cieli, E dite: Amen, Benedetto il nome di Dio, ora e sempre 
                    - una grande pace del cielo e la vita sia su noi, e su tutto 
                    Israele, e dite: Amen. Ogni aiuto mi viene da Dio che fece 
                    la terra e i cieli, Colui che fa la pace nei cieli, su di 
                    noi faccia la pace e su tutto Israele, E dite: 
                    Amen."  
                  La 
                  traduzione, fedele al movimento della lingua aramaica, non può 
                  rendere l'accento del vocabolario iniziale, Si permetta di 
                  trascriverne qui il primo versetto, se non altro per 
                  rievocare, sebbene maldestramente, alcuni di quegli accenti 
                  che furono familiari a Gesù durante gli anni 
                  oscuri: 
                  
                    "Itgaddal veitqaddash sheme rabba ve o/me divera 
                    qire'ute, veyamlik mal'qute be hayye chon uve hayye de 
                    qolbeth Israel ha ayala uvizmon qariw weimru. 
                    Amen."  
                  Il 
                  Qaddish, così d'uso frequente ai tempi di Gesù, come lo 
                  è ancora oggi, non presenta soltanto un interesse 
                  retrospettivo. Si prolunga in una delle preghiere fondamentali 
                  della Chiesa, il Pater, cui la tradizione ebraica ha 
                  fornito numerosi temi ed espressioni, Questa preghiera, che 
                  risale ai primi tempi del cristianesimo, illustra così il 
                  passaggio da una religione all'altra, quale si è maturato 
                  durante gli anni oscuri. È uno dei soli punti di riferimento 
                  che sussistano per l'itinerario spirituale di Gesù a partire 
                  dalla sua visita al tempio. 
                  Si può 
                  dire, senza esagerazione, che il Pater è una preghiera 
                  ebraica [4], e si può fornirne 
                  parecchie prove, mediante l'analisi dei testi. Da una parte, 
                  l'uso del plurale "Padre nostro" è abituale nella preghiera 
                  ebraica che si formula generalmente in nome dell'assemblea dei 
                  fedeli; ed è per questo motivo che, durante l'officio di 
                  Kippur, ogni ebreo sgrana la litania di tutti i peccati 
                  possibili che ha potuto compiere durante l'anno la comunità 
                  d'Israele, anche se egli personalmente non li ha commessi. Il 
                  Talmud spiega quest'abitudine di preghiera 
                  collettiva: 
                  
                    " 
                    Abbai dice: 'L 'uomo deve associare nella sua preghiera 
                    tutta la comunità, e dirà per esempio: sia fatta la tua 
                    volontà, Signore nostro Dio, di dirigere noi tutti 
                    verso la pace' ". (Berakoth, 30 
                  a)  
                  In 
                  questa preghiera collettiva del Pater si trovano molte 
                  espressioni tratte direttamente dal rituale ebraico. 
                  Nonostante l'aridità di tale elenco, conviene citarle in 
                  questa sede: sono d' altra parte impregnate di significato 
                  religioso e rievocano per molti spiriti tradizioni 
                  commoventi. 
                  "Padre 
                  nostro che sei nei cieli" è l'ebraico " Abinu cheba 
                  shamaim", la cui traduzione abbiamo già visto nel 
                  Qaddish 
                  "Sia 
                  santificato il nome tuo" è la formula quasi testuale che apre 
                  il Qaddish. 
                  "Venga 
                  il regno tuo... sia fatta la tua volontà..." Continuazione 
                  della preghiera Alenu, che contrassegna la speranza 
                  nell'avvento dei tempi messianici e l'universalismo ebraico; 
                  si può leggere: " Anche noi speriamo in te, Signore, che ci 
                  mostri in breve la gloria della tua potenza... Tutti 
                  accetteranno il giogo del tuo regno; su di loro 
                  regnerai per sempre".  
                  "Dacci 
                  oggi il nostro pane quotidiano..." Nelle benedizioni che 
                  accompagnano i pasti e durante i quali il capofamiglia divide 
                  e benedice il pane, troviamo la seguente espressione: "Padre 
                  nostro, Nostro Dio, dacci il nostro nutrimento e provvedi alle 
                  nostre necessità ". Il tema del pane quotidiano lo troviamo 
                  anche in altri testi della Torah o del Talmud ( 
                  Esodo, XVI, 15-19), in cui si parla della manna (Talmud, 
                  Sotah 48 b). 
                  "Rimettici i nostri peccati." Variazione della sesta 
                  benedizione del Shemone-Ezre: "Perdonaci, Padre nostro, 
                  perché abbiamo peccato contro di te; cancella e togli le 
                  nostre iniquità davanti i tuoi occhi; infatti grande è la tua 
                  misericordia. Tu sia benedetto, Signore, che hai 
                  abbondantemente perdonato." 
