La donna nella tradizione religiosa ebraico-cristiana
Elena Bartolini, 23 ottobre 2003
«La donna nelle tradizioni religiose»

L’obiettivo di questa relazione è quello di rimettere a tema, dal punto di vista biblico, l’essere creati ad immagine di Dio come coppia “maschio-femmina”, nel segno di una relazione orientata al compimento del disegno divino nella storia che si fonda su di una distinzione positiva. Ciò significa considerare la natura umana secondo la logica della creazione, quindi secondo una visione dei rapporti uomo-donna nell’orizzonte della rivelazione e dell’antropologia biblica fondamentalmente unitaria, evitando qualsiasi tipo di distinzione che separa “natura” e “spirito” o “natura” e “soprannatura”. In altri termini: eviteremo di leggere il dato biblico con chiavi filosofiche a lui estranee privilegiando invece un’analisi che, partendo dai testi, cerca di interpretarli nell’orizzonte culturale in cui si sono formati, fissati e trasmessi. Si propone pertanto un percorso che, partendo dalle Scritture ebraiche, presenterà in connessione con le medesime la prospettiva neotestamentaria attraverso un’unica esposizione a “due voci”, al fine di mostrare l’unitarietà della rivelazione ebraico-cristiana nell’orizzonte di una novità che conferma e compie la “promessa”. [Incontri del SAE - Genova 23 ottobre 2003]

Testo da cui Elena Bartolini ha tratto la sua relazione
LA SANTITÀ DELLA RELAZIONE UOMO-DONNA NELLA RIVELAZIONE
Pubblicato in: AA. VV., La reciprocità uomo-donna via di spiritualità coniugale e famigliare (Atti della Quinta Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità familiare e coniugale promossa dalla CEI, Rocca di Papa, 24 – 29 aprile 2001), Città Nuova, Roma 2001, pp.33-71.

ALLE RADICI DELLA RELAZIONE: DIO CREA NEL SEGNO DELLA DISTINZIONE E DELLA BENEDIZIONE

Per comprendere adeguatamente il significato della relazione uomo-donna nella Rivelazione, è necessario collocarsi nel contesto dell’azione creatrice di Dio della quale la coppia originaria costituisce il culmine: il dato biblico ci testimonia infatti che il Signore crea l’uomo e la donna dopo aver creato tutte le altre realtà, dopo cioè aver portato a compimento la creazione del cielo e della terra (cf.: Gen 2,1). Come sottolineano anche alcuni commenti della Tradizione ebraica, Dio avrebbe creato il mondo in funzione dell’uomo: Il mondo fu prodotto per l’uomo, anche se egli venne creato per ultimo. Ciò fu fatto di proposito, affinché egli trovasse tutto pronto per lui. Dio è il padrone di casa che, dopo aver preparato squisite portate e imbandito la tavola, accompagna l’ospite al suo posto. La tardiva comparsa dell’uomo sulla terra è anche un monito all’umiltà: che egli si guardi dall’essere orgoglioso, se non vuol sentirsi ricordare che persino la zanzara ha più anzianità di lui(1).

La sottile ironia, tipicamente rabbinica, con cui si conclude il brano citato sottolinea come nella logica divina tutto viene relativizzato e ridimensionato: essere il “centro e culmine” della creazione più che un privilegio è un invito ad accogliere il “proprio posto” che il “padrone di casa” ha preparato. È importante quindi soffermarsi sul significato dell’azione creatrice di Dio e sulle dinamiche dalla stessa emergenti.

Nel segno della distinzione

Se consideriamo la narrazione del primo capitolo della Genesi - nel quale Dio è chiamato ’elohim(2), cioè il “Dio di tutti” - e per questo ha una connotazione universale, notiamo innanzitutto che il Suo modo di agire viene descritto attraverso una configurazione della radice verbale b-r-’ che, nella Scrittura, viene utilizzata esclusivamente per esprimere ciò che il Signore crea, sottolineando così una Sua azione propria che non è consentita all’uomo, il quale può solo trasformare le realtà che già esistono. Eccoci dunque di fronte ad una prima originaria distinzione: quella cioè fra il modo di agire di Dio e quello degli uomini. Ripercorriamone insieme alcuni momenti a partire dalla narrazione del primo capitolo della Genesi:

In principio Dio (’elohim) creò (bara’) il cielo e la terra. 
[...] 
e separò
la luce dalle tenebre; così fu sera e fu mattino, un giorno(3)
Dio disse poi: “Sia una distesa in mezzo alle acque che separi le une dalle altre”. Dio fece la distesa e separò le acque che sono al di sotto della distesa da quelle che sono al di sopra di essa. E così fu. Dio chiamò cielo la distesa... 
[...] 
Dio disse: “Siano luminari nella distesa del cielo per far distinzione fra il giorno e la notte; siano anche indici per le stagioni, per i giorni e per gli anni. Funzionino come luminari nella distesa del cielo per far luce sulla terra”. E così fu. Dio fece dunque i due grandi luminari: il maggiore per presiedere al  orno e il minore per presiedere alla notte, e le stelle. Dio li pose nella distesa del cielo per far luce sulla terra; per presiedere al giorno e alla notte, e per fare distinzione fra la luce e le tenebre. Dio vide che era cosa buona.... (Gen 1,1-19)

Tale agire divino, reinterpretato solo successivamente dalla cultura occidentale come creazione ex nihilo, viene descritto dall’autore biblico come un’azione creatrice nel segno della distinzione: la Bibbia infatti non si pone la domanda relativa a cosa ci fosse o meno prima della creazione divina - l’idea di una creazione “dal nulla” è un concetto filosofico greco estraneo alla mentalità semitica -, ma sottolinea che Dio crea distinguendo la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, la terra dalle acque, (cf.: Gen 1,1ss.). Questa distinzione, definita “cosa buona”, è importante ai fini della conoscenza: si conosce la luce in rapporto alle tenebre, la terra in rapporto al cielo e al mare, e così via.... Si può dire quindi che Dio crea separando e distinguendo realtà che, proprio in virtù del loro essere “opposte”, determinano una relazione che permette ciò che noi definiamo “atto conoscitivo”.

Molti commenti della tradizione rabbinica si soffermano proprio su questo aspetto per spiegare che ogni realtà del mondo creato, anche ciò che appare all’uomo come contraddittorio, ci è stato dato da Dio perché potessimo conoscere sperimentando, cioè cogliendo la relazioni fra gli “opposti”. Ecco alcuni passi di uno dei commenti midrashici(4) più famosi che considera la dialettica fra vita e morte nell’esistenza umana e le opposizioni fondamentali che regolano l’universo:

Nella Sua forza e nella grandezza della Sua potenza Dio creò tutto il mondo due a due, questo in cambio/sostituto di questo (zeh temurat zeh), e questo in contrasto a questo, secondo quanto Egli ha soppesato attentamente nella Sua sapienza, e per far conoscere loro [agli uomini] che ogni singola cosa ha un partner (shotef)e ha un sostituto (temurah), e se non ci fosse questo non ci sarebbe quello.
[...]
Tutto ciò che Egli creò come contrasto [cioè come scambio di contrari che si avvicendano tra loro]. Se non ci fosse morte, non ci sarebbe vita, e se non ci fosse vita non ci sarebbe morte. Se non ci fosse pace (shalom), non ci sarebbe sventura (ra‘)(5) e se non ci fosse sventura non ci sarebbe pace. Se un uomo entrasse in uno stato che si trova metà in pace e metà nella sventura, egli camminerebbe nella sventura e conoscerebbe la pace. Se invece un altro stato fosse tutto in pace, non essendoci in esso sventura, non si conoscerebbe la pace! Se tutti gli uomini fossero folli, essi non saprebbero di essere folli, e se tutti gli uomini fossero saggi, essi non saprebbero di essere saggi; ma: “Anche questo in contrasto a questo Dio ha fatto” (Qo 7,14).
Se poi tutti gli uomini fossero ricchi, essi non saprebbero di essere ricchi, mentre se tutti fossero poveri, non saprebbero di essere poveri; ma Egli creò poveri e ricchi perché riconoscessero questo da quello, morti e vivi per distinguere tra popolazione e desolazione. 
Egli creò grazia e bruttezza, maschi e femmine, creò fuoco e acqua, ferro e legno, luce e tenebre, caldo e freddo, mangiare e fame, bere e sete, camminare e zoppicare, vista e cecità, ascolto e sordità, mare e terra asciutta, discorso e mutismo, opera e distruzione, collera e favore, riso e pianto, guarigione e malattia, con tutte le contrapposizioni che sono menzionate da Salomone in Qohelet: “Un tempo per nascere e un tempo per morire” (Qo 3,2)(6).

L’idea che questo commento sottolinea, è che Dio ha creato ogni cosa nell’orizzonte di una differenza da lui stesso stabilita, quindi nel contesto di una dinamica che legge positivamente realtà fra loro contrapposte considerandole come importante chiave interpretativa della realtà.

Separare e distinguere è dunque un modo tipico di agire di Dio secondo la Bibbia il quale, creando, opera separando la realtà in antinomie e dando origine ad una distinzione che genera relazioni da Lui stesso definite “cosa buona” (cf.: Gen 1,1ss.).

Nel segno della benedizione e dell’amore

Secondo i Maestri di Israele, la creazione divina non si caratterizza solo per essere avvenuta nel segno della distinzione: la Tradizione rabbinica interpreta tutta l’azione creatrice di Dio anche nel segno della benedizione, e ciò a partire dal primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra….” (Gen 1,1). Con queste parole viene infatti introdotto il primo racconto della creazione(7) che, attraverso l’indicazione temporale “in principio”, sottolinea l’inizio di una storia radicalmente segnata da un particolare modo di agire di Dio nei suoi confronti. Molti commenti si soffermano su tale inizio (in ebraico: bereshit) domandandosi come mai la narrazione delle origini abbia una relazione con la lettera bet, cioè la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, e non con  la ’alef, che invece è la prima: 

Perché l’universo è stato creato con la bet (8)? Per farti sapere che esistono due mondi, questo mondo ed il mondo avvenire. Un’altra spiegazione: Perché con la bet? Perché essa è l’iniziale della parola berakah, benedizione, e non (è stato creato l’universo) con la ’alef (9), che è l’iniziale della parola ’arirah, maledizione(10).

