Sandro Magister, su L'espresso del 23 aprile 2004

In un momento di difficili rapporti con gli ebrei, la Chiesa di Roma rilancia i pellegrinaggi in Terra Santa. (Leggere articolo)
La politica vaticana in Medio Oriente analizzata da Silvio Ferrari

Il prossimo 23 maggio la grande sinagoga di Roma compirà cent’anni. E per l’occasione il rabbino capo Riccardo Di Segni aveva invitato il papa. Ma Giovanni Paolo II ha deciso di non andarvi. Il 20 aprile il direttore della sala stampa vaticana Joaquín Navarro-Valls ha comunicato che al posto del papa si recheranno in visita alla sinagoga il suo vicario Camillo Ruini e il cardinale Walter Kasper, presidente della commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo.

Così, la memorabile visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma del 13 aprile 1986, uno dei massimi eventi del suo pontificato, rimarrà senza un seguito di pari portata.

Ma non è questo l’unico segnale dell’attuale freddezza tra la Santa Sede e l’ebraismo.

Lo scorso 14 aprile, le autorità israeliane hanno impedito al cardinale Ignace Moussa I Daoud, prefetto della congregazione vaticana per le Chiese orientali, in visita ufficiale in Terra Santa, l’accesso alla basilica di Betlemme lungo il percorso tradizionale delle grandi cerimonie natalizie. Le “ragioni di sicurezza” addotte dal governo israeliano sono state interpretate dal patriarcato latino di Gerusalemme e dallo stesso cardinale Daoud come “uno sgarbo”.

Continuano a segnare il passo i negoziati tra Israele e la Santa Sede previsti dal concordato di dieci anni fa. La commissione bilaterale permanente incaricata di stipulare accordi tra le due parti su varie questioni tuttora non risolte ha interrotto i suoi lavori il 28 agosto 2003. E da allora non li ha più ripresi. Il 23 marzo il presidente della commissione esteri del congresso degli Stati Uniti, Henry Hyde, cattolico fervente e big del partito repubblicano, ha chiesto per iscritto al segretario di stato Colin Powell di premere perché Israele torni al tavolo dei negoziati col Vaticano.

Resta in attesa di una soluzione – promessa “in tempi brevi” dall’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Oded Ben Hur – il mancato rinnovo dei visti d’ingresso a decine di preti, suore e religiosi attivi da anni in Israele, per la maggior parte arabi.

Inoltre, non hanno contribuito a rasserenare il clima le polemiche scoppiate attorno a “The Passion of the Christ” – il rabbino Di Segni è arrivato a chiedere un pronunciamento della Santa Sede – e le esegesi ferocemente antisioniste fatte del film in campo arabo e palestinese.

Eppure, su questo sfondo grigio brillano anche delle luci. Una di queste è la ripresa dei pellegrinaggi in Terra Santa, fortemente incoraggiati da Roma e ben visti anche dal governo d’Israele.

Nell' articolo riportato qui sotto, questa ripresa dei pellegrinaggi è descritta con precisione, nei suoi risultati e nei suoi moventi.

E il principale di questi moventi – il sostegno alle popolazioni cristiane che vivono in Terra Santa – è anche una delle ragioni fondanti, da sempre, della politica vaticana in Medio Oriente: una politica su molti punti distante da quella di Israele.

Il secondo articolo riguarda proprio, in generale, questa politica, comprese le novità intervenute dopo l’11 settembre. Ne è autore Silvio Ferrari, professore di diritto e politica ecclesiastica alle università di Milano e Lovanio.

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Monsignor Liberio Andreatta, tour operator di Dio

[Da “L’espresso” n. 17 del 23-29 aprile 2004. Titolo originale: “Turisti per Wojtyla”]

Tre anni fa ha detto messa al Polo Nord. Due anni fa nel cuore dell’Antartide. L’anno scorso ha piantato la croce del papa sul Monte Bianco e il prossimo agosto farà lo stesso sul K2, la seconda vetta del mondo. Ma questo è niente per monsignor Liberio Andreatta, 62 anni, veneto del Grappa, dinamico amministratore delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi. La sfida no limits che vuol vincere è un’altra: portare un po’ di pace in Terra Santa.

Con l’arma più disarmata che si può immaginare: quella dei pellegrini. E contro tutte le evidenze di un rincrudirsi del conflitto israelo-palestinese, tanto più dopo l’uccisione dello sceicco Ahmed Yassin, il capo supremo di Hamas, e del suo successore Abdel Aziz Rantisi.