                  "Non 
                  indurci in tentazione, ma liberaci dal male". Ricordo di 
                  un'idea espressa di frequente nei Salmi e di cui il 
                  Talmud fornisce diversi commenti. 
                  Così 
                  questa preghiera fondamentale del cristianesimo è, in diversi 
                  suoi passi, nata direttamente da preghiere ebraiche 
                  fondamentali, che Gesù pronunciò durante gli anni oscuri. Non 
                  è il solo caso. Il Magnificat deriva quasi interamente 
                  dai testi dei Salmi e dei Profeti. E quando si 
                  rilegge, secondo i metodi attuali della critica letteraria, il 
                  rituale delle feste ebraiche, si ritrovano in diversi punti i 
                  temi che la liturgia cristiana o i Vangeli 
                  riprenderanno. 
                  Quanto 
                  è vero per il rituale, lo è anche per il dogma, che dispensano 
                  le due religioni. Gesù stesso, nei Vangeli sinottici, confessa 
                  senza circonlocuzioni il suo legame con la fede giudaica. Lo 
                  fa in Marco e in Matteo, lo fa anche in Luca, 
                  in termini quasi equivalenti 
                  " 
                  Allora, avvicinatosi uno degli scribi che aveva udito la loro 
                  discussione, visto che aveva ben risposto, gli domandò: 'Qual 
                  è il primo di tutti i comandamenti?'. Gesù rispose: 'Il primo 
                  è: Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è 1'unico Signore, 
                  e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con 
                  tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue 
                  forze. Il secondo è questo: Ama il tuo prossimo come te 
                  stesso. Non c'è altro comandamento più grande di 
                  questo." 
                  Questa 
                  risposta rivela una duplice radice nella tradizione ebraica: 
                  da una parte, essa cita due testi fondamentali del giudaismo, 
                  lo Shema lsrael, preghiera base del monoteismo, e la 
                  Legge d'amore, fondamento della vita morale; dall'altra, 
                  ripete in maniera quasi eguale un discorso di Hillel, quando 
                  questo dottore, influente all'epoca di Gesù, faceva capire a 
                  un pagano l'essenziale della Torah. Gesù, in questo 
                  versetto, sottolinea dunque la sua fedeltà alla Legge e il suo 
                  legame con il pensiero rabbinico. 
                  Non è 
                  il solo esempio. Se ne potrebbero dare innumerevoli. In un 
                  libro pubblicato nel 1955 dalle Edizioni Vaticane, il 
                  Reverendo Padre Bonsirven ha fatto la lista dei "testi 
                  rabbinici dei due primi secoli cristiani per servire alla 
                  comprensione del Nuovo Testamento". Ne cita migliaia, tratti 
                  dalle diverse raccolte di commenti ebraici, come il Pirqe 
                  Aboth, i midrashim [5] o i trattati del 
                  Talmud. Tutti questi frammenti certamente non erano 
                  ancora redatti all'epoca in cui viveva Gesù; ma, tramandati 
                  per tradizione orale, costituivano la base dell' insegnamento 
                  dei dottori. 
                  Senza 
                  eguagliare la vastità del lavoro fatto da Padre Bonsirven, 
                  alcuni scrittori israeliti, sin dall'inizio del XIX secolo, 
                  avevano cercato le fonti ebraiche dei principali passi dei 
                  Vangeli. Ecco, secondo uno di questi scrittori, il rabbino 
                  Elia Soloweyczyk, il risultato delle ricerche per il 
                  Discorso della 
                  Montagna. 
                  Ognuna 
                  delle benedizioni con cui inizia questa predica essenziale di 
                  Gesù ha dei riferimenti talmudici : 
                  "Beati 
                  i poveri in ispirito..." assomiglia ai precetti di Rabbi 
                  Levitas nel trattato Aboth (v, 4) sui benefici 
                  dell'umiltà, e a quelli di Rabbi Akiba nel trattato Ketub 
                  sul "giusto mezzo" desiderabile. 
                  "Beati 
                  gli afflitti" ripete il pensiero del Talmud ( 
                  Erubin, 41 b) secondo cui "il dolore riscatta le 
                  anime". 
                  "Beati 
                  i miti..." ricorda quello del Talmud (Sukka 29 b ), " 
                  gli umili possiedono la terra e godono una pace inalterabile" 
                  . 
                  "Beati 
                  quelli che hanno fame e sete di giustizia " riprende ciò che 
                  dice il Talmud (Baba Bathra, 10 a) a proposito della 
                  giustizia e della carità. 
                  "Beati 
                  i misericordiosi", cfr. Talmud (Shabbath, 10 b). 