Il rapporto fra l’azione creatrice di Dio e il suo essere al principio di tutto andrebbe dunque compreso nel segno della Sua benedizione nei confronti della storia e degli uomini, quindi in un orizzonte di “benevolenza” nei confronti del creato.

Ma c’è di più: la stessa tradizione ebraica, tipica per la multiformità di pensiero al suo interno che si esprime anche nelle molteplici interpretazioni della rivelazione, ci offre un’ulteriore e interessante prospettiva che ci permette di cogliere il volto paterno-materno di un Dio che “genera” la sua creazione donando ad essa qualcosa di sé, “rinunciando” a qualcosa di proprio per “lasciare spazio” alle sue creature(11). È quanto possiamo ritrovare nella comprensione mistica della Genesi maturata all’interno della qabbalah tradizionale(12). Secondo tale comprensione la creazione è il frutto di un atto d’amore di Dio che ha voluto “ritrarsi in sé” per lasciar spazio al mondo e all’uomo: è la dottrina mistica dello tzimtzum (contrazione)(13), cioè dell’autodelimitazione di Dio, in virtù del quale il mondo e l’uomo sarebbero sorti da un “nulla” che in realtà è un “niente divino”, attraverso un processo di distinzione che ha come scopo la Sua stessa rivelazione. Lo tzimtzum è dunque segno di un amore divino capace di lasciar spazio all’uomo, ed esprime una comprensione del Suo agire che rimanda al gesto materno della generazione, del dono gratuito della vita, che porta in sé la gioia di un nuovo evento unitamente alla sofferenza che accompagna il momento del parto.

Tale modalità di azione ci rimanda pertanto ad una prospettiva nella quale l’apertura all’altro e alla vita implica la logica del dono totale, cioè la capacità di “far spazio” affinché l’altro possa “esserci”. Solo un amore senza limiti può arrivare a ciò.

Vediamo allora cosa significa tutto questo nell’ambito della creazione dell’uomo come “maschio e femmina” ad immagine del proprio Creatore.

AD IMMAGINE DI DIO COME COPPIA “MASCHIO E FEMMINA” SECONDO LA TESTIMONIANZA DELLA GENESI

Secondo le tradizioni narrative della Genesi, ed in particolare secondo quella sacerdotale fissatasi nel primo capitolo di questo libro, Dio crea l’uomo e la donna a Sua immagine come coppia maschio/femmina (cf.: Gen 1,27), quindi nell’orizzonte della relazione permessa da tale distinzione. Cerchiamo allora di capire cosa implica tale differenza relazionale nella prospettiva di una comprensione religiosa dei rapporti umani.

Distinzione e relazione secondo il progetto della creazione di Dio

Rabbi Eleazar diceva:

un uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poiché è detto: Maschio e femmina li creò [...] e dette loro nome Adamo (Gen 5,2)(14)

Ciò che Rabbi Eleazar vuole sottolineare è innanzitutto il modo in cui Dio crea l’umanità nel segno della differenza, cioè della distinzione maschio/femmina, rimanendo coerente alla logica con cui ha creato le realtà precedenti distinguendo luce/tenebre, terra/acqua, ecc.... Nel primo capitolo della Genesi troviamo infatti la seguente precisazione:

Dio (’elohim) creò (bara’) l’uomo a Sua immagine (betzalmo); lo creò a immagine di Dio (betzelem ’elohim bara’ ’oto); maschio e femmina li creò (zakar uneqevah bara’ ’otam). (Gen 1,27)

Come si può notare il plurale “li creò” compare solo dopo la distinzione “maschio/femmina”, mentre la parte iniziale del versetto biblico è al singolare, “lo creò”, come indicato anche nel passo del quinto capitolo della Genesi ripreso da Rabbi Eleazar (Gen 5,2). Egli infatti vuole ricordare che tale distinzione è finalizzata ad una possibilità di relazione che, nel caso dell’uomo e della donna, si realizza pienamente nell’unione matrimoniale attraverso la quale i due divengono un’unica realtà che rimanda all’originario Adamo, e che esprime l’unità nella diversità dei generi. Per questo, come ricorda la Tradizione rabbinica, l’occupazione principale di Dio dalla creazione in poi sarebbe quella di “combinare matrimoni.....”(15), e ciò trova riscontro anche nel modo in cui alcuni commenti relativi al secondo capitolo della Genesi spiegano il sonno di Adamo durante la creazione di Eva (cf.: Gen 2,21), descrivendo il modo con cui il Signore avrebbe poi provveduto personalmente alla celebrazione delle nozze della prima coppia umana:

Lo scopo del sonno che avvolse Adamo era di dargli una sposa, affinché la stirpe umana si accrescesse e tutte le creature riconoscessero la differenza tra Dio e l’uomo.
[...]
Lo sposalizio della coppia primigenia venne celebrato con uno sfarzo che non ha paragoni nel corso della storia. Dio stesso abbigliò e adornò la sposa prima di presentarla ad Adamo. Si rivolse agli angeli dicendo: “Venite, assistiamo con amicizia Adamo e la sua compagna, perché il mondo poggia sugli atti di amore che Mi sono più graditi dei sacrifici che Israele offrirà sull’altare”. Gli angeli si disposero quindi intorno al baldacchino nuziale e Dio pronunciò le benedizioni sugli sposi, come fa il chazzan (il celebrante/cantore) sotto la chuppah (baldacchino nuziale)(16). Poi gli angeli danzarono(17) e suonarono per Adamo ed Eva nelle dieci stanze nuziali di oro, perle e pietre preziose che Dio aveva apprestato per loro(18).

Tenendo presente che nella Bibbia il sonno indica una dimensione “altra”, che potremmo definire uno “spazio profetico” (cf.: Gen 15,1ss. dove viene narrato ciò che Abramo vede “in visione”), questo commento sottolinea due elementi importanti: innanzitutto l’importanza della relazione nuziale affinché le creature possano non solo accrescersi ma riconoscere “la differenza tra Dio e l’uomo”, cioè possano percepire il divino attraverso l’amore sponsale che, autenticamente terreno, rimanda alla sua radice trascendente, al suo Creatore, quindi alla “benedizione” originaria sulla prima coppia umana (cf.: Gen 1,28); in secondo luogo la sottolineatura del fatto che “il mondo poggia su atti d’amore”, che in questo contesto sono atti sponsali, e che sono graditi a Dio più dei “sacrifici offerti all’altare”. Si percepisce quindi la necessità di evidenziare che la prima coppia umana vive un rapporto di tipo coniugale affinché possa realizzarsi il progetto di Dio per cui è stata creata: non si tratta di una semplice “riproduzione della specie” ma di un rapporto che diventa spazio di rivelazione.

Positività della differenza nell’orizzonte della sacralità dell’amore sponsale

Soffermandosi poi in maniera specifica sulla differenza uomo/donna, maschile/femminile, ci si accorge che nella Scrittura la medesima è strettamente connessa al modo di comprendere l’amore nella sua dimensione sponsale. La radice ebraica ’-h-v, da cui derivano sia le configurazioni verbali di “amare” che il sostantivo “amore”, compare nel testo biblico ben 251 volte delle quali 41 nei Salmi, 32 nei Proverbi, 23 nel Deuteronomio, 19 in Osea, 18 nel Cantico dei Cantici e 15 nella Genesi. L’orizzonte semantico di questa radice comprende anche i significati di “aderire” e “preferire”, e il suo contrario è sempre “odiare”.

Conformemente alla mentalità semitica, la Scrittura più che parlarci dell’amore in sé ci testimonia e ci narra esperienze d’amore, di rapporti concreti, dei quali quello primario è il rapporto uomo/donna compreso come segno “divino” nella storia. Una particolare interpretazione mistica della parola ’ahavah, “amore”, rileva infatti che le lettere ebraiche da cui è composta stabiliscono una significativa relazione fra l’uomo, la donna e il Nome divino impronunciabile JHWH(19). Per poter comprendere tale relazione è necessario confrontare le consonanti(20) che compongono i due termini nel modo seguente:

’ 

h

  v

h

J

  H

  W

  H

Come si può notare, le due he (h e H) sono presenti nella stessa posizione sia nella parola ’ahavah, amore, che nel Nome impronunciabile di Dio: JHWH.

La lettere ’alef e vet, cioè la prima e la terza consonante della parola ’ahavah, amore, sono simbolicamente collegate alla sapienza e all’intelligenza che la Qabbalah riconduce rispettivamente alla dimensione “paterna” e “materna” dell’albero sefirotico(21), quindi all’uomo e alla donna; mentre l’identità di posizione della due he in comune fra i due termini, viene interpretata come l’espressione di un rapporto mistico fra la coppia umana e il suo creatore nell’ambito del quale l’uomo e la donna “completano” il Nome divino stesso(22).

Sempre in ambito mistico, c’è chi invece interpreta il testo biblico in base al valore numerico delle lettere che compongono ogni parola: ogni lettera dell’alfabeto ebraico corrisponde ad un numero, pertanto, sommando il valore di ciascuna, è possibile ricavare il valore numerico di ogni singola parola stabilendo relazioni fra termini con valore numerico uguale o corrispondenti a numeri di particolare significato simbolico. Secondo questo metodo si può ad esempio rilevare che il valore numerico della prima coppia umana ’adam wechawah, “Adamo ed Eva”, corrisponde a 70 come la differenza fra zakhar, “maschile” (valore numerico 227) e neqevah, “femminile” (valore numerico 157). Se consideriamo infatti il valore numerico della parte consonantica dei termini in questione otteniamo le seguenti relazioni:

’  d m   w
h
w h
1 4 40   6 8 6 5

Totale 70

   

z kh
7 20 200

Totale 227

 n  h
50 100 2 5

 Totale 157

  La differenza fra 227 e 157 è uguale a 70.