Dice Andreatta: “Là dove le teste dei responsabili delle diplomazie non sono riuscite, ci possono provare e forse riuscire il cuore e le gambe dei pellegrini”. L’ha ridetto a fine febbraio a Gerusalemme dalla tribuna di un conferenza internazionale sul rilancio del turismo in Israele, convocata da Ariel Sharon in persona e con mezzo governo israeliano presente.

Portar pellegrini nella terra di Abramo e di Gesù è sempre stata la grande passione di monsignor Andreatta. Lui è già stato là più di cento volte, conosce i luoghi santi metro per metro, contratta i percorsi di ogni viaggio col governo israeliano, con le autorità palestinesi, col nunzio vaticano, coi francescani della Custodia. In trentacinque anni i suoi pellegrini non hanno mai avuto torto un capello.

Ma gli ultimi tre anni sono stati un disastro sotto molti punti di vista. Intifada, terroristi suicidi e ritorsioni israeliane hanno quasi azzerato il numero dei visitatori e decimato gli introiti dell’Opera Romana Pellegrinaggi. Che non è un’organizzazione qualsiasi. È braccio operativo del vicariato di Roma e quindi del Vaticano. Ha per presidente il cardinale Camillo Ruini, vicario del papa e capo della conferenza episcopale italiana. È bandiera della presenza della Chiesa di Roma nel mondo, tanto più con un papa viaggiatore come Giovanni Paolo II.

Anche per questo, lo scorso autunno, Andreatta ha concluso che era troppo, che era necessario risalire la china. Non gli è stato difficile convincere il cardinale Ruini. E il risultato è stata una vigorosa campagna per il ritorno dei pellegrini in Terra Santa, patrocinata dalla conferenza episcopale, pubblicizzata da “Avvenire”, il quotidiano della Cei, e mirata in particolare su diocesi e vescovi.

I risultati non si sono fatti attendere. Nei primi mesi del 2004 i pellegrini italiani hanno ripreso coraggio e ricominciato a partire, o con l’Opera Romana o con le compagnie di viaggio delle diocesi e degli ordini religiosi. Sino a fine aprile i voli sono risultati strapieni ed El Al e Alitalia hanno dovuto approntare altri aerei. Le casse dell’Opera sono tornate a respirare.

Ma stanno tornando in attivo anche anche altre voci in bilancio, di gran lunga più importanti. Ne sanno qualcosa le autorità vaticane e prima ancora le comunità cristiane che abitano la Terra Santa.

Perché è proprio la presenza di queste comunità l’interesse numero uno della politica vaticana in quell’area. Via loro, la paura della Santa Sede è che i luoghi sacri si riducano a musei senza vita. E le cifre delle emigrazioni non fanno bene sperare. In una lettera ai fedeli dello scorso marzo, il cardinale Ruini ha ricordato che negli ultimi undici mesi altri duemila arabocristiani hanno abbandonato la Terra Santa, dei quali mille dalla sola Betlemme. Vent’anni fa, nei Territori occupati, gli arabocristiani erano quasi centomila. Oggi sono precipitati a sessantamila, nonostante la popolazione araba nel suo insieme sia quasi raddoppiata. Il tracollo del turismo religioso ha tolto ai cristiani del luogo la principale fonte di sostentamento e li ha spinti a emigrare.

Ma la semplice ripresa del turismo non basta. Ai pellegrini si chiede di non andar là a mani vuote. E anche chi resta in Italia è sollecitato a dare un contributo. Il 9 aprile, venerdì santo, nelle chiese di Roma è stata fatta una colletta “Pro Terra Sancta”. Il ricavato andrà a scuole, ospedali, orfanotrofi.

Ad esempio al Baby Caritas Hospital di Betlemme, gestito dalle suore francescane elisabettiane di Padova. Dice una di loro, suor Ileana Benetello: “Quando un cristiano emigra, la sua casa non viene comprata da altri cristiani. Si sono troppo impoveriti per farlo. E così si fanno avanti i musulmani che, con l’aiuto dei paesi arabi, comprano facilmente case e terreni. Anche il mandare i figli a scuola risente dell’accresciuta povertà. Per mandarli in scuole cristiane le famiglie hanno bisogno di aiuti dall’estero, di adozioni a distanza. Altrimenti li devono mandare nelle scuole pubbliche, imbevute di islamismo, dove facilmente i ragazzi cristiani perdono la loro fede”.