                  "Chiunque avrà pietà degli altri, Dio avrà pietà di 
                  lui." 
                  "Beati 
                  i pacificatori", cfr. Talmud (Shabbath, 151 b) dove 
                  invoca il "Dio di pace". 
                  "Beati 
                  quelli che sono perseguitati per causa della giustizia", cfr. 
                  Talmud (E. Kamma, 93 a). "Meglio essere perseguitato 
                  che persecutore." 
                  "Beati 
                  sarete voi quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno per 
                  cagione mia...", cfr. Talmud (Shabbath, 118 b) che 
                  glorifica "quelli che si lasciano oltraggiare, ma non 
                  oltraggiano nessuno". 
                  Dopo le 
                  benedizioni il testo del Discorso della Montagna resta 
                  egualmente nutrito di riferimenti talmudici : 
                  "Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra 
                  ricompensa nei cieli", cfr. Talmud (Shabbath, 118 b): 
                  "È bella e io l'invidio, la parte di quelli che sono 
                  sospettati e non hanno meritato il sospetto". 
                  "Voi 
                  siete il sale della terra". Il sale, termine di paragone molto 
                  usato e molto importante per gli ebrei, è l'immagine 
                  dell'incorruttibilità e simboleggia l'alleanza con Israele: un 
                  patto indissolubile si chiama in ebraico "un patto di sale". I 
                  Numeri (XVIII, 19) consacrano questa espressione: un 
                  patto di sale, sempiterno davanti al Signore, per te e per i 
                  tuoi figli". Da parte sua, il Talmud, nel suo trattato 
                  Ketuboth, dà un commento pratico della stessa idea: " 
                  Il tuo cibo ha bisogno di sale per essere conservato. Anche il 
                  denaro ha bisogno di essere salato, se vuoi conservarlo. Con 
                  che cosa deve essere salato il denaro ? Con la carità 
                  " 
                  La 
                  densità e il numero delle formule talmudiche in un testo così 
                  importante dimostrano quanto durante gli anni oscuri Gesù si 
                  era impregnato del commento tradizionale della 
                  Legge. 
                  Non 
                  solo nell' Antico Testamento bisogna cercare le fonti del modo 
                  d'esprimersi dei Vangeli, ma anche nel Talmud. Questi 
                  due rami di uno stesso tronco, Talmud e Vangeli, 
                  presentano alcune affinità. Affinità formali, come quelle di 
                  cui abbiamo citato alcuni esempi. Ma affinità ben più 
                  profonde, e nello stesso tempo anche divergenze. 
                  L'essenziale della morale è comune a queste due 
                  derivazioni del giudaismo biblico: e questo indubbiamente è 
                  importante. Nel suo libro Morale juive et morale 
                  chretienne, il gran rabbino Elia Benamozegh dimostra che 
                  la legge cristiana segna la continuazione di tutta la 
                  tradizione ebraica. Egli cita Mosè, per cui "tutte le vie del 
                  Signore sono carità e verità." Cita il profeta Michea: "Che 
                  cosa ti chiede Dio? Praticare la giustizia, amare la carità e 
                  mettere ogni cura nel seguire il tuo Dio". Egli cita uno degli 
                  iniziatori della tradizione rabbinica, di parecchi secoli 
                  anteriore a Gesù, Simeone il Giusto, per il quale la società 
                  poggia su tre colonne : scienza religiosa, culto, carità. 
                  Altri talmudisti più recenti, come ad esempio Hillel e Rabbi 
                  Akiba, che noi conosciamo, esprimono lo stesso precetto: " Ama 
                  il prossimo tuo come te stesso" dice l'ultimo "è il grande 
                  principio della Legge". 
                  La 
                  virtù cristiana dell'umiltà è anche essa di origine ebraica, e 
                  più particolarmente farisea. Testimone questa citazione del 
                  Talmud dove appare un sentimento che sarà ripreso dal 
                  Vangelo: "Sii oscuro. Chiunque si umilia sarà innalzato e 
                  chiunque si innalza sarà umiliato. Chiunque si fa piccolo in 
                  questa vita per la Legge, sarà grande nella vita futura 
                  ". 
                  Il 
                  contenuto è dunque in maggior parte lo stesso : ma ciò che 
                  sembra ancor più rivelatore, ciò che permette forse 
                  maggiormente di far luce sul mistero degli anni oscuri, è la 
                  constatazione che il sistema di ragionamento midrashico e 
                  talmudico si perpetua in diversi passi dei Vangeli. Così la 
                  tradizione ebraica non è per Gesù solo una fonte di formule o 
                  di precetti ma anche una scuola di pensiero. 
                  Vi 
                  trova una dialettica che indubbiamente egli trasformerà, ma 
                  che all'origine si rivela nei suoi discorsi. 