In altri termini: la coppia Adamo ed Eva equivale numericamente alla differenza maschile/femminile; in qualche modo si può dire che la loro unione equivale alla loro differenza che, non a caso, è pari a 70, numero che indica gli infiniti volti della Torah, la rivelazione divina al Sinai. Per questa ragione la coppia Adamo-Eva può essere considerata la “radice” del mondo(23) in quanto, secondo la Tradizione rabbinica, Dio lo avrebbe creato attraverso la Sua Torah come precisato nel seguente midrash:

Se un re costruisce un palazzo, generalmente non lo costruisce con la sua abilità personale, ma fa venire un architetto. Ma anche l’architetto non costruisce su un’idea improvvisa. Ha bisogno in primo luogo di progetti e di disegni per stabilire dove deve collocare le camere e le porte. Così anche il Santo, benedetto sia, prima guardò nella Torah e soltanto dopo creò il mondo. [...]. Genesi 1,1 si deve intendere così: “Con la Torah Dio creò il cielo e la terra”(24).

Un altro esempio sul tipo del precedente è l’interpretazione del secondo versetto del capitolo quinto della Genesi dove, come ci ha inizialmente ricordato Rabbi Eleazar, si dice che Dio dopo aver creato l’uomo e la donna li chiamò “adamo” (Gen 5,2). Se scriviamo per esteso ogni lettera consonante che forma la parola ’adam, “adamo” (’alef-dalet-mem), otteniamo un valore numerico totale pari a 625 e corrispondente a quello del termine haketer, “la corona”: 

’      m m
1 3 8   4 3 400   4 4
  0 0   0       0 0

Totale 625

h t r
5 2 400 200
  0    

 Totale 625

Nella Qabbalah “la corona” è il culmine della creazione, e ciò dimostrerebbe perché anche la coppia umana è il culmine della stessa(25). Gli esempi di questo tipo sono numerosi, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e l’obiettivo è sempre quello di mostrare come la sacralità dell’amore umano dipende dalla positività della differenza uomo/donna, maschio/femmina che insieme esprimono l’immagine divina presente in loro (cf.: Gen 1,27 e 31).

Mostrare Dio nella storia attraverso relazioni sponsali autentiche

La differenza maschio/femmina che abbiamo appena sottolineato, implica da una parte una “naturale diversità” - l’uomo non è la donna e viceversa - e, dall’altra, una “naturale apertura” al rapporto “io-tu” in quanto si scopre la propria identità di fronte alla diversità dell’altro/a. La Genesi ci presenta tale rapporto nell’orizzonte di una relazione necessaria aperta sia alla positiva reciprocità che al conflitto.

La narrazione confluita e fissatasi nel secondo capitolo della Genesi, appartenente alla tradizione Javista e quindi più antico di quello che lo precede, ci mostra la creazione dell’uomo e della donna in due momenti distinti: prima viene creato Adamo (’adam) dalla terra (’adamah) e poi da una sua costola viene “tratta” Eva. Dio infatti si accorge che la solitudine per Adamo non è un bene:

Poi il Signore Dio (JHWH ’elohim)(26) disse: “Non è bene che l’uomo rimanga solo; farò per lui un aiuto (‘ezer) che gli sia di fronte/contrapposto (ke-negddo)(27)”. (Gen 2,18).

Tale aiuto di fronte/contrapposto a sé l’uomo non lo trova negli animali che Dio crea per lui e ai quali impone un nome (cf.: Gen 2,19-20), ma nella donna che il Signore plasma “traendola” da una sua costola durante il sonno e poi conduce a lui (cf.: Gen 2,21-22), di fronte alla quale Adamo può dire: 

Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa. Si chiamerà donna (’ishah) perché dall’uomo (’jish) è stata tolta. (Gen 2,23).

Per capire che tipo di ‘ezer, aiuto, la donna può essere nei confronti dell’uomo, dobbiamo considerare il medesimo in rapporto all’espressione ebraica ke-negddo che lo qualifica come “di fronte/contrapposto”, quindi come un tipo di relazione che può esprimere sia l’intesa reciproca, quindi la capacità di accoglienza e donazione, che il conflitto generato dalla tensione fra due realtà che si respingono o che vivono un rapporto sbilanciato, come la prevalenza dell’uno/a sull’altro/a. Dipende dunque dall’agire degli uomini, e naturalmente anche delle donne, la qualità positiva o negativa di questo “essere” l’uno/a di fronte all’altro/a nella prospettiva di un “aiuto” reciproco, che Rabbi Eleazar rilegge nel modo seguente:

R. Eleazar diceva ancora: Qual è il significato del verso biblico: “Gli farò un aiuto di fronte/contrapposto a lui (Gen 2,18)?” Se egli [l’uomo] lo merita, lei [la donna] sarà per lui un aiuto, altrimenti lei sarà contro di lui(28).

Al di là delle possibili interpretazioni “femministe”, la Tradizione ebraica, che comprende il matrimonio come via di santità e massima realizzazione umana - lo chiama infatti Qiddushin, cioè consacrazione(29) -, leggendo questo passo biblico in riferimento all’amore coniugale così commenta: 

Quando marito e moglie sono degni (cioè si amano di un amore autentico), la Shekinah (la presenza divina) è con loro; quando non sono degni (cioè non si amano di un amore autentico) il fuoco li consuma(30).

La spiegazione si basa sul fatto che in ebraico le lettere consonanti delle parole equivalenti a ’jish (uomo/marito) e ’ishah (donna/moglie) possono formare l’anagramma delle parole che significano la forma abbreviata del Nome proprio di Dio Jah e il fuoco ’esh:

j  s
h
 s
h
h
j
 h
' s
h

Inoltre, secondo un altro commento che riprende il precedente, i termini ’jish e ’ishah sarebbero stati preferiti da Adamo dopo le nozze con Eva preparategli da Dio stesso:

Adamo chiamò sua moglie ’ishah e se stesso ’jish, abbandonando il nome Adamo che aveva portato prima della creazione di Eva: Dio aggiunse infatti il proprio Nome Jah a quelli dell’uomo e della donna – la jod a ’ish e la he a ’ishah – a significare che sinché essi avessero proceduto sulle vie del Signore e osservato i Suoi precetti, il Suo Nome li avrebbe protetti da ogni male, mentre se avessero deviato Egli avrebbe tolto il Suo Nome e al posto di ’jish sarebbe rimasto ’esh, fuoco: un fuoco che si sarebbe levato da ciascuno dei due per divorare l’altro(31).

Secondo queste interpretazioni l’amore autentico fra uomo e donna, che diventa amore fra marito e moglie, manifesta Dio nella storia nella misura in cui i due partner vivono la loro relazione nel segno di un dono reciproco totale che presuppone un “aiuto” della donna “di fronte” all’uomo secondo la dinamica che abbiamo precedentemente sottolineato, cioè secondo una differenza positiva.

In tale orizzonte, e sempre in riferimento all’esperienza della coppia umana, la stessa differenza sessuale non è una caratteristica fisica esclusivamente finalizzata alla procreazione, ma è soprattutto un valore positivo in sé, in quanto permette la conoscenza e la relazione fra l’uomo e la donna chiamati a mostrare in questo modo l’immagine divina che si rende visibile proprio in virtù della loro differenza vissuta positivamente.

Possiamo quindi dire che il primo aspetto dell’amore sponsale autentico, del divenire “una sola carne” (cf.: Gen 2,24), è il suo essere segno della presenza di Dio fra i due amanti, il suo essere pertanto una sorta di canale del divino nella storia. E questo va considerato come primo aspetto della fecondità a cui l’uomo e la donna sono chiamati. È infatti solo nel contesto di un amore sponsale così compreso e colto nella sua dimensione trascendente che si colloca anche l’altro aspetto della fecondità umana: la procreazione dei figli, che costituisce un importante segno della benedizione divina:

Dio (’elohim) li benedisse [l’uomo e la donna] e Dio stesso disse loro: “prolificate e moltiplicatevi, empite la terra....” (Gen 1,28).

Se, per tutti gli altri esseri viventi, il “crescere e moltiplicarsi” risponde ad un istinto naturale, per l’uomo e la donna costituisce invece una scelta d’amore responsabile: sono il segno di un dono totale reciproco che si apre alla vita accogliendola come dono divino e come possibilità di collaborazione all’azione creatrice di Dio.

Tale aspetto è pertanto subordinato al precedente: l’unione sponsale è prima di tutto per il bene dei coniugi che implica la presenza di Dio fra loro, la quale rende visibile il loro originario essere insieme a Sua immagine.

SANTIFICARSI ATTRAVERSO UNA RELAZIONE D’AMORE AUTENTICO SECONDO LA TESTIMONIANZA DEL CANTICO DEI CANTICI

Alla luce di quanto abbiamo fin qui sottolineato, sono abbastanza evidenti i motivi per cui un testo come quello del Cantico dei Cantici (Shir hashirim) ha potuto entrare a far parte del Canone biblico: l’amore sponsale che qui viene celebrato va compreso in relazione al suo poter essere manifestazione di Dio nella relazione fra i due amanti.

Anche se, sia la Tradizione ebraica che quella cristiana, hanno ritenuto opportuno sviluppare accanto all’interpretazione letterale anche una lettura allegorica di questo testo(32), non dobbiamo dimenticare che sia la Tradizione patristica - e in particolare Origene(33) - che la Tradizione rabbinica, hanno sempre ribadito che dal senso letterale del testo biblico non si può prescindere: è il primo livello di comprensione dal quale se ne possono solo successivamente trarre altri che non devono tuttavia falsare quello di partenza(34). Pertanto il Cantico dei Cantici è un canto d’amore che esprime i sentimenti fra un uomo e una donna sinceramente e reciprocamente attratti e quindi, innanzitutto come tale, è stato riconosciuto qadosh, cioè “santo/sacro”(35); le allegorie vengono dopo e costituiscono un livello di lettura successivo. Vediamo allora brevemente in che periodo è sorto e perché è stato canonizzato(36).

