La Sapienza personificata

Per cogliere la specificità della sapienza d'Israele è indispensabile conoscere il fenomeno noto come ipostatizzazione o personificazione della sapienza. A questo fine richiamiamo, anzitutto, i testi principali nei quali la sapienza è presentata come una grandezza che agisce in modo personale nella funzione di mediare Dio e la sua rivelazione all'uomo. 

Tali testi sono Gb 28,1-28; Pro 8,22-31; Sir 24,1-32. Un'attenzione particolare sarà anche riservata all'invocazione per ottenere la sapienza di Sap 9.

 

a. Gb 28,1-28

Prescindiamo dai problemi relativi al rapporto di questo capitolo con il libro di Giobbe [23] per concentrare la nostra attenzione sul testo che ci interessa. Esso si divide in tre parti chiaramente delimitate dalle domande, tra loro affini, del v. 12 ("Ma la sapienza da dove si estrae? dove è il luogo dell'intelligenza?") e del v. 20 (.Ma la sapienza da dove proviene? dove è il luogo dell'intelligenza?").

 Un'altra espressione (ricorrente nei vv. 7a.13a.23a) svolge ancora una funzione letterariamente rilevante per la comprensione dei nostro brano altamente poetico e teologico. La prima parte (vv. 11-11) contiene una descrizione entusiasta delle straordinarie capacità dell'uomo che, spinto dalla sete dell'oro, dell'argento e di quanto è prezioso, con la sua tecnica e il proprio lavoro giunge nelle profondità della terra, di cui "l'uccello rapace ignora la via" (v. 7). 

Questa descrizione s'arresta improvvisamente nella seconda parte (vv. 12-19) dove, alla domanda "Ma la sapienza da dove si estrae (timmāsh)?", si delinea per l'uomo una situazione di impotenza analoga a quella dell'uccello rapace di cui parla il v. 7. L'homo faber "non ne conosce la via" (v. 13 a)! Anzi non la potrà mai conoscere con le proprie capacità, perché essa "non si estrae (timmāseh) nella terra" (v. 13b) ed è un bene incomparabile e, conseguentemente, impermutabile. 

Risuona quindi, in tutta la sua drammaticità, la domanda del v. 12, ma con una significativa variante. Ora, nel v. 20 non ci si chiede più da dove si estrae la sapienza, ma da dove "viene. (tābô'). L'incontro con la sapienza non si attua per opera dell'uomo, anzi tutto il brano è costruito in modo da focalizzare l'assurdità di una simile pretesa. 

Esso, se ha luogo, è unicamente dovuto alla provvida "venuta" della sapienza stessa. Si compie questo evento? In che modo? L'autore prepara la risposta affermativa proclamando, in un contrasto stilisticamente felice con i vv. 7a.13a., che solo Dio "comprende la via della sapienza e conosce il suo luogo" (v.23). Qui la sapienza appare "prima di ogni cosa creata" e, coestensivarnente, "il presupposto dell'opera della creazione" [24].  

Essa è in Dio ("non si estrae nella terra dei viventi", v. 13 b) e, al tempo stesso, è in stretto rapporto con la creazione nel suo inizio (vv. 25-27) e nel suo perdurare (v. 24). Più che come ordine cosmico, immanente al mondo creato, la sapienza qui descritta si profila come lo stesso disegno divino che presiede all'intera creazione e, conseguentemente, alla storia dell'uomo. Solo Dio, dunque, ne può conoscere la via e il luogo, perché vede nel dispiegarsi della creazione l'emergere del suo eterno disegno, che si realizza nel tempo e nello spazio riempiendoli della sua luce e del suo amore.

Appare chiaro, a questo punto, che la venuta" della sapienza può compiersi unicamente per la via conosciuta da Dio, mediante la comunicazione della sua Parola, la manifestazione del suo disegno. Usando una forma verbale che richiama il racconto della creazione (wajjōmer) il nostro autore proclama l'evento della Parola che Dio rivolge all'uomo e con la quale lo abilita a ciò che, con le sue forze, gli sarebbe stato impossibile: conoscere la via della sapienza [25]. Il contenuto di questa divina Parola è formulato nei seguenti termini:

e (Dio) disse all'uomo:
"Ecco, temere 'adōnaj [26] è sapienza
tenersi lontani dal male è intelligenza" (v. 28)

Anzitutto si deve notare la prospettiva universalistica di questo testo e della sua frase culminante. Chi parla non è Dio come lo ha incontrato Israele nella sua esperienza di salvezza (Jhwh), ma Dio in quanto mistero operante in tutta la creazione e storia umana (‘ĕlōhîm). La stessa espressione "temere 'adōnaj" intende evitare il tetragrarnma divino nella formula "temere Jhwh", propria della tradizione israelitica, per conferire al detto una dimensione universalmente valida. La parola divina, di cui qui si tratta, è l'autocomunicazione di Dio all'"uomo": ad ogni uomo. 