In gennaio, un pellegrinaggio di tredici diocesi delle Marche con i loro vescovi ha portato aiuto, a Betlemme, a un altro ospedale per bambini, fondato da un sacerdote svizzero, che cura un centinaio di piccoli musulmani colpiti da malattie derivate dai matrimoni tra consanguinei, in uso tra i palestinesi.

A Nazareth hanno aiutato una clinica per partorienti, nella quale suore vincenziane accolgono anche le ragazze madri musulmane ripudiate dalle loro famiglie, resistendo alle minacce di ritorsione.

A Gerusalemme ciascuna delle tredici diocesi ha preso a carico la retta annuale di uno studente di seminario, facendo la gioia del patriarca latino Michel Sabbah, che “non sapeva più come far quadrare i bilanci”.

Don Aldo Tolotto, addetto culturale della nunziatura in Israele, guarda desolato le stanze vuote dell’Istituto pontificio “Notre Dame”, dependence vaticana a Gerusalemme: “Per mezzo secolo, tra il 1888 e il 1948, l’istituto ospitava i cinquecento pellegrini che ogni due settimane, da Marsiglia, arrivavano via mare a Giaffa. Senza più pellegrini cresce solo l’odio. Imploro: tornate. La vostra presenza ridarà fiducia alla gente del luogo, l’aiuterà ad abbandonare violenza e ingiustizia”.

Il nunzio vaticano, l’arcivescovo Pietro Sambi, apprezza che il governo d’Israele incoraggi il turismo. Alcuni segnali, però, sembrano contraddire questa volontà. Tra gennaio e febbraio, ad esempio, ad ogni pellegrino che entrava in Israele era consegnato un foglio col divieto d’ingresso nei Territori, e quindi anche a Betlemme, “senza la previa autorizzazione scritta”. Il divieto è stato poi revocato. Betlemme, Gerico, Betania sono le poche località dei Territori alle quali è oggi consentito l’accesso. Inavvicinabili restano da tempo Hebron con le tombe dei patriarchi, Nablus e gli altri luoghi caldi del conflitto.

Un’altra pietra d’inciampo è il mancato rinnovo dei visti d’ingresso in Israele per un buon numero di preti, suore, religiosi. Si tratta di personale ecclesiastico entrato regolarmente in Israele ma che ora continua a restarvi a permesso scaduto; e non se ne va perché teme di non potervi più rientrare. I francescani della Custodia stimano in “almeno cento” queste presenze divenute illegali: “Senza di loro, la Terra Santa non avrebbe più personale sufficiente per far funzionare santuari, parrocchie, ospedali, scuole”.

Ma niente ferma monsignor Andreatta e i suoi pellegrini. Il 20 aprile ne ha portati a Gerusalemme 200 in un sol colpo, col patrocinio del Centro sportivo italiano e del Coni. E ha fatto di tutto per mettere in pista, il 23, quindici atleti italiani di ogni sport, da Eddy Ottoz a Moreno Argentin, assieme ad altri quindici israeliani e a quindici palestinesi, in una maratona di pace tra Gerusalemme e Betlemme, con la fiaccola benedetta dal papa. A dare il via, il cardinale Ruini.

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SACRE STATISTICHE

I visitatori in Israele da tutto il mondo (per turismo, affari, parentela e motivi religiosi) hanno raggiunto il loro picco più alto nel 2000. Ma alla fine di quell’anno, con lo scoppio della seconda intifada, è iniziato il declino. Quest’anno, obiettivo del governo israeliano è un 25 per cento in più di arrivi rispetto al 2003:

2000 – 2.750.000
2001 – 1.400.000
2002 – 980.000
2003 – 1.065.000

Analogo è l’andamento dei visitatori portati in Terra Santa dall’Opera Romana Pellegrinaggi che fa capo alla Santa Sede. La punta massima è stata raggiunta nel 2000, nonostante i 15.000 viaggi cancellati tra il 28 settembre e il 31 dicembre di quell’anno in conseguenza dello scoppio dell’intifada. Poi il crollo:

2000 – 28.000
2001 – 757
2002 – 522
2003 – 1.250

Ma il 2004 è cominciato in risalita: tra gennaio ed aprile l’Opera Romana Pellegrinaggi ha già portato in Terra Santa 1228 pellegrini di 42 diocesi italiane, con 31 vescovi e un cardinale.


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