Un canto d’amore umano accolto come “santo” nel canone biblico

La datazione del Cantico dei Cantici è un problema aperto: c’è chi lo riconduce al periodo salomonico come sembra suggerire il versetto iniziale e chi a quello post-esilico. Gli studi esegetici non sono concordi nell’avanzare ipotesi e suggerire possibili soluzioni, in quanto i diversi “strati letterari” distinguibili e riconducibili ad epoche, tradizioni e situazioni di vario genere, e le poche indicazioni storiche e geografiche(37) presenti nel testo inducono a pensare a fonti diverse riunificate nella redazione finale. In ogni caso una lettura secondo i criteri della Tradizione ebraica in cui è sorto e si è conservato  permette di cogliere un testo sostanzialmente unitario: ciò significa che il suo senso va cercato nella globalità, nell’insieme dei capitoli così ordinati, oltre che nelle sue singole parti(38).

La critica testuale lo ha catalogato come “poema d’amore” che esprime l’esperienza fra un uomo e una donna sinceramente legati dalla passione l’uno per l’altra, nel quale, in qualche modo, si possono percepire influssi della letteratura d’amore contemporanea all’Israele biblico. Tuttavia quest’ultimo esprime il proprio inno all’amore in maniera originale: questo popolo infatti, pur confrontandosi con altre culture dalle quali attinge elementi e contenuti, rilegge e riformula gli stessi alla luce della propria esperienza con il Dio dell’Alleanza distinguendo ciò che è per lui assimilabile e ciò che invece contrasta con la Torah, l’insegnamento divino rivelato per mano di Mosè(39).

La Tradizione ebraica ha conservato e trasmesso questo testo mantenendolo nella sua forma “laica”, senza cioè inserire espliciti riferimenti allegorici e, fin dai tempi più antichi, ha solennemente e insistentemente proclamato la “santità” del Cantico dei Cantici (Shir hashirim) e la sua appartenenza a pieno diritto nel canone delle Scritture ispirate:

Disse Rabbi Aqiba: (morto nel 135 d. C.) “In Israele nessuno ha mai negato, riguardo al Cantico dei Cantici, che esso rende impure le mani (cioè che esso sia Scrittura sacra): poiché il mondo intero non vale il giorno in cui fu dato a Israele il Cantico dei Cantici. Tutte le Scritture, infatti sono sante: ma il Cantico dei Cantici è Santo dei Santi (qodesh qodashim)”(40).

Questo grande maestro di Israele paragona quindi il Cantico alla parte più riservata e sacra del Santuario di Gerusalemme: il “Santo dei Santi”, luogo nel quale poteva accedere solo il Sommo Sacerdote.

Relativamente a tale paragone c’è un significativo parallelismo in Origene (185-284)(41), in quello che può essere considerato l’incipit dell’Omelia dedicata all’inizio del Cantico dei Cantici (Ct 1,1):

Beato colui che penetra nel Santo, ma ben più beato chi penetra nel Santo dei santi. Beato chi comprende e canta i cantici delle Sacre Scritture: nessuno, infatti, canta se non è in festa. Ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici!(42)

Sulla stessa linea di Rabbi Aqiba troviamo altri autorevoli commenti rabbinici:

Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricavane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta”. Poi tornò e gli disse: “Dalle dieci staia ricavane sei”. E poi: “Dalle sei, ricavane quattro”. Così il Santo - benedetto Egli sia - dalla Torah scelse i Profeti, dai Profeti gli Agiografi (Scritti sapienziali), e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici(43).

Il Cantico dei Cantici sarebbe dunque “il distillato”, “l’essenza” della Scrittura, quindi la “parte migliore” della medesima.

E ancora:

Il Cantico dei Cantici lo dissero gli angeli del servizio: è il cantico dei principi (in ebraico sarim, per assonanza con shirim, cantici) il cantico che dissero i principi dell’Eccelso(44).

Il Cantico dei Cantici viene così descritto come l’inno degli angeli definiti “principi” dell’Eccelso, cioè di Dio.

E così commenta anche lo Zohar, testo mistico medievale:

Questo è il canto che comprende tutta la Torah, il canto al quale partecipano gli esseri del cielo e quelli della terra, il canto segno (realtà) del mondo celeste che è il superno Sabato, il canto col quale il Santo Nome celeste è coronato: perciò è “Santo dei Santi”. [...] Nel giorno in cui questo canto fu rivelato, la Dimora scese sulla terra; come sta scritto: E i sacerdoti non potevano reggere nel servizio a causa della nube (1Re 8,11). Per quale motivo? Perché la gloria del Signore riempì la casa del Signore (1Re 8,11). Fu quello il giorno in cui fu rivelato questo inno di lode, e Salomone in Spirito Santo disse la lode di questo cantico. [...] Esso è il canto di lode dell’Assemblea d’Israele quando è coronata nel cielo: perciò di nessun inno del mondo il Santo - benedetto Egli sia - si compiace quanto di quest’inno(45).

Quest’ultimo commento coglie quindi nel Cantico dei Cantici un inno di lode che esprime la reciprocità fra creature e Creatore, fra “esseri del cielo” ed “esseri della terra”, per questo può essere “il canto di lode dell’Assemblea di Israele quando è coronata nel cielo”, e la corona, come vedremo, è un particolare simbolo nuziale.

Anche in ambito cristiano la canonicità del Cantico è stata riconosciuta fin dai primi secoli: c’è chi afferma che il manoscritto della Didachè contenga una lista canonica primordiale comprendente questo libro che, in ogni caso compare nell’elenco di Melitone di Sardi (175 d.C. circa). Se discussione c’è stata ciò è avvenuto soprattutto in riferimento al “senso ultimo” di quest’opera(46)

Si può quindi parlare di una sostanziale credenza, sia in ambito ebraico che cristiano, nei confronti della Parola di Dio presente in questo poema d’amore.

Nel Cantico dei Cantici si ritrovano infatti sia l’esigenza di un amore umano autentico che quella di una profonda conoscenza reciproca, si può dire che sono temi dominanti: per questo non è necessario che nel Cantico si parli esplicitamente di Dio in quanto Egli, come abbiamo precedentemente sottolineato, è già presente nella relazione amato/amata, cioè nella reciprocità di un amore capace di mostrarsi come segno divino nella storia. Vediamone allora qualche passo particolarmente significativo.

La reciprocità di un amore appassionato che diventa rivelativo

In questo testo, nel quale non compaiono mai né il Nome di Dio(47) né quello di Israele(48), si narra un’esperienza d’amore umano profonda e sincera, dove il rapporto uomo/donna non è direttamente finalizzato alla procreazione ma all’incontro con l’altro/a.

La protagonista femminile, Shulamit, è una giovane fanciulla abbronzata dal sole a causa del suo lavoro all’aperto, la quale si presenta al lettore definendosi “bruna ma bella” (cf.: Ct 1,5), precisazione importante in quanto le “belle” non potevano essere contadine bruciate dal sole ma solo aristocratiche che si potevano permettere di aver cura della loro pelle. Del protagonista maschile invece non conosciamo il nome, il testo non lo dice, ma possiamo presupporre che, come Shulamit, appartenga al mondo contadino-pastorale (cf.: Ct 1,8).

Fra le principali tematiche emergenti troviamo innanzitutto il desiderio d’amore e l’attesa dell’amato:

Egli mi conceda i baci della sua bocca, ché il tuo amore (dodekha) è ben meglio del vino! Sento il profumo dei tuoi deliziosi unguenti, il tuo stesso nome effonde (turaq) profumo, per questo le ragazze ti amano! 
Trascinami con te, corriamo! (Ct 1,2-4)

Nel testo ebraico il termine “amore” è reso in questo caso con l’espressione dodekha di non facile traduzione: è il possessivo di dod, che può significare “zio” oppure “amico”. Nel contesto del Cantico la Tradizione ritiene che tale espressione, utilizzata sia al singolare che al plurale, debba essere intesa nel senso di “amore, amante, atti d’amore”(49), assimilandosi quindi al significato del termine ’ahavah sul quale ci siamo precedentemente soffermati. Interessante anche è l’espressione ebraica turaq corrispondente all’italiano “effonde”: la radice verbale r-j-q da cui deriva esprime il significato di “svuotamento”, pertanto il “nome” dell’amato che “effonde” profumo può essere paragonato ad una sorta di recipiente capace di riversare all’esterno il  suo contenuto, e per questo è particolarmente desiderabile.

Tale desiderio non si placa neppure durante la notte e viene definito “malattia d’amore”:

Nelle notti, sul mio giaciglio, 
cerco colui che ama (’et she’ahavah) l’animo mio/la mia persona (nafshi); 
lo cerco e non lo trovo. (Ct 3,1) 

Io dormo ma il cuore (lev) è desto. 
[...] 
Se trovate il mio amore ditegli che sono malata d’amore (shecholat ’ahavah ’ani). (Ct 5,2 e 8)

Significative le espressioni nafshi, l’animo mio/la mia persona, e lev, cuore: sono il segno della visione antropologica unitaria tipica della mentalità biblica, dove la persona è compresa nella sua unitarietà di spirito e corpo inscindibilmente connessi (nafshi), e dove il cuore (lev) costituisce il centro vitale sede dei sentimenti, della volontà e della ragione. L’amore che qui si cerca è pertanto un amore totale e indiviso che coinvolge ogni aspetto della propria umanità: corporale, spirituale, volitivo e razionale.

Ma dove cercare un amore di questo tipo? Dal testo emerge l’invito dell’amato nei confronti dell’amata ad essere se stessa: pastora fra i pastori: 

Esci (tz’i-lakh)(50), segui le orme dei greggi e fai pascolare le tue stesse caprette nei pressi delle dimore dei pastori. (Ct 1,8)

Si può notare il duplice invito ad uscire, quindi a guardare oltre il proprio orizzonte, e a seguire le orme, le tracce che possono portare nella direzione giusta alla ricerca del proprio amore. Ma di quale amore stiamo parlando? In che cosa si distingue da altri amori (cf.: Ct 5,9)?

Il Cantico descrive con dovizia di particolari sia l’aspetto fisico dei due amanti che il trasporto passionale suscitato dalla naturale bellezza che reciprocamente viene scoperta.

