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Ultimi fuochi di Sodano contro Israele
Sandro Magister, su espressonline 21 luglio 2006

Puntualmente, a luglio, tra il Vaticano e Israele scoppia un focolaio d'incendio. E sia quest'anno come l'anno passato ad accenderlo è il cardinale Angelo Sodano.

Nel luglio del 2005 le scintille furono la mancata menzione di Israele tra le vittime del terrorismo, nell'Angelus letto dal papa domenica 24, e una successiva nota della sala stampa vaticana, che rincarava la dose.

Poi Sodano ammise che l'omissione era stata una sua svista e per quanto riguarda la nota ne diede la colpa all'allora direttore della sala stampa, Joaquin Navarro-Valls. Il quale però ribatté per le rime, dicendo che la nota l'aveva scritta e diffusa la segreteria di stato a sua insaputa.

Quest'anno l'incendio è partito da dichiarazioni del cardinale Sodano alla Radio Vaticana, riassunte in un comunicato diffuso sabato 14 luglio dalla sala stampa ora diretta dal padre gesuita Federico Lombardi.

Il comunicato è stato prontamente salutato con entusiasmo dall'emittente ufficiale di Hezbollah, "Al Manar". Incredibile? Mica tanto. Perché il passaggio saliente della dichiarazione di Sodano era questo:

"Il diritto alla difesa da parte di uno stato non esime dal rispetto delle norme del diritto internazionale, soprattutto per ciò che riguarda la salvaguardia delle popolazioni civili. In particolare, la Santa Sede deplora l'attacco al Libano, una nazione libera e sovrana, ed assicura la sua vicinanza a quelle popolazioni, che già tanto hanno sofferto per la difesa della propria indipendenza".

Questo passaggio veniva subito dopo una riproposizione di routine dell'imparzialità della Santa Sede tra le due parti in conflitto:

"Come in passato, la Santa Sede condanna sia gli attacchi terroristici degli uni sia le rappresaglie militari degli altri".

Imparzialità subito però clamorosamente smentita.

Questa la linea anti-israeliana di Sodano, peraltro risaputa. Ma va detto che nella diplomazia vaticana sono presenti anche altri punti di vista.

Uno di questi punti di vista è rappresentato, ad esempio, da padre David Maria Jaeger, ebreo di nascita, cittadino israeliano e da anni principale negoziatore per la Santa Sede con le autorità d'Israele.

Ecco come padre Jaeger giudica il conflitto in corso, in un’intervista rilasciata il 15 luglio a Daniele Rocchi per “Incroci News”, il settimanale on line dell’arcidiocesi di Milano:

 “Reazioni dolorose ma misurate”
Intervista con padre David Maria Jaeger

D. – Quali conseguenze porterà l’apertura del fronte libanese nella difficile situazione della regione?

R. – Stiamo assistendo a un aumento qualitativo di gravità. Israele ritiene di essere stato aggredito non più da un’organizzazione militante, Hezbollah, ma dallo stesso stato del Libano, e ha deciso di rispondere in base a questa valutazione. Non gli mancano gli argomenti per questo giudizio: Hezbollah – si ribadisce in Israele – è parte integrante delle istituzioni libanesi, compresi parlamento e governo. Lo stato libanese, inoltre, non ha voluto prendere il controllo sul sud del paese, confinante con Israele, e lo ha effettivamente consegnato nelle mani di Hezbollah. Più volte l’ONU, gli Stati Uniti e l'Europa hanno reclamato, invano, dallo stato libanese di disarmare Hezbollah, che viene finanziato e rifornito dall'Iran, e di riprendersi il controllo del sud. Ora – dicono gli israeliani – se non si decide in extremis ad affermare la propria sovranità su questa organizzazione armata che è al servizio di uno stato straniero votato alla distruzione dello stato ebraico, il Libano rischia di veder reso vano tutto il suo faticoso, costoso e promettente lavoro di ricostruzione degli ultimi vent’anni. Il primo ministro israeliano Ehud Olmert, con passato nella destra nazionalista, sembra essere quasi l’unica voce moderata, promettendo reazioni dolorose ma misurate.

D. – Chi è destinato a soccombere?

R. – I palestinesi. Sono essi i grandi perdenti dell’iniziativa bellica di Hezbollah, che ha distolto l’attenzione dall’emergenza umanitaria a Gaza e potrebbe aver fatto deragliare i negoziati semisegreti miranti non solo al rilascio del caporale Gilad Shalit, ma anche a un cessate il fuoco generale nella striscia di Gaza e dintorni, al rilascio di un numero imprecisato di detenuti palestinesi e a un pur modesto spiraglio di tempi alquanto migliori. In ogni caso, anche se al termine dell’attuale ennesimo scontro armato su più fronti si arrivasse al rilascio di detenuti palestinesi in cambio dei soldati israeliani catturati, il merito sarà rivendicato da Hezbollah, e non più dal governo palestinese che fa capo ad Hamas. Nessuno perde più di Hamas, che sperava nella liberazione dei suoi prigionieri per potersi accreditare di nuovo presso la popolazione palestinese, e invece rischia di essere aggirato e superato da formazioni ancor più militanti.

D. – Che cosa può fare il presidente palestinese Abu Mazen?

R – Il presidente Abu Mazen sembrerebbe ormai ridotto quasi all’impotenza. È vero che ancora dispone di relativamente formidabili forze di sicurezza, che si è solo astenuto da invocare. Ma non vi è dubbio che, soprattutto per lui, l’ipotesi dell’autoscioglimento dell'Autorità Nazionale Palestinese deve essere molto attraente. In fondo, l’ANP è stata creata dagli accordi di Oslo soltanto come struttura interinale per amministrare temporaneamente alcune porzioni dei Territori Occupati, in attesa dell’accordo di pace definitivo tra Israele e la Palestina, allora previsto per il 1999, e poi rimandato al 2000. Dichiarare la fine dell'ANP, inoltre, sgombrerebbe il campo dall’ambiguo rapporto tra l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e l’ANP, e restituirebbe pienamente all’OLP il suo ruolo formale, mai disdetto, di unico rappresentante legittimo del popolo palestinese sulla scena internazionale, competenza riconosciutagli da tutti, compreso, dal 1993, Israele. L'autoscioglimento dell’ANP, poi, annullerebbe di fatto il significato formale della recente vittoria elettorale di Hamas, ed eserciterebbe enorme pressione su Israele per riprendere i negoziati di pace con Abu Mazen e con l’OLP, che egli presiede.

D. – Giudica possibile una tregua in questa fase?

R. – Le tregue sono sempre possibili e nella storia di questo conflitto multiplo sono sempre avvenute. Ma l’unica vera via d’uscita è la pace, che richiede, come ha detto il papa nell’Angelus del 29 giugno, non solo la buona volontà dei governi nazionali interessati, ma anche il generoso contributo della comunità internazionale. Ora più che mai spetta a quest’ultima mobilitarsi, operare saggiamente e instancabilmente per accompagnare le nazioni così provate nel cammino verso la pace giusta e duratura.


v. anche:
. Il Vaticano si unisce alla condanna contro Ahmadinejad
. Politica vaticana in Medio Oriente

   
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