                  Nel 
                  Midrash e nel Talmud il metodo di ragionamento 
                  presenta due caratteri: da un lato, lo sappiamo, per 
                  comprendere un versetto della Scrittura, per trarne le 
                  conclusioni pratiche o poetiche, lo si confronta con la 
                  citazione di altri versetti, tolti da raccolte differenti 
                  dalla sua. Così a proposito di un passo dell'Esodo, si 
                  citerà un versetto dei Salmi o una frase dei Profeti 
                  o un paragrafo di Giobbe. Il commento ebraico si muove 
                  all'interno della parola ispirata, non cerca conferma né 
                  riferimenti estranei.  
                  Quando, 
                  nei Vangeli; si tratta di dimostrare che Gesù è il Messia 
                  annunciato dalle Scritture, lo si farà citando i testi 
                  dell'Antico Testamento, trovando nelle loro pagine una nuova 
                  applicazione adattata alle circostanze. Questo modo di 
                  ragionare è frequente nei Vangeli : diamone un solo 
                  esempio. 
                  Il 
                  capitolo 53 di Isaia descrive, senza dire chi è, il 
                  "Servitore di Yahweh": 
                  
                    " è 
                    stato piagato per le nostre iniquità. è stato trafitto 
                    per i nostri peccati. Piombò sopra di lui il castigo che 
                    ci ridona la pace,  per le sue piaghe siamo stati 
                    risanati."  
                  Di chi 
                  si parla in questo testo ? E una domanda che la acutezza dei 
                  talmudisti si pone. Per il Talmud di Babilonia si 
                  tratterebbe di Mosè; per quello di Gerusalemme di Rabbi 
                  Akiba. 
                  Quando 
                  San Marco, nel suo Vangelo (XV, 28) afferma che il profeta 
                  annunciava in questi versetti la venuta di Gesù Cristo, egli 
                  porta una terza risposta a una discussione rabbinica. Il suo 
                  ragionamento è eguale a quello dei suoi predecessori: 
                  semplicemente ne trae delle conclusioni nuove. Bisogna provare 
                  che la Passione di Gesù era già prevista dalla tradizione 
                  profetica. Quella che l'evangelista chiede al sistema 
                  talmudico è una legittimazione del pensiero 
                  cristiano. 
                  D'altra 
                  parte, il sistema talmudico, come ben sappiamo, implica un uso 
                  minuzioso e preciso della logica formale per far scaturire un 
                  significato nuovo da posizioni note, per trarre delle 
                  conclusioni, spesso sottili e ingegnose, da premesse 
                  indiscusse. Capita a volte che nei Vangeli riemerga questa 
                  destrezza dello spirito e che susciti ragionamenti che 
                  parimenti potremmo chiamare talmudici. 
                  Nel 
                  Vangelo secondo San Matteo, nell'episodio 
                  dell'indemoniato, Gesù risponde ai farisei adottando la loro 
                  maniera di ragionare: "Ma i farisei che udirono, dissero: 
                  'Costui non caccia i demoni se non per virtù di Beelzebul, 
                  principe dei demoni'. Ora, Gesù, conosciuti i loro pensieri, 
                  disse: 'Ogni regno, diviso contro se stesso, sarà devastato; e 
                  ogni città o casa, divisa contro se stessa, non potrà reggere. 
                  Se dunque Satana scaccia Satana, egli è in discordia con se 
                  stesso; come dunque potrà durare il suo regno? E se io caccio 
                  i demoni per virtù di Beelzebul, per opera di chi li cacciano 
                  i vostri adepti ? Per questo essi saranno i vostri giudici. Ma 
                  se in virtù dello Spirito Santo io caccio i demoni, è dunque 
                  giunto a voi il regno di Dio' ". 
                  Se i 
                  Farisei non apprezzarono la conclusione, tuttavia non 
                  dovettero trovarsi spaesati di fronte al modo di 
                  ragionare.. 
                  Sarebbe 
                  possibile, con uno studio minuzioso dei Vangeli, elencare 
                  tutti i punti in cui affiorano influenze rabbiniche, sia nella 
                  forma che nella sostanza, sia nella 
                  dialettica.  
                  Lungo 
                  tutti i Vangeli, Gesù dunque si esprime in stile rabbinico, 
                  usa la parabola (machal), usa il commento (deracha), 
                  per esporre idee ebraiche. E quando, dopo gli anni oscuri, 
                  ritornerà a parlare nella sinagoga di Nazareth, lo stupore da 
                  lui provocato non deriverà né dai suoi riferimenti ai libri 
                  sacri né dal linguaggio con cui li esporrà e che non doveva 
                  meravigliare i frequentatori delle funzioni. La sua origine 
                  sarà diversa. 