Dice l’amato: 

Mi affascini, mia sorella, mia sposa, 
mi conquisti con uno solo dei tuoi occhi 
con uno solo dei monili della tua collana. 
Come è bello il tuo amore (dodajikh), mia sorella, mia sposa; 
il tuo amore (dodajikh) è meglio del vino e il profumo dei tuoi unguenti 
meglio di tutti gli aromi! (Ct 4,9-10)

Risponde l’amata: 

Il mio amato (dodi) è candido e colorito, spicca fra diecimila ragazzi, 
Il suo capo è oro zecchino 
ha i capelli a riccioli neri, corvini; 
i suoi occhi sono come colombe posate su ruscelli, 
[...] 
Il suo seno è tutto dolcezza, egli è tutto tenerezze. 
Tale è il mio amore (dodi), questo è il mio compagno (re‘i)(51). (Ct 5,10-12 e 16)

Le parole dell’amato, che si rivolge all’amata scoprendo in lei la possibilità di una amore totale dai molteplici aspetti definendola contemporaneamente “mia sorella, mia sposa”, richiamano le parole iniziali di Shulamit nei suoi confronti: egli, conquistato dallo sguardo anche di uno solo dei suoi occhi, riconosce che anche il suo amore “è meglio del vino” e il profumo dei suoi unguenti “meglio di tutti gli aromi” (cf.: Ct 1,2-4 e 4,9-10). Emerge quindi una reciprocità di linguaggio che sottolinea una reciprocità di sentimenti fra i due amanti definiti, ancora una volta, con le configurazioni possessive maschili e femminili del termine dod sul quale ci siamo precedentemente soffermati(52).

La ricerca di un amore come questo non conosce limiti, non si arrende di fronte alla sofferenza e non si dà pace se l’incontro non avviene (cf.: Ct 5,6-7). La protagonista femminile, Shulamit che si è dichiarata “malata d’amore” (cf.: Ct 2,5 e 5,8), desidera un amore “forte come la morte”, capace di generare una gelosia inguaribile e di bruciare come una “fiamma potente” che neanche l’acqua può spegnere, e per questo può legare fino a “sigillare” il rapporto in maniera autentica e durevole:

Mettimi come sigillo sul tuo cuore (‘al-libekha), 
come sigillo sul tuo braccio; 
perché forte come la morte é l’amore (’ahavah
tenace come gli inferi è la passione: 
le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma potente (shalhevetjah)(53)
Le grandi acque non possono spegnere l’amore (ha’ahavah
né i fiumi travolgerlo. (Ct 8,6-7).

Non a caso il “sigillo” d’amore, che è segno di chi lo pone e delle sue intenzioni, deve essere posto sul cuore che, come già abbiamo precisato, indica il centro più profondo e vitale della persona, e sul braccio: il duplice gesto rimanda all’antica usanza di portare il medesimo appeso al collo (cf.: Gen 38,18.25), oppure adagiato sul petto o infilato ad un dito della mano (cf.: Gen 41,42; Ger 22,24). In questo caso il riferimento al cuore rimanda al petto, la parte del corpo ove il cuore è contenuto, e il braccio rimanda al dito se considerato come comprendente la sua parte terminale, cioè la mano.

Un amore così, degno di essere “sigillato”, deve essere desiderato, non deve essere destato “prima del desiderio” (cf.: Ct 2,7; 3,5; 8,4) ma deve coronare la “passione” senza essere banalizzato o ridotto ad un atto formale. E’ un amore quindi totale e autentico. Non a caso quindi il testo si conclude con la fuga dell’amato su esortazione dell’amata:

Fuggi, mio amato (dodi), quale cerbiatto o quale capriolo su per i monti dei balsami! (Ct 8,14)

Tale esortazione può essere interpretata come il rifiuto da parte di Shulamit della cerimonia che i fratelli stanno per allestirle (cf.: Ct 8,8-12), in quanto non ne riconosce l’autenticità: essi non potranno mai sostituirsi a lei nei suoi sentimenti(54). Inoltre è un finale aperto che rimanda “oltre”, cioè alla possibilità di sperimentare un amore ancora più grande.

In ogni caso la prospettiva di fondo è quella di una unione nella quale ciascuno dei due amanti trova la sua ricchezza nel rapporto con l’altro/a. E’ quindi una relazione nel segno della reciprocità compresa nel contesto dall’amore umano capace di donazione e coinvolgimento totale, quel tipo di amore capace di essere “segno” della sua radice divina.

Un commento rabbinico al comandamento levitico dell’amore verso il prossimo, che possiamo tranquillamente riferire anche all’amore sponsale fra l’uomo e la donna, precisa: 

Là dove due si uniscono tra di loro nell’amore, il mio Nome è santificato e io sono il terzo in questo legame(55).

Tale commento, ancora una volta, riporta l’attenzione su ciò che deve essere il primo frutto dell’amore: una relazione “santa” che produce santità innanzitutto fra i due amanti.

Santità della relazione sponsale uomo-donna e santità della storia

L’amore autentico fra marito e moglie manifesta dunque Dio nella storia in un contesto ove i due si conoscono profondamente: non a caso quindi nel testo ebraico della Bibbia si utilizza la stessa radice verbale (j-d-‘) sia per esprime la conoscenza reciproca fra i coniugi, anche in senso fisico, che per esprimere la conoscenza esperienziale di Dio (Cfr. Gen 4,1; 24,16; Os, 2,22; Is 11,2).

Soffermandoci sul rapporto fra amore e conoscenza reciproca, possiamo notare che nel testo del Cantico prevale la voce di Shulamit, quindi di una donna, nonostante il contesto patriarcale in cui è sorto(56); sembra così riequilibrarsi la mancanza di una risposta femminile alla entusiastica dichiarazione del primo uomo di fronte alla prima donna (Gen 2,23a: “è carne dalla mia carne”), contesto nel quale è possibile cogliere un interessante parallelismo fra Gen 3,16b e Ct 7,11, dove al rapporto uomo/donna segnato dal dominio maschile si contrappongono il desiderio e la tenerezza reciproci:

Verso tuo marito
sarà il tuo desiderio (teshuqatekh), 
ma egli ti dominerà 
(Gen 3,16b)

Io sono del mio amato,
ed egli mi desidera (teshuqato)
      (Ct 7,11)                                                    

Lo stesso termine “desiderare” (teshuqah) viene usato in due accezioni diverse: nella Genesi assume la connotazione di “istinto naturale” soggiogato dal “dominio maschile”, mentre nel Cantico esprime la “passione reciproca” fra due amanti che “si appartengono” nel segno dell’amore e dell’apertura accogliente, quindi all’interno di un rapporto paritario.

Nel Cantico dei Cantici la naturale differenziazione uomo/donna rivelata dalla Genesi è vissuta ed espressa nel segno della reciprocità, quindi nel dono totale di sé e nell’accoglienza del dono dell’altro/a, relazione che si mostra autenticamente umana e contemporaneamente capace di rendere visibile e presente il divino nella storia.

Nel Cantico inoltre la prospettiva sponsale emerge sia dalle parole dei due amanti che dal contesto corale nel quale le stesse sono inserite, ove non mancano cenni ad usanze matrimoniali tipicamente semitiche, tant’è vero che qualche commentatore lo ha definito un continuato inno nuziale(57).

Nello stesso è possibile ad esempio individuare una significativa relazione fra fidanzamento e matrimonio, celebrazioni liturgiche anticamente separate nel tempo e poi riunite in un unico rito(58). Nel testo è anche possibile individuare un “coro” in dialogo con Shulamit, la protagonista femminile, che qualche commentatore identifica come formato dalle ragazze di Gerusalemme (cf.: Ct 3,6; 5,9; 6,1; 7,1a; 7,2-8; 8,5-7)(59). Tale “coro” avrebbe così una relazione con quanto accadeva a Gerusalemme il 15 di Av(60) e il giorno di Kippur, il giorno del “perdono”, ricorrenze in cui le fanciulle in età da marito danzavano nelle vigne affinché i giovani potessero ammirare e scegliere la propria fidanzata e futura moglie(61). Tale usanza è ancora oggi ricordata da una danza popolare ebraica che porta il nome di bakhramim, nelle vigne(62).

Altri due elementi significativi al riguardo sono la descrizione del “baldacchino” (’appirjon) e della “corona” (‘atarah) di Salomone con cui la madre lo avrebbe cinto il giorno delle sue nozze, definito come “il giorno della sua felicità” (cf.: Ct 3,9-11). Sono entrambi simboli matrimoniali carichi di significato.

Il primo simbolo, il “baldacchino”, rimanda all’uso del baldacchino nuziale (chuppah), ancora oggi in vigore e sovente costituito dallo scialle per la preghiera (tallit), segno della coabitazione e dell’unione sponsale che fa dei due “una sola carne” (cf.: Gen 2,24), e che in virtù della “consacrazione matrimoniale” (qiddushin) permette ai coniugi di fare un’esperienza particolare del mistero divino attraverso l’unione fisica che si realizza nell’atto coniugale vissuto come “gesto santo”. Per questo nel libro del Levitico, fra le norme di purificazione relative all’esperienza del “sacro”, troviamo anche quelle che riguardano l’esercizio della sessualità nell’ambito del matrimonio: ogni contatto con la sacralità di Dio implica infatti un segno positivo di “purificazione” come riconoscimento dell’essere penetrati in una realtà trascendente (cf.: Lv 12,1ss.)(63).

Il secondo simbolo, la “corona”, è invece menzionata nei passi profetici che utilizzano la categoria sponsale (es.: Is 61,10 e 62,3), ed è un simbolo nuziale molto famigliare all’ebraismo biblico oggi però non più in uso(64).

Il Cantico dunque, esplicitamente e implicitamente, ci attesta che l’Eterno si rende presente nella storia attraverso relazioni umane autentiche, nel segno dell’amore reciproco e in tutta la sua concretezza: ciò avviene nel contesto di una reciprocità di gesti e parole nella quale non c’è scissione fra “sacro” e “profano”, poiché ogni realtà è colta e vissuta nella prospettiva della sua naturale apertura alla trascendenza.