Proprio qui affiora la risposta alla domanda che aveva attraversato tutto il poema: Da dove si estrae, da dove viene la sapienza? Quale è il luogo dell'intelligenza? La parola divina mostra come l'uomo accoglie il dono della sapienza quando attua la propria esistenza in una dimensione religiosa autenticata dalla vita. Alla luce di Is 1,16-17, con il quale il nostro versetto è da connettere sotto il profilo della storia della tradizione, risulta che tenersi lontani dal male significa, in concreto, un positivo orientamento al bene nell'effettiva ricerca della giustizia e, conseguentemente, nella protezione dei deboli e degli indifesi (indicati nelle categorie delle "personae miserabiles" della società di allora: oppressi, orfani, vedove).

Quando l'uomo vive la propria esperienza religiosa con una vita "Iontana dal male", secondo il messaggio ricco del nostro testo, egli manifesta di essere raggiunto dal dono della divina sapienza, egli mostra di ascoltare una parola che non viene dalla terra, ma giunge dall'infinito di Dio. Ogni uomo è dunque chiamato ad essere "uditore della parola". Nell'"ascolto" si compie l'incontro con quella sapienza "che non si trova sulla terra dei viventi" (v. 13) [27].

b. Pro 8,22-31

Più ancora che in Gb 28,1-28 qui la sapienza appare come una persona che chiama, fa sentire la sua voce e rivolge l'invito agli uomini ad ascoltare e imparare. L'invito all'ascolto (cfr vv. 1 - 1 1 e 3 2 - 36) costituisce appunto la cornice del discorso con il quale la sapienza, elogiando se stessa, manifesta la propria natura: essa è la fonte della giustizia e dell'equità che assicura la vita e il benessere dei popoli e dei regni, dunque degli uomini nella loro dimensione socio- politica (vv. 12 -2 1) e nelle loro relazioni interpersonali. 

Essa, inoltre, come è indicato dai vv. 22-31, è il "principio" (rēšît come in Gn 1,1) che ha origine da jhwh prima dell'universo ed è presente nella totalità della creazione [28]. La funzione, che assolve la sapienza con la sua presenza, è descritta nel v. 30:

"Ero accanto a Lui 'mwn,
ero la sua delizia ogni giorno,
danzavo davanti a lui in ogni tempo 
danzavo sull'orbe terrestre
e la mia delizia era con gli uomini".

Particolare difficoltà semantica è costituita dal termine "'mwn", che i masoreti hanno letto "'āmôn". Esso potrebbe significare "artigiano", "architetto". Però questa interpretazione, favorita dal libro della Sapienza (Sap 7,22; 8,6; 14,2), non sembra convincente. In Pro 8, infatti, la sapienza non svolge una funzione di artefice, in quanto Dio solo crea l'universo. Nella linea del Gese, ci sembra che il vocabolo sia da mettere in diretto rapporto con la radice 'mn [29]

In questo caso anziché il significato di "tenuta in grembo", proposto dal citato autore, riteniamo più confacente al nostro testo il senso di "sicurezza" [30]. La sapienza al momento della creazione è presso Dio ed è la sorgente della sua sicurezza nei confronti della propria opera. Nell'ambito delle esperienze umane la sicurezza ha due forme particolari di realizzazione: quella del figlio nelle braccia dei propri genitori (cfr Sal 131,2) e quella dello sposo e della sposa nella gioia della reciproca comunione (cfr Pro 3 1, 1 0). 

Qui tutto porta a ritenere che la sicurezza di cui si parla abbia una connotazione sponsale. In altri termini la sapienza, cioè il disegno eterno di Dio ipostatizzato in quanto disegno di vita e di comunione, pone Dio in un rapporto di sicurezza, di fiducia e di amore con la creazione e, quindi, in modo eminente con gli uomini. Questa "sponsalità", che la sapienza instaura tra il Creatore e la creatura, tra Dio e gli uomini, risulta confermata dal vocabolo "delizia" che in Is 5,7 si trova in parallelo con "vigna", il cui simbolismo sponsale è chiaramente attestato e riconosciuto [31].  

La sapienza appare appunto come delizia del Signore che si compiace del suo disegno d'amore. È una delizia che si esprime in danza, dunque in ritmo e armonia, segno di uno spazio e di un tempo ricolmi di gioia che li trascende. 