                  Non 
                  bisognerebbe però lasciare il minimo dubbio, neppure per un 
                  istante, sulla diversità che rivelerebbe la predicazione di 
                  Cristo, se confrontata con la tradizione rabbinica. Arrivati a 
                  questo punto, in questo libro che si pone esclusivamente tra 
                  due periodi di mistero e che non può quindi rievocare né l'uno 
                  né l'altro, non possiamo far altro, per una volta ancora, che 
                  delineare questa differenza senza esaminarne le cause, 
                  naturali o soprannaturali. 
                  La 
                  ragione prima per cui Gesù doveva stupire i frequentatori 
                  delle discussioni talmudiche risulta dal modo in cui si 
                  rivolgeva ai fedeli.  
                  I 
                  Vangeli, ogni qualvolta riferiscono uno dei suoi discorsi, lo 
                  mostrano sempre espresso in prima persona: "In verità, vi 
                  dico..." o formule equivalenti.  
                  E con 
                  queste semplici parole, Gesù infrangeva la tradizione 
                  farisaica, anche se la sostanza delle sue frasi era 
                  rigorosamente farisaica. Il Talmud, come sappiamo, è 
                  una tribuna libera, dove la ricerca del vero si opera 
                  confrontando le opinioni di vari dottori. Mai nessuno parla in 
                  prima persona: "Rabbi Tale dice...", "Rabbi Tal altro 
                  risponde...". Le opinioni si articolano, si affrontano, si 
                  completano in una discussione che, praticamente, non sarà mai 
                  conclusa e che considera sempre possibile l'intervento di 
                  nuovi interlocutori. Come a dire che non esiste paternità 
                  individuale per la verità del Talmud. Il suo 
                  insegnamento è collettivo: e, che io sappia, nelle antologie 
                  più o meno giustificate, fatte di questa gigantesca raccolta, 
                  nessuno si è mai curato di classificare per autore le opinioni 
                  espresse. Il Talmud è un' opera comunitaria: 
                  corrisponde al sentimento propriamente ebraico che il commento 
                  della Legge è una dimostrazione dell'alleanza conclusa da Dio 
                  non con questo o quell'uomo, ma con l'insieme della comunità 
                  d'Israele. 
                  Innovazione quindi particolarmente audace, quella di 
                  parlare, come fa Gesù nella Sinagoga, non riferendosi a questo 
                  o a quel talmudista ma riprendendo a proprio vantaggio, 
                  considerandoli come pensiero proprio, alcuni elementi tratti 
                  dal pensiero dei dottori. Dovette essere uno scandalo per i 
                  farisei di quei tempi: Gesù s'attribuiva una parte importante, 
                  prendeva un'iniziativa, assumeva un'indipendenza spirituale 
                  cui neppure Mosè aveva mai potuto ambire. Egli parlava in nome 
                  di Dio, trascurando la tradizione, adducendo un'alleanza 
                  personale con il Signore. Alleanza personale: per un 
                  ebreo nato nella tradizione, le due parole non potevano non 
                  contrapporsi: da collettiva che era stata sino a quel momento, 
                  affidata al popolo ebraico, l'indagine religiosa metteva capo 
                  a un tentativo personale, si localizzava su un predicatore che 
                  veniva a disporre di un'iniziativa che non aveva mai avuto 
                  nessun profeta. 
                  Il 
                  secondo punto su cui Gesù introduce delle innovazioni nella 
                  predicazione, come l' hanno riferita i Vangeli, è meno 
                  semplice da delineare e forse ancor più pieno di 
                  conseguenze. 
                  Il 
                  pensiero ebraico biblico non sente sempre la necessità di 
                  pronunciarsi francamente sulla materialità dei fatti. 
                  L'universo è sacro, nella totalità del suo ordine come nel 
                  minimo particolare, nello svolgimento generale della sua 
                  storia, voluta da Dio, come nel più piccolo aneddoto. Nessuna 
                  distinzione di sorta tra sacro e profano. Nessun ordine 
                  soprannaturale né naturale. Nessun miracolo, isolato, poiché 
                  tutto ciò che avviene sotto la volta del cielo, essendo 
                  impregnato nello stesso tempo di umano e di divino, è per 
                  forza oggettivo e miracoloso. Non esiste un atomo di materia 
                  in cui non si trovino forze collegate con Dio; non esiste 
                  gesto o atto, all'apparenza indifferente, che non sia in 
                  realtà partecipe del destino cosmico, e che non possa influire 
                  sul suo svolgimento. 
                  Ne 
                  risulta una concezione tutta a sfumature del 
                  miracolo. 
                  Per l' 
                  ebreo, nella misura in cui egli prende coscienza della natura 
                  umana, ogni atto è parimenti oggettivo e allegorico o, se si 
                  preferisce una diversa formulazione, razionale e miracoloso. 