Per questo motivo, durante la celebrazione delle nozze ebraiche si pronuncia la seguente benedizione mentre si benedice il Nome di Dio su un calice di vino:

Col permesso dei Maestri. Per la vita! Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, creatore del frutto della vite. Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato di non contrarre matrimoni illeciti; ci ha vietato l’unione prima del matrimonio e ci ha permesso di sposare celebrando il rito matrimoniale e la “consacrazione”. Benedetto Tu o Signore, che santifica il Suo popolo Israele  per mezzo della celebrazione del rito matrimoniale e della “consacrazione”(65).

Dio dunque santifica il Suo popolo attraverso la “consacrazione matrimoniale”, quindi attraverso la santità di un amore umano sponsale capace di mostrare la sua radice divina.

È interessante a questo proposito notare che la Gadium et Spes utilizza alcuni passi del Cantico (Ct 1,1-3; 2,16; 4,16; 5,1; 7,8-11) per ricordare che la Parola di Dio invita ripetutamente gli sposi a “nutrire e a potenziare la loro unione matrimoniale con un affetto non diviso” (n.49).

Come ha ben sottolineato Giovanni Paolo II nelle catechesi del 1984, nelle quali ha commentato questo testo biblico, dobbiamo recuperare la capacità di amare ed essere riamati così come il Cantico testimonia attraverso la reciprocità che da questi due amanti emerge: 

L’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. In base a questo amore si attua anche la rilettura nella verità del significato sponsale del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro vita (Cfr. Ct 8,6-7)(66).

L’amore umano resta perciò la base “teologica” ed etica sufficiente per spiegare il Cantico nel senso ribadito da P. Grelot: 

L’amore umano correttamente inteso non costituisce nella rivelazione biblica un valore reale la cui espressione sarebbe in se stessa degna della parola di Dio? [...] Il senso teologico del Cantico risiede esattamente là, nella tranquilla affermazione del valore positivo che posseggono la sessualità e il suo uso, conformemente alla visione del Creatore(67).

Questa prospettiva emerge con una notevole forza anche nella Dogmatica ecclesiale di Karl Barth e in una lettera di D. Bonhoeffer all’amico E. Bethge scritta nel giugno del 1944 dal carcere nazista di Tegel.

K. Barth, definendo il Cantico “Magna charta di umanità” commenta:

Non bisogna volerlo estromettere dal canone. E non bisogna neppure fare come se non fosse nel canone. Né bisogna spiritualizzarlo,come se ciò che si trova nel canone potesse avere solo un significato spiritualistico. [...] In questo caso l’esegesi più intima e profonda non può essere altra che la più naturale(68).

E D. Bonhoeffer, scrivendo a E. Bethge, ribadisce: 

Del Cantico ti scriverò in Italia. In effetti lo vorrei leggere come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”(69).

Pertanto la reciprocità affettiva, di cui il Cantico è una significativa testimonianza, riguarda ogni forma d’amore creaturale che cresce e matura nella misura in cui è capace di aprirsi all’altro/a e di manifestarsi come “segno” della sorgente di ogni amore attraverso tutto il proprio essere.

Relazioni di questo tipo non si improvvisano: richiedono gradualità nel cammino che non sempre può rivelarsi facile, radicalità nelle scelte che non possono essere superficiali e capacità di cogliere i “segni” di Dio nella “relazioni difficili” anche quando il Suo volto sembra “nascondersi”.

Ritorniamo allora alla “non conclusione” dell’incontro fra i due amanti nel Cantico: nel canone ebraico è possibile cogliere uno sviluppo di questo testo “inconcluso” negli altri quattro che, con lui, formano le cinque megillot (rotoli) fra i ketuvim (gli agiografi)(70), nell’articolazione dei quali è possibile individuare le tappe fondamentali di un cammino di maturazione di rapporti umani autentici e per questo profetici, cioè capaci di leggere la storia con gli occhi di Dio.

L’ordine in cui questi cinque testi sono stati canonizzati è il seguente: Cantico dei Cantici, Libro di Rut, Lamentazioni, Qohelet, Libro di Ester.

Se li consideriamo in quest’ordine e dalla prospettiva delle relazioni umane ci accorgiamo di un singolare dinamismo: nel Cantico emerge soprattutto l’amore giovanile, per certi aspetti adolescenziale, capace di grandi entusiasmi e in cerca dell’autenticità. Questo testo viene letto ogni anno a Pasqua ed è entrato a far parte anche della liturgia settimanale del Sabato, in quanto esprime in maniera unica la reciprocità dell’amore fra Dio e il suo popolo.

Nel libro di Rut invece prevale l’amore consapevole e maturo di una giovane vedova moabita che, nella relazione con la suocera ebrea e con le tradizioni del suo popolo, incontra il Dio di Israele: 

dove tu andrai andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. (Rt 1,16).

Tale libro viene a letto a Pentecoste, festa in cui si fa memoria del dono della Torah, l’insegnamento rivelato, sottolineando così attraverso l’amore di Rut la positività del rapporto fra il popolo di Israele e le Nazioni.
Ma proprio perché la storia umana è caratterizzata anche da momenti e relazioni difficili, nelle Lamentazioni si esprime la sofferenza per la mancanza d’amore, situazione nella quale si trova l’esule che si misura con la felicità perduta: 

La gioia si è spenta nei nostri cuori, si è mutata in lutto la nostra danza. (Lam 5,15).

Questo libro viene letto il 9 di Av, giorno in cui si fa memoria della caduta del Tempio e delle grandi sciagure nazionali.

Sempre nell’orizzonte della riflessione sulla storia Qohelet considera la varietà delle relazioni umane e, pur riconoscendo la relatività delle realtà terrene, arriva ad affermare che: 

è meglio essere in due piuttosto che uno solo (Qo 4,9), 

cogliendo quindi nei rapporti interpersonali una fondamentale positività. La Tradizione rabbinica riprende questo tema riferendolo sia al matrimonio che alle relazioni umane in generale, e precisa che da qualsiasi tipo di uomo o di donna si può imparare qualcosa(71). Il libro di Qohelet viene letto durante la festa delle Capanne durante il ricordo dei quarant’anni trascorsi nel deserto prima dell’ingresso nella Terra promessa.

Arriviamo così al quinto libro di questa serie, il libro di Ester, che è la testimonianza di un amore capace di rischiare per il proprio popolo, nel quale si sottolinea che la felicità del singolo può compiersi solo nella felicità e nella salvezza di tutta la collettività (cf.: Est 7,3). Questo testo, che viene letto a Purim(72), festa che ricorda il coraggio di questa grande donna, mette in risalto come l’amore incondizionato possa arrivare a mettere in gioco sia l’amore del re, che aveva meritato, che la propria stessa vita per l’amore verso il prossimo, in questo caso verso il proprio popolo.

Come ogni festa dell’anno liturgico ha senso solo se rapportata alla globalità dello stesso, così ognuno di questi cinque testi acquista maggior profondità se messo in relazione all’intera serie. In questo orizzonte ci si trova di fronte ad esperienze che abbracciano tutte le stagioni e le occasioni liete e tristi della vita, e che vengono presentate a partire dalla reciprocità dell’amore di coppia testimoniato nel Cantico per concludersi con la reciprocità dell’amore per la propria gente testimoniato nel libro di Ester.

L’amore di coppia dunque, ancora una volta, emerge come significativo fondamento dei diversi possibili sviluppi dell’amore umano che, nell’esperienza matrimoniale, diventa amore “reciprocamente consacrato”. A questo proposito la Tradizione ebraica insegna che: 

Lo stato matrimoniale è tanto importante che il Santo, benedetto sia, in tutte e tre le parti della Sacra Scrittura – Torah (Pentateuco), Nevi’im (Profeti), Ketuvim (Scritti agiografici) – mette in relazione il Suo Nome con il matrimonio.
Nella Torah – poiché quando Eliezer andò a prendere Rebecca per Isacco (Gen 24,50) si legge: “Allora Labano e Betuel risposero: ‘La cosa viene dal Signore’.”
Nei Nevi’im – poiché quando Sansone si prese una moglie (Gdc 14,4)(73) si legge: “Il padre e la madre non sapevano che ciò proveniva dal Signore”.
Nei Ketuvim – poiché sta scritto (Pr 19,14): “Una moglie assennata viene dal Signore”.
Tu apprendi dunque che il Santo, benedetto sia, mette in relazione il Suo Nome con il matrimonio(74).

La particolarità della simbologia biblica e il significato dell’allegoria

La categoria sponsale è ampiamente utilizzata nel testo biblico per esprimere il rapporto fra Dio e il Suo popolo e, come abbiamo precedentemente accennato, anche il Cantico dei Cantici è stato letto sia dalla Tradizione ebraica che da quella cristiana anche in questo modo.

È però opportuno precisare come la Scrittura considera l’allegoria e in che modo viene utilizzata dai Maestri di Israele, in quanto lo sviluppo del pensiero occidentale, soprattutto dopo l’anno mille dell’era attuale, ne ha notevolmente variato il significato sottolineando la differenza fra “figura” e “realtà”.

Dal punto di vista biblico, l’amore umano vissuto nella sua dimensione autentica è “sacro” in quanto originato dall’azione creatrice di Dio, ed è in virtù di ciò che può esprimere in maniera significativa il rapporto fra JHWH e il suo popolo.

Le possibili letture allegoriche del Cantico dei Cantici sono vere perché l’amore umano autentico è realmente segno dell’amore divino. I due piani di lettura, quello letterale e quello allegorico, appaiono così complementari e interdipendenti: è vero l’uno perché è vero l’altro: non c’è fra i due una relazione di “figura” e “realtà”, ma si tratta di “realtà” che reciprocamente si illuminano.