Nella "danza" la sapienza è davanti a Dio e, simultaneamente, sul globo terrestre e pone tra gli uomini la "sua" delizia, cioè se stessa, eterna delizia di Dio. L'uomo che accoglie la sapienza partecipa dunque della sicurezza sponsale di Dio, della sua delizia. la creazione e la storia diventano epifania di un eterno disegno. Qui si percepisce indubbiamente l'armonia dell'ordine, ma anche molto di più: la delizia dell'amore, il fascino della contemplazione, il mistero della trascendenza [32].

 

c. Sir 24,1-32

Un passo ulteriore in questa tradizione della sapienza personificata è costituito da Sir 24,1-32 [33]. In sintonia con la prospettiva teologica di tutta la sua opera [34] l'autore identifica la sapienza con la Torah, dunque con l'evento della rivelazione che ha raggiunto la sua forma canonica con "il libro dell'alleanza del Dio altissimo" (v. 22). 

Una lettura attenta del brano mostra che questa identificazione non esprime una realtà totalmente nuova, tale da separare nettamente Israele dagli altri uomini e dal loro cammino nella storia. Fin dall'inizio la sapienza è presentata come "uscita dalla bocca dell'Altissimo", dunque come Parola di Dio (cfr Dt 8,3). Con immagini provenienti dalla tradizione dell'esodo (nebbia, dimora, colonna di nube) - e opportunamente reinterpretate - si delinea la presenza della sapienza in tutta la creazione e la storia: una presenza dinamica in quanto proprio la sapienza "ha esercitato il dominio sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione" [35]

L'uomo e la sua azione, nello spazio (mare, terra) e nel tempo della storia (popolo, nazione), sono sotto il "dominio" della sapienza, raggiunti dalla sua luce, guidati nel cammino della conoscenza e della vita. La sapienza che dimora (kateskenosen) nell'alto dei cieli (dunque trascedente) è presente, con la sua opera, nel mondo e nella storia dell'uomo (immanente). 

Il culmine di questa presenza si realizza nel popolo dell'esodo e dell'alleanza che ha nel tempio di Gerusalemme, e quindi nel culto, il luogo dove avviene l'incontro con fl Signore e la sua parola, il simbolo della salvezza e della rivelazione. Qui la sapienza pone la sua dimora obbedendo al volere divino (kataskeneson, v. 8) e dunque avviene la fusione dell'orizzonte della trascendenza con quello dell'immanenza; qui la sapienza trova "il luogo del riposo", perché nel popolo che ha la Torah l'uomo giunge a conoscere il disegno amoroso di Dio e questo disegno si esprime nella fede vissuta e diventa liturgia della Parola proclamata, perché radicata nel cuore del credente (cfr v. 10). 

In Israele, quindi, la sapienza esercita pienamente la sua "exousia", sviluppando nel tempo la sua azione salutare e feconda, producendo frutti copiosi di dolcezza, offrendo il banchetto della Parola, fonte di una vita ricca di ascolto e di opere buone (cfr Sir 24,18-21 con Pro 9,1-6). A questo punto l'autore afferma in modo esplicito il suo pensiero:

"Tutto ciò è il libro dell'alleanza dell'Altissimo,
la <Torah> che ci ha ordinato Mosè" (v. 23).

Quanto è stato detto nei vv. 1-22 viene identificato con il "nomos", termine che non va inteso in senso legalistico, essendo l'equivalente bíblico del termine "Torah", che, come è stato dimostrato, connota "tutta la rivelazione divina" [36]. Ne segue che per Ben Sira "creazione e storia sono <unificate> dalla presenza in esse della sapienza... La divina sapienza, in quanto presenza comunicativa di Dio, pervade sia la creazione sia la storia salvifica di Israele" [37]

Ciò significa, a quanto è dato di capire, non solo che "l'ordine primordiale ricercato dai saggi di Israele trova la sua migliore formulazione nella Torah" [38], ma anche che quanti hanno la Torah possono scorgere, nel patrimonio culturale e religioso degli altri popoli, il frutto dell'azione della sapienza, l'irradiazione del "dominio" salvifico da essa esercitato. 

Come ha giustamente rilevato il Bonora, questa prospettiva del Siracide in definitiva attribuisce "sia alla creazione sia alla storia israelitica una valenza 'simbolica' nei confronti della presenza attiva e comunicativa di Dio, che è la rivelazione" [39]. Tanto i popoli quanto Israele possono aprirsi alla presenza di Dio e al suo disegno (= sapienza) solo se si pongono in un atteggiamento autentico di ascolto e di desiderio, di ricerca e di memoria, di fame e sete di quell'insegnamento che, giungendo da Dio, ha in sé l'energia vitale della profezia (cfr Sir 24,31).