                  In questa ambivalenza, ogni ebreo biblico attribuisce maggior 
                  importanza e maggior verità al significato più che alla realtà 
                  di un fatto. Avrebbero riso, o piuttosto si sarebbero 
                  scandalizzati gli ebrei contemporanei del roveto ardente o del 
                  passaggio del Mar Rosso, se avessero immaginato che, ai nostri 
                  giorni, alcuni volgarizzatori della scienza, che si 
                  considerano anche pilastri della fede, si sarebbero sforzati a 
                  dimostrare che questi fatti miracolosi sono scientificamente 
                  possibili. 
                  Cercate 
                  dunque le forchette nell'ultima Cena. Invocate l' orario delle 
                  maree, consultate i sismografi per spiegare che il mare si 
                  aprì davanti a Mosè. Analizzate le emanazioni di gas naturale 
                  sulla vetta del monte Horeb per giustificare il roveto 
                  ardente... Per un ebreo biblico siete soltanto profanatori, 
                  allorché ingenuamente, stupidamente, credete di provare 
                  l'episodio del Diluvio o del Mar Rosso. 
                  Per un 
                  ebreo biblico, per un ebreo talmudista e midrashista del tempo 
                  in cui visse Gesù, la materialità dei fatti non è che la ganga 
                  in cui si nasconde il loro significato, ed è questo solo che 
                  conta. 
                  Il 
                  passaggio del Mar Rosso ( come sappiamo, ma è necessario 
                  ripetersi...) poco importa che sia avvenuto secondo l'orario 
                  della Bibbia. Poco importa persino che sia avvenuto: 
                  importante, ripetiamolo, è solo il suo significato. Conta 
                  soltanto che per Dio che ha ispirato questo episodio, che per 
                  gli uomini che vi credono, esso costituisca un Machal, 
                  forma specifica della narrativa ebraica, specie di 
                  allegoria reale più che i fatti medesimi. Il passaggio del Mar 
                  Rosso, per un ebreo, non è una impresa analoga alla ritirata 
                  dei Diecimila o alle manovre di Austerlitz. È la risposta di 
                  Dio alle inquietudini umane da lui stesso provocate con il 
                  Diluvio universale. Per liberarne gli uomini, per avvertirli, 
                  nello sviluppo della storia, che mai più il Signore 
                  distruggerà l'umanità, Dio fa emergere la terra dall’acqua, 
                  operazione opposta a quella dell' immersione. 
                  In un 
                  certo senso, si può dire che il Monte Sinai corrisponde al 
                  monte Ararat, e che a un fatto comprovante la sua. collera, 
                  Dio ha fatto seguire quello che dimostra per l'eternità la sua 
                  clemenza, e i cui dati materiali sono esattamente opposti. Il 
                  passaggio del Mar Rosso, come abbiamo già detto, è, in una 
                  parola, l.'anti-Diluvio. In una simile prospettiva ritorniamo 
                  alla predicazione di Gesù, alla forma che essa assume, al 
                  paradosso che essa incarna. 
                  Gesù, 
                  di tradizione ebraica, sa benissimo che un fatto non vale 
                  tanto di per se stesso quanto per la sua interpretazione. Ma 
                  egli vive in un'epoca in cui lo spirito greco-latino si 
                  diffonde in Israele, in cui la Bibbia dei Settanta 
                  razionalizza e isterilisce la religiosità ebraica, in un'epoca 
                  in cui i fatti destinati a dimostrare l'esistenza di Dio e 
                  l'avvento del suo regno, cominciano ad essere apprezzati nella 
                  loro positività. 
                  Gesù, 
                  come il suo uditorio, si trova tra due sistemi 
                  d'interpretazione del mondo. Per gli uni, il mondo è sacro, e 
                  innanzi tutto conta il suo significato. Per gli altri, è 
                  profano; le sue dimensioni, le sue concatenazioni logiche, e 
                  forse anche la sua tecnica, sono ciò che contano 
                  soprattutto. 
                  Come 
                  potrebbe Gesù, la cui missione provvidenziale è di estendere 
                  al mondo pagano il monoteismo ebraico, non essere combattuto 
                  anche lui nel suo processo intellettuale ? 
                  Da 
                  quanto i Vangeli riferiscono sulle sue parole, si vede che, 
                  involontariamente, esse danno adito, per un uditorio romano o 
                  ebreo, a malintesi derivanti da una doppia origine. 