Ci troviamo pertanto di fronte ad una analogia che va compresa nell’orizzonte dell’allegoria biblica, cioè del rapporto fra mashal (modello esplicativo) e nimshal (ciò che è rappresentato) che, per essere valido implica innanzitutto che i due termini di paragone condividano la stessa natura(75). In altri termini: l’amore umano può essere “segno” dell’amore divino solo se è una realtà positiva creata da Lui e solo se gli uomini lo accolgono e lo vivono in maniera autentica, cioè come Egli stesso lo ha rivelato. Come sostiene la Tradizione rabbinica il Cantico si rivela come un mashal, cioè come un modello esplicativo che non va preso alla leggera proprio perché testimonia la santità dell’amore umano attraverso la sponsalità(76).

Ben si comprende allora perché sia il rapporto amato/amata che la categoria sponsale siano utilizzati dalla Scrittura per descrivere l’agire del Dio dell’Alleanza nei confronti della storia con parole umane che realmente possano “significarlo”, come quelle che ritroviamo nel libro del profeta Geremia nella sezione conosciuta come “aggiunta” al “Libro della consolazione”(77), dove al  popolo che vive il dolore dell’esilio si promette nuova gioia con le seguenti parole:

nelle città di Giuda e nelle strade di Gerusalemme, che sono desolate, senza uomini, senza abitanti e senza bestiame, si udranno ancora grida di gioia e grida di allegria, la voce dello sposo e quella della sposa e il canto di coloro che dicono: “Lodate il Signore degli eserciti, perché è buono, perché la Sua benevolenza dura sempre”. (Ger 33,10-11; cf.: Sal 106,1-2).

Il simbolo nuziale e sponsale è qui utilizzato come segno di una benevolenza divina nei confronti del Suo popolo che tornerà a gioire dopo la sventura. La “voce dello sposo e quella della sposa” rimandano sia alla gioia fra i due amanti che a quella fra JHWH e il popolo di Israele: la sponsalità gioiosa diventa il segno di un canto di lode che riconosce in Dio colui che è fedele alle Sue promesse.

Altri esempi significativi si possono trovare in molti altri passi profetici e, in particolare, nel libro di Osea. E poiché il Dio dell’alleanza è lo stesso Dio che si è rivelato in Gesù, in questo orizzonte si colloca anche il rapporto sponsale Cristo-Chiesa che in ogni matrimonio cristiano si realizza in virtù del battesimo: è il “mistero grande” ricordato da San Paolo ai cristiani di Efeso (cf.: Ef 5,32).

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La donna nelle citazioni rabbiniche (alcuni esempi)

“Avendo “costruito” (banà) la donna dalla costola, Dio le concesse maggiore “intelligenza” (binà) che all’uomo”. (Talmud Babilonese, Niddà, 45b).

“Le donne hanno più discernimento”. (Talmud Babilonese, Niddà, 45b).

“Le donne hanno più fede degli uomini”. (Sifrè al libro dei Numeri, 133).

“La Torà è personificata come donna, figlia, sposa”. (Talmud Babilonese, Jevamot,63b).

Disse Rabbi Eleazar: “Un uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poichè è detto: “Maschio e femmina li creò [...] e dette loro nome Adamo” (Gen 2,5)”. R. Eleazar diceva ancora: “Qual’è il significato del verso biblico: “Gli farò un aiuto adatto a lui (Gen 2,18)?” Se egli [l’uomo] lo merita, lei [la donna] sarà per lui un aiuto, altrimenti lei sarà contro di lui”. (Talmud Babilonese, Jevamot, 63a).

Disse Rabbi Elia in risposta a Rabbi Josè (in riferimento al tipo di aiuto che la donna offre all’uomo): “Se un uomo porta del grano, forse che lo mastica in chicchi? E se porta del lino, forse che lo indossa in steli? Forse che lei non porta luce ai suoi occhi?”. (Talmud Babilonese, Jevamot, 63a).

“La donna deve eseguire a favore del marito i seguenti lavori: macinare il grano, fare il pane, lavare i panni, cucinare, allattare suo figlio, preparargli il letto e lavorare la lana. Se porta una domestica non deve........., se porta due domestiche........., ecc.”. (Mishnà, V,5).

Disse Rabbi Chijà: “Si deve prendere moglie soprattutto per la sua bellezza, e soprattutto per i figli. [...] Chi desidera che sua moglie sia graziosa deve farla vestire con vesti di lino”. (Talmud Babilonese, Ketubbot, 59b).

Disse Rabbi Tanchum a nome di Rabbi Chanilai: “Un uomo che non ha moglie vive senza gioia, senza benedizione, senza bene”. (Talmud Babilonese, Jevamot, 62b).

Disse Rabbi Chelbò: “Un uomo deve sempre onorare sua moglie perché le benedizioni discendono sulla casa di un uomo solo per merito di sua moglie”. (Talmud Babilonese, Bava Matzi’à, 59a).

“Israele fu liberato dall’Egitto per i meriti delle donne”. (Talmud Babilonese, Sotà, 11b).

Disse Rav Judà in nome di Rav: “Un uomo non deve dare sua figlia in matrimonio quando è in età minore [ma deve aspettare] fino a che sia cresciuta e dica: “io desidero il Tale””. (Talmud Babilonese, Qiddushin, 41a).

“Dieci misure di chiacchere scesero sul mondo: nove furono prese dalle donne”. (Talmud Babilonese, Qiddushin, 49b).

La donna in rapporto all’uomo nella famiglia ebraica

Nell’ebraismo la massima realizzazione dell’uomo e della donna avviene attraverso il matrimonio e la famiglia, per questo risulta difficile parlare dell’uno e dell’altra al di fuori di questo contesto. La Tradizione, pur nelle sue molteplici articolazioni e tensioni fra affermazioni di tendenza maschilista e valorizzazione del femminile, ha sempre sostenuto sia la complementarietà uomo-donna (Cfr. Gen 2,18) che la loro fondamentale uguaglianza, in quanto il primo essere umano è contemporaneamente maschio e femmina (Cfr. Gen 2,5). La diversità viene pertanto sottolineata in riferimento ai particolari ruoli all’interno della vita di coppia e di famiglia: è la donna che trasmette l’ebraicità (è ebreo chi nasce da madre ebrea) e che deve concretizzare l’ebraismo  nella vita famigliare, cioè nel contesto domestico che viene pertanto considerato una sorta di “piccolo tempio” nel quale la tavola costituisce “l’altare”; è lei quindi che trasmette per prima i valori ebraici ed è lei responsabile della liturgia domestica e dell’applicazione di tutte le norme alimentari che regolano la vita dei più osservanti; per questo è esonerata da tutte le prescrizioni legate a particolari orari che potrebbero ostacolarla nei periodi di allattamento o comunque nelle esigenze legate alla cura dei famigliari. L’uomo, che insieme alla donna è responsabile dell’educazione dei figli, è invece tenuto ad osservare una serie di impegni legati ad orari e luoghi particolari (come la preghiera e lo studio a casa e in Sinagoga) ma, soprattutto, deve amare la propria moglie come se stesso in quanto suo “prossimo” per eccellenza. La Tradizione inoltre sottolinea che la Torà (L’insegnamento rivelato sul Sinai) fu dato prima alle donne, poiché senza di esse la vita ebraica non sarebbe possibile, ed invita perciò i mariti ad “abbassarsi” (da intendersi chiaramente in senso simbolico) per “ascoltare” le proprie mogli, poiché è per loro merito che le benedizioni raggiungono la famiglia.

Se questa è la comprensione tradizionale legata prevalentemente a valori religiosi, l’ebraismo moderno e contemporaneo ha cercato di ripensare il ruolo della donna di fronte ai nuovi contesti nei quali la stessa è oggi inserita: non più solo la famiglia, ma anche il lavoro, gli impegni sociali, le nuove opportunità che la vedono possibile protagonista. Molte donne sono oggi presidenti di comunità ebraiche o di unioni nazionali delle stesse (un esempio italiano è Tullia Zevi), in America l’ebraismo riformato ha accettato la donna anche nel ruolo di Rabbino, e gli esempi potrebbero continuare. Il panorama attuale si presenta così variegato e in tensione fra valori tradizionali ed esigenze di innovazione, dimensione che percorre trasversalmente tutte le espressioni dell’ebraismo di questo secolo (danza, musica, arte, letteratura, sionismo, ecc.), è quindi necessario evitare indebite generalizzazioni cercando piuttosto di cogliere in ogni particolare ciò che di positivo (o di problematico) lo stesso porta nel confronto più ampio e diversificato che, se da una parte  può disorientare, dall’altra costituisce la forza interna di questa Tradizione millenaria.

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1. L. GINZBERG, Le leggende degli ebrei. I. Dalla creazione al diluvio, Trad. it. a c. di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, p.61

2. ’elohim è un termine plurale che, secondo la tradizione ebraica, esprime la dimensione universale del Dio biblico che è contemporaneamente il Dio di Israele e il Dio di tutti gli uomini.

3. Per questa ragione il giorno biblico inizia la sera, e non la mattina.

4. Il midrash, dalla radice d-r-sh che comprende i significati di “cercare, investigare”, è una tecnica esegetica rabbinica che, a partire dal senso letterale (peshat) della Scrittura, tenta di svelarne i significati più profondi mettendo in relazione passi biblici fra loro collegabili secondo alcune norme stabilite dai maestri. Riguardo la tipologia e l’utilizzo del midrash nella Tradizione rabbinica rimando a: A. LUZZATTO, Leggere il Midrash, Morcelliana, Brescia 1999; G. STEMBERGER, Il Midrash, EDB, Bologna 1992. Anche la Patristica ha sottolineato che la Scrittura è interprete di se stessa: le relazioni fra ermeneutica ebraica e cristiana sono ben espresse nel saggio di M. MORFINO, Leggere la Bibbia con la vita, Qiqajon, Magnano (VC) 1990.

5. Cf.: Is 45,7: “Io [Dio] faccio la pace e creo la sventura (bore’ ra‘).

6. Midrash Temurah, cap. 1 e 3. Traduzione italiana e commento a cura di M. PERANI, Il Midrash Temurah, EDB, Bologna 1986, il passo citato si trova alle pp.73 e 78-79.

7. Primo rispetto alla collocazione nel canone biblico. Esistono nel libro della Genesi più racconti della creazione derivanti da tradizioni e fonti diverse, i quali sono stati fissati dal redattore finale secondo un criterio di giustapposizione che tiene relativamente conto di ciò che è più antico e di ciò che è più recente.