 

d. Sap 9,1-18

Un ultimo testo richiede ancora la nostra attenzione. Si tratta della preghiera per ottenere il dono della sapienza (Sap 9). In questa pagina la sapienza appare seduta in trono presso Dio (v. 4). Presente nell'opera della creazione, essa conosce ciò che è gradito agli occhi di Dio (v. 9). Nessuno senza di essa può conoscere la volontà, il consiglio, il disegno (boulè) di Dio. 

Infatti se l'uomo si raffigura con fatica le realtà terrestri (ta epi gès), che ha a portata di mano, come può investigare, rintracciare le realtà celesti (ta en ouranois)? Questa prospettiva, descritta nei vv. 13-16, mette in luce la funzione rivelatrice della sapienza. Essa media la conoscenza del disegno di Dio per la vita dell’uomo, come è affermato esplicitamente nel v. 17:

"Chi conosce il tuo disegno (boulè),
se tu non doni la sapienza
e dall'alto non mandi il santo tuo spirito?".

In questo testo la sapienza e lo Spirito di Dio sono posti, in forza del parallelismo, in un rapporto di stretta e mutua connessione. Dove c'è la sapienza ivi è lo Spirito; inversamente quando Dio manda il suo Spirito comunica all'uomo la sua sapienza. Proprio la menzione dello Spirito, ci sembra, permette al nostro autore di delineare in modo nuovo e grandioso la funzione soteriologica della sapienza.

 L'espressione "furono raddrizzati i sentieri (diorthothesan ai triboi) di quanti sono sulla terra" richiama molto da vicino l'appello di Is 40,3: "raddrizzate i sentieri (eutheias poieite tas tribous) del nostro Dio". Analogamente l'affermazione "gli uomini furono ammaestrati nelle cose a te gradite" richiama la promessa di Is 54,13 dove il profeta, dopo aver annunciato l'amore del Signore che riprende con immensa tenerezza la sua sposa (cfr. Is 54,4-8), contempla la nuova Sion che vive nell'"alleanza della pace" e vede tutti i suoi figli "ammaestrati dal Sígnore" (didaktous theou). 

A nostro avviso queste allusioni letterarie non sono casuali. Mediante esse il nostro autore attribuisce alla sapienza l'opera che la tradizione riservava allo Spirito. Lo Spirito, dono della nuova alleanza (cfr Ez 36,24-28), era considerato la sorgente della salvezza del popolo, la guida all'incontro con il Dio santo nell'esperienza luminosa della rivelazione del suo amore. Ora è mediante la sapienza che si raddrizzano i sentieri e si riceve l'insegnamento divino, in una parola la salvezza. 

Un altro aspetto è insito in questo procedimento: trasferendo alla sapienza quanto nella tradizione precedente era attribuito allo Spirito è possibile - anzi sotto un certo profilo si rende necessaria - l'universalízzazione della salvezza. Infatti i sentieri non sono soltanto quelli del Signore che viene a liberare A suo popolo, ma quelli di tutti gli uomini che, nella sapienza e nello Spirito, conoscono il disegno e la volontà di Dio. Analogamente se Is 54,13 parla di tutti i figli della (nuova) Sion, Sap 9,18 contempla tutti gli uomini "ammaestrati dal Signore" (edidachthesan anthropoi).

Si può dunque ritenere che "la sapienza attiva nella creazione dell'universo si fa presenza purificatrice e sanante di Dio stesso nel cuore dell'uomo, donandogli la vera conoscenza e la pratica della volontà di Dio" [40].

Anzi non è da escludere che, nella prospettiva universalistica della tradizione sapienziale, il nostro autore consideri tutta l'umanità chiamata a partecipare, mediante la sapienza, al dono dello Spirito e quindi al dono della nuova alleanza. In questa visuale occorre comprendere il valore della Torah (cfr 2,11.12; 6,4.18; 9,5; 14,16; 16,6; 18,4.9). essa è la "luce incorruttibile" concessa al mondo per mezzo dei figli d'Israele (cfr Sap 18,4). 

Nella Torah, che può essere compresa solo mediante la sapienza e lo Spirito, Israele contempla che tutto il mondo è "illuminato di luce splendente" (Sap 17,19a) ed è illuminato perché quando l'uomo ama la giustizia e cerca il Signore, con la semplicità del cuore e l'autenticità della vita, in lui entra la sapienza, entra il "santo Spirito che ammaestrai (cfr Sap 1,1-5).


precedente | | successiva