                  Da un 
                  lato, l'epoca di Gesù, quella degli anni oscuri, corrisponde a 
                  un momento in cui, sotto la spinta dello spirito greco-latino, 
                  le metafore della Scrittura cominciano a essere interpretate 
                  come fatti: il Machal diventa un vero racconto, una 
                  affermazione oggettiva. Prendiamo un esempio dai Salmi: 
                  in queste poesie liriche, originariamente, non bisognava 
                  interpretare alla lettera tutte le metafore che vi 
                  abbondavano. Tuttavia, passando nella società greco-Iatina, i 
                  temi utilizzati nei Salmi mutano radicalmente natura 
                  : 
                  "I 
                  simboli, sempre poetici" scrive Teodoro Reinach "sono resi 
                  materiali e trasformati in realtà tangibili. L'infermo dei 
                  Salmi, puramente colpito da sofferenze morali, diventa 
                  un vero e proprio malato. L'aceto che si ritiene che il 
                  Malvagio metta nel piatto del povero si muta in autentico 
                  aceto. E quest'immagine finisce con l'esser presa in senso 
                  proprio e messa seriamente in atto. " 
                  Ciò che 
                  era vero per i Salmi, lo sarà forse anche per i 
                  Vangeli. Come ha dimostrato un commentatore, in verità 
                  abbastanza anticonformista, del Nuovo Testamento: "La 
                  moltiplicazione dei pani che rappresenta l'Eucarestia 
                  perpetua, la pesca miracolosa che significa la cattura delle 
                  nazioni nella rete del Vangelo... è futile chiedere, dove e 
                  quando questi fatti sono accaduti; essi avvengono di continuo. 
                  E valgono in quanto simboli di realtà spirituali " [6] 
                  Arriviamo adesso alla seconda origine di quei malintesi 
                  tra ebrei biblici e latini che in un certo senso influiranno 
                  sul dramma della Passione. Non soltanto gli episodi della 
                  storia non hanno la stessa natura per un ebreo o per un 
                  latino. Ma le parole per designarli non hanno lo stesso 
                  significato, che ora è simbolico, ora letterale. 
                  Quando 
                  Gesù riconosce di essere re dei Giudei, l'espressione non ha 
                  lo stesso significato per lui, fedele alla tradizione 
                  religiosa dei suoi padri, e per tutti i 
                  latinizzati e latini che lo giudicano. Per loro è 
                  un'affermazione rivoluzionaria, un crimine di lesa maestà. Per 
                  lui è il ricupero di un'espressione midrashica 
                  che non ha un significato politico ma un valore 
                  spirituale.  
                  È in 
                  parte da malintesi di questo tipo che è scaturito il 
                  verdetto finale e che si è preparato il supplizio del 
                  Nazareno. Si potrebbe così dimostrare come le 
                  principali espressioni, disseminate nella predicazione 
                  di Cristo che, per le reazioni suscitate, stanno all'origine 
                  del suo martirio, fossero interpretate diversamente, conforme 
                  alla tradizione spirituale del tale o del tal 
                  altro. 
                  Così 
                  come dimostra giustamente Jules Isaac, l'appellativo "Figlio 
                  di Dio" o "Figlio dell'Uomo", nel pensiero 
                  ebraico tradizionale indica una filiazione spirituale che 
                  ora è attribuita agli angeli, ora ai re d’Israele, e di 
                  preferenza a David: "Possiamo attestare che l'idea di una 
                  filiazione divina intesa in senso proprio, non solo non 
                  esisteva nella teologia ebraica al tempo di Gesù, ma non era 
                  neppure concepibile, tanto essa offendeva il rigore della sua 
                  fede monoteista e della trascendenza divina".  
                  Assumeva essenzialmente un valore di 
                  allegoria.  
                  Parimenti, per citare Monsignor Ricciotti, 
                  l'espressione "Regno dei cieli" usata nel Vangelo secondo 
                  San Matteo non indica il momento dell'evoluzione in 
                  cui Dio regnerà sulla terra: vorrebbe dire, una volta di più, 
                  interpretato alla lettera, in un senso quasi politico, 
                  che si addice alle concezioni religiose dei romani, ma non 
                  a quelle degli ebrei. 
                  Dunque 
                  Gesù, durante gli anni oscuri, durante questo periodo 
                  misterioso di meditazione che lo prepara al mistero della sua 
                  predicazione e della sua morte, partecipa a due fasi della 
                  evoluzione spirituale. Egli si trova ai confini di due 
                  civiltà, forse di due mondi. Da una parte, la tradizione 
                  ebraica, in cui per la prima volta lo spirito biblico cozza 
                  contro l'egemonia dei metodi razionalisti. Dall'altra parte, 
                  l'Impero Romano, nel quale culmina la civiltà pagana, 
                  innamorata della chiarezza logica e dell'efficacia pratica, ma 
                  che subordina la fede ai bisogni della società. 
                  Gesù è 
                  radicato nell'una e costretto a manifestarsi nell'altra. Ogni 
                  tentativo di spiegare ciò che poté essere allora la sua lotta 
                  interna, ogni tentativo di fare ricadere la responsabilità del 
                  dramma su uno dei due partiti, ebraico o romano, ne falserebbe 
                  le prospettive e ne mutilerebbe nello stesso tempo il 
                  significato umano e divino. 
                  In 
                  realtà, la Passione di Gesù deriva dall'urto fatale di due 
                  civiltà e assume cosi un significato storico, ancora più 
                  profondo possibile, ma anche un senso religioso che nessuno 
                  può contestare. 
                  Si sia 
                  pur ebrei o cristiani o atei, è certo, qualunque possa essere 
                  l'interpretazione data, che in un avvenimento simile 
                  intervengono dei fattori che non sono interamente 
                  discernibili. 
                  Dal 
                  Qaddish al Pater è ben chiara la filiazione, 
                  chiara l'eredità dell'una all'altra. Ma per capire la funzione 
                  straordinaria che questi ultimi anni oscuri hanno avuto 
                  nell'evoluzione del mondo, bisogna essere persuasi che al di 
                  fuori di ogni mutazione umana, essi corrispondono a una svolta 
                  nella storia di Dio. 
                   
                  NOTE: 
                  [1] Proudhon Portrait de 
                  Jésus. (N.d.A) 
                  [2] Talmud = studio. La Torah Orale è 
                  stata tramandata di generazione in generazione fino al momento 
                  in cui è stato opportuno scriverla, perché altrimenti c’era il 
                  rischio che andasse dispersa. I rabbini citati nel Talmud sono 
                  quelli del tempo del secondo Santuario, epoca nella quale è 
                  stato scritto. Contiene la Mishnah (le discussioni dei 
                  Tannaiti, i rabbini del primo periodo) e la 
                  Ghemara’ (le discussioni degli amoraiti, i 
                  rabbini del secondo periodo), la Brayta e la 
                  Tossefta (discussioni avvenute fuori del Bet 
                  Midrash). Tutte le discussioni hanno spirito profetico 
                  quindi, come nella Torah, ogni parola ha la sua importanza, 
                  sia per la posizione che per il contenuto spesso scritto con 
                  linguaggio allusivo. Il Talmud rappresenta la 
                  base di tutta la legislazione ebraica dal punto di vista 
                  dell'attuazione; infatti, mentre la Torah Scritta 
                  contiene dei principi, i 613 precetti, tramite lo studio del 
                  Talmud ne fanno comprendere gli ambiti di 
                  attuazione.  Non si tratta di un'opera scritta una 
                  volta per tutte; è un universo mentale che si sviluppa e si 
                  rinnova con tutta la complessità e la diversità della 
                  vita. (N. della redazione) 
                  [3]  F. Amiot: Les 
                  Evangiles apocryphes, p. 110. (N.d.A.)  
                   
                  [4]  A. Lipman: 
                  Origines juives de l'Oraison dominicale, p. 28. 
                  (N.d.A.)  
                  [5] Midràsh (dalla radice DRSH, 
                  investigare, studiare a fondo) scoprire il senso più profondo 
                  della Scrittura, per rendere il messaggio in essa racchiuso 
                  sempre attuale e vitale.  Il termine indica il risultato di una 
                  indagine esegetica del Testo sacro che venne praticata dai 
                  Maestri dell’epoca talmudica e dai loro continuatori. I 
                  Midrashìm (plurale di Midràsh), che inizialmente erano 
                  tramandati oralmente (distinguendoli dal testo biblico, fisso 
                  ed immutabile) si  distinguono in Midràsh Halakhà e 
                  Midràsh Aggadà. 
                  
                    - 
                    
Il Midràsh Halakhà è di contenuto giuridico 
                    e attraverso esso i rabbini hanno fatto scaturire dal Testo 
                    tutte le norme che permettono l’applicazione della legge 
                    biblica nella vita quotidiana del singolo ebreo e della 
                    collettività.  
                     - 
                    
Il Midràsh Aggadà  - raccolta di 
                    narrazioni e di favole, di nozioni e di fantisticherie, di 
                    immagini e simboli - riguarda tutto ciò che non è 
                    strettamente rituale e rende la Torà più vicina all’uomo, 
                    sensibilizzandolo verso problematiche inerenti il rapporto 
                    tra gli uomini e tra questi e Dio. (N. della 
                    Redazione)     
                  [6]  Paul Couchoud: Le 
                  Dieu Jésus, p. 204. (N.d.A.) 
                  
                     
                      
                    
                      
                      
                        Fonte: Robert Aron, Gli anni oscuri di 
                          Gesù, Oscar Saggi Mondadori,  Milano 1978 
                          - p.229-250 |   
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