8. La bet è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico e ha il valore numerico di due.

9. La ’alef è la prima lettera dell’alfabeto ebraico.

10 Bereshit Rabbah, I,10.

11 Per l’approfondimento degli aspetti paterni e materni in Dio rimando al mio seguente saggio: E. BARTOLINI, La tenerezza di Dio: i tratti paterno/materni del Dio dell’Alleanza, in AA. VV., Padri e Madri. Per crescere a immagine di Dio (Atti della Terza Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità familiare e coniugale promossa dalla CEI, Rocca di Papa, 28 aprile – 2 maggio 1999), Città Nuova, Roma 1999, pp.116-145.

12 Qabbalah significa “ricezione delle cose divine” e designa la mistica ebraica tradizionale di tipo prevalentemente esoterico.

13 Per un approfondimento di questa particolare concezione mistica della creazione si può vedere: G. SCHOLEM, La kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, in particolare pp.138-150.

14 Talmud Babilonese, Jevamoth 63a.

15 Cf: Genesi Rabbah, LXVIII,4.

16 Sul significato del “baldacchino nuziale” e dei simboli matrimoniali rimando al mio seguente saggio: E. BARTOLINI, Segni e simboli nel rituale ebraico del matrimonio, in AA. VV., La reciprocità Verginitá-Matrimonio. Profezia di comunione nella Chiesa Sposa (Atti del Seminario di Studio CEI - USMI - CISM, Sassone, 8-12 Dicembre 1999), Cantagalli, Siena 2000, pp.201-231.

17 Sul significato liturgico della danza rimando al mio seguente saggio: E. BARTOLINI, Come sono belli i passi... La danza nella tradizione ebraica, Ancora, Milano 2000.

18 L. GINZBERG, Le leggende degli ebrei, cit., pp.77-78.

19 JHWH è il tetragramma sacro che la Tradizione ebraica non vocalizza per rispettarne la trascendenza. Preferisco indicarlo senza la probabile vocalizzazione ipotizzata da alcuni studiosi in conformità con le scelte operate dalle chiese cristiane in dialogo con l’ebraismo.

20 L’alfabeto ebraico è solo consonantico quindi, normalmente, la vocalizzazione avviene solo a livello di lettura e non di scrittura. Esiste una vocalizzazione del testo biblico avvenuta fra il VI e l’VIII secolo dell’Era Volgare alla quale fa riferimento anche l’ebraico moderno.

21 L’albero sefirotico è l’insieme delle sefirot, o “emanazioni” divine.

22 Cf: M. GLAZERSON, Revelations abuot marriages, Raz –Ot Istitute, Jerusalem [s.d.], pp.109-113.

23 Cf: Ibidem, pp.106-109.

24 Genesi Rabbah, I,1.

25 Cf: M. GLAZERSON, Revelations abuot marriages, cit., pp.109-110.

26 Come si può notare, nel secondo capitolo della Genesi compare il Nome proprio di Dio, JHWH. La prima volta in cui tale Nome compare scritto in questo modo è in questo stesso capitolo della Genesi al versetto quarto.

27 La versione della Conferenza Episcopale Italiana traduce: “un aiuto che gli sia simile”.

28 Talmud Babilonese, Jevamoth 63a. 

29 Cf.: Talmud Babilonese, Qiddushin 2b.

30 Talmud Babilonese, Sotah17a. Mie le precisazioni fra parentesi.

31 L. GINZBERG, Le leggende degli ebrei, cit., p.78.

32 Fra le principali allegorie troviamo il rapporto Dio-popolo di Israele, Creatore-creatura, Cristo-Chiesa, ecc., sebbene il testo non suggerisca tale tipo di lettura come fanno invece alcuni testi profetici (es.: Is 62,5; Ger 2,2; Os 2,21-22; ecc.).

33 Cf.: al riguardo: H. CROUZEL, Origene, Borla, Roma 1986, pp.95-99.

34 Cf.: al riguardo: Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, a c. di U. NERI, Città Nuova, Roma 19933, pp.19-39; RASHI DI TROYES, Commento al Cantico dei Cantici, a c. di A. MELLO, Ed. Qiqajon, Magnano (VC) 1997, pp.8-8-14; M. MORFINO, Leggere la Bibbia con la vita, cit, pp.49-53.

35 In ebraico entrambi i termini italiani sono compresi nell’espressione qadosh.

36 Viene qui parzialmente riproposto e rielaborato quanto presentato al Seminario CEI-USMI su “Verginità e Matrimonio” tenutosi a Loreto nel 1997; cf.: E. BARTOLINI, La storia dell’amato e dell’amata come epifania dell’Eterno nel Cantico dei Cantici, in AA.VV., Verginità e matrimonio. Due parabole dell’Unico Amore (Atti del Seminario di Studio CEI Uff. per la pastorale della famiglia – USMI, Loreto, 4-7 settembre 1997), Ancora, Milano 1998, pp.103-123.

37 C’è chi ipotizza che l’autore, o comunque la redazione finale del testo, abbia ambientato la vicenda ispirandosi all’oasi di ’en gedi sulle rive del Mar Morto, località dove, non a caso, è possibile ammirare una bellissima cascata che porta il nome di Shullamit, la protagonista femminile del Cantico, e dove vivono in libertà gazzelle che richiamano molte descrizioni presenti nel medesimo.

38 Cf.: Cantico dei cantici, a c. di G. GARBINI, Paideia, Brescia 1992, pp.293-303; G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, EDB, Bologna 1992, pp.79-113.

39 Cf.:, G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., pp.45-77.

40 Mishnah, Jadajim III, 5; Cf.: Toseftah, Sanhedrin XII, 10. Mie le precisazioni fra parentesi.

41 Origene conosce la Tradizione ebraica attraverso relazioni personali con illustri rabbini della sua epoca. Cf.: H. CROUZEL, Origene, cit., pp.32-34.

42 PG 13,37. Traduzione italiana citata in: G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p.744.

43 Cantico Zuta 1,1. Mie le precisazioni fra parentesi.

44 Cantico Rabbah I,12. Mie le precisazioni fra parentesi.

45 Zohar, Terumah 143a-144a.

46 Cf.: G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., pp.117-118.

47 Può sorgere qualche dubbio a proposito del passo 8,6 del Cantico, nel quale si adopera la parola ebraica shalhevetjah che potrebbe apparire teofora (jah). Tuttavia è molto più verosimile che la stessa sia da intendersi nel senso di “fiamma potente” e non di “fiamma divina”. Cf.: A. LUZZATTO, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, La Giuntina, Firenze 1997, p.23.

48 Nel libro di Ester, che come il Cantico dei Cantici non menziona mai Dio, si nomina per lo meno il popolo di Israele che si caratterizza come collettività che custodisce i precetti divini; pertanto si fa indirettamente riferimento a Dio tramite il comportamento del suo popolo e il destino dello stesso che in questo testo viene narrato.

49 Cf.: A. LUZZATTO, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., p.62 nota 1.

50 Il modo con cui l’imperativo tz’i lakh è costruito, richiama quello con cui Dio invita Abramo ad andare “verso sé”, verso la scoperta della “sua vocazione”, dicendogli: lekh-lekha, invitandolo cioè ad “uscire” dai suoi progetti per accogliere la “promessa” (cf.: Gen 12,1-4a).

51 Il termine può significare sia “prossimo” che “compagno” (Cf.: Lv 19,18).

52 Il termine dodi, mio caro/mio amato, è utilizzato anche nell’inno per l’accoglienza del Sabato compreso come sposa e regina di Israele, nel quale si dice: Lekha dodi, “vieni o mio amato”.

53 Come precedentemente sottolineato, preferisco tradurre “fiamma potente” e non “fiamma divina”, interpretando quindi la desinenza jah nel senso di “raccolta di fiamme” e non come eventuale richiamo alla forma abbreviata del Nome divino.

54 Cf.: A. LUZZATTO, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., p.53.

55 Midrash a Lv 19,18. Citato da P. LAPIDE in Leggere la Bibbia con un ebreo, EDB, Bologna 1985, p.70. E’ evidente la relazione fra il commento a Lv 19,18 e le parole di Gesù in Mt 18,20.

56 C’è addirittura chi lo commenta sostenendo che sia lei a riferire la “voce” di lui. Cf.: A. LUZZATTO, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., pp.45-47.

57 Cf.: G RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., pp.63-69.

58 Tale rito è ancora oggi in uso presso gli ebrei ed è presente anche nella liturgia matrimoniale dei cristiani ortodossi.

59 Cf.: A. LUZZATTO, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., pp.45 e 59-81. La traduzione della Bibbia di Gerusalemme identifica invece il “coro” nei seguenti versetti del Cantico: 1,8; 5,9; 6,1; 7,1-9.

60 Av è il quinto mese del calendario ebraico. Il 15 di Av è l’anniversario tradizionale della riconciliazione avvenuta fra la tribù di Beniamino e le altre (Cf.: Gdc 21,1ss.), ed è anche il giorno in cui si ricorda l’arrivo del legname per la costruzione dell’altare del Tempio.

61 Cf.: Mishnah, Ta‘anit IV,8.

62 Cf.: E. BARTOLINI, Come sono belli i passi..., cit., p.55.

63 Non si tratta quindi di purificazione dal peccato. Nella cultura ebraica infatti l’impurità non indica solo qualcosa di negativo (come nel caso del peccato) ma anche la situazione di chi ha fatto esperienza della sacralità: Aronne, dopo essere entrato nella zona più “sacra” del Santuario, quindi dopo aver compiuto un gesto che implica già una purificazione, una volta uscito dalla stessa deve nuovamente purificarsi per compiere il rito espiatorio del giorno di kippur per sé e per il popolo (Lv 16,1ss.); così come chi è preposto alla preparazione delle ceneri della “vacca rossa” per l’acqua di purificazione deve a sua volta purificarsi proprio perché tale acqua ha a che fare con la sacralità (Nm 19,1-10). Si può vedere al riguardo: P. SACCHI, