La comunità cristiana di lingua ebraica in Israele

Intervista rilasciata da p. Gianfranco Pizzaballa, Custode di Terra Santa all'Azione Cattolica Italiana. Vedi anche Relazione sulla comunità in Israele, G.B. Gourion 2002


Padre Gianfranco dove opera in Israele?

Il mio servizio è principalmente per la comunità di San Giacomo che è una comunità, a livello diocesano, che raccoglie tutti gli ebrei, o comunque persone di lingua ebraica in contesto israeliano, che vogliono vivere la loro fede come cristiani cattolici uniti alla chiesa cattolica. La comunità attualmente è composta di quattro piccole comunità che vivono a Beersheva, a Gerusalemme, a Tel Aviv ed Haifa, in tutto circa trecento, trecentocinquanta persone.

Chi sono queste persone?
Sono in prevalenza ebrei in tutto e per tutto, figli di Israele, che ad un certo punto della loro vita, per diverse ragioni (ognuno di loro ha delle sue ragioni personali, storie molto belle e commoventi) sono arrivate a riconoscere in Gesù il Messia, il Figlio di Dio, e vedono nella chiesa cattolica la strada, il modo in cui vivere questa fede.
Con la nascita dello stato di Israele chiesero al vescovo la possibilità di poter vivere questa fede con la chiesa che in Terra Santa è al novantanove per cento palestinese.
Prima del 48, prima della creazione dello stato d’Israele quando un ebreo si convertiva (ci sono sempre stati ebrei che si convertivano) in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo veniva assimilato nella chiesa in cui il fatto accadeva.
La nascita di Israele ha posto ora delle nuove prospettive: un ebreo che vive in un contesto israeliano, ebraico, che si converte e vuole vivere la sua fede come cristiano, non può assimilarsi – pena rinunciare a tutte le sue radici, perché la chiesa locale è una chiesa palestinese, di lingua, cultura, tradizioni completamente diverse. Queste persone chiedono di poter vivere la propria fede come cristiani e nello stesso tempo come ebrei, inseriti cioè nella realtà del loro paese e del loro popolo. Si sentono in tutto e per tutto ebrei e, ad esempio, non si sentono convertiti: vedono infatti in Gesù non l’annientamento della storia personale di fede, ma il completamento: per essere un vero cristiano devi innanzitutto essere un vero credente nel Dio di Abramo.

Per la vita di questa comunità come ha inciso l’immigrazione dai paesi dell’Est Europa?
La storia di questa comunità è un po’ travagliata. L’origine è dovuta proprio agli ebrei che sono venuti dall’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale efino agli anni ottanta e anche oggi.
Ci sono stati tanti problemi sia di inserimento nella società israeliana sia di approccio alla Comunità cristiana.
Adesso abbiamo un itinerario catechistico sintetico, di sintesi tra Israele e la fede (...).. Abbiamo fatto un grosso lavoro: tutti i testi liturgici in ebraico, il breviario. I giovani erano contentissimi, perché non avevano nessun testo per pregare insieme, non c’era niente. Adesso abbiamo iniziato, e sarà il lavoro dei prossimi due anni.
Sta rinascendo questa comunità, le persone sono ancora molto poche e resta il problema di fondo che nell’ebraismo non è possibile distinguere nettamente l’identità dalla fede: anche l’ateo israeliano è comunque ebreo.

In questo contesto che cosa significa "laicato”?
Quando sono arrivato lì, avevo un grosso problema: venivo da una mentalità un po’ clericale, devo riconoscerlo. Adesso mi son dovuto adattare: sono i laici che decidono, per vent’anni infatti non hanno avuto responsabili. Dovevano cercare un sacerdote qua e là, quasi sempre studenti che studiavano ebraico per dire la Messa, ma per il resto facevano tutto loro. Magari anche un po’ esagerando ...
In verità c’è anche la consapevolezza. Dipende anche dalle zone: ci sono le comunità di livello medio-basso, per esempio Beersheva, nel sud, dove c’è minor consapevolezza ma a Gerusalemme, dove c’è un livello sociale e di formazione più alto, sono molto più convinti. Organizzano infatti il Sinodo, convegni su tempi specifici, riflessioni. Sono molto bene organizzati.
Siamo stati a Roma, alla GMG, ed anche a Parigi: devo dire che sono rimasti un po’ scioccati perché non erano abituati a queste grandi masse. Certo, hanno bisogno di essere un po’ più incoraggiati, senza essere considerati animali da zoo. Sono molto sensibili su queste problematiche, quindi bisogna fare molta attenzione. L’altro aspetto è perché sono inseriti nel contesto civile e sociale ed hanno paura – quindi - se sono identificati. Se c’è qualcosa che non li costringe ad andare in pubblico va bene, se invece devono andare in pubblico hanno qualche difficoltà: fanno grande fatica già a vivere nel loro contesto per quello che sono.

Lo stato lascia libere le persone nelle scelte di fede?

Lo stato ha tanti di quei problemi che non si va ad occupare di quei pochi cristiani ... Certo, non è che ignora: controlla. Comunque secondo le leggi, se tu sei nato in Israele non ti possono fare niente. A livello sociale forse non troverai il lavoro facilmente, anche se questo sta un po’ calando a dir la verità. Se invece si è immigrati in Israele, come ebreo, e scoprono che si è cristiani, allora si perde la cittadinanza.

Noi abbiamo una visione moderna degli ebrei, pensando agli ebrei pensiamo ad Israele, dunque Sharòn.
È un rischio venire risucchiati da queste posizioni, da queste tensioni. Noi invece dobbiamo tenerci distaccati per conservare la libertà di guardare tutti. 
“...mi diceva [il Custode in una intervista al S.I.R. (Servizio di Informazione Religiosa) 11 luglio 2005 ndR] un giovane di Betlemme, che ha sofferto molto in questi anni per il conflitto, che noi cristiani dobbiamo avere il coraggio, in questa terra, di vedere l’immagine di Dio in ogni volto. È questa la nostra missione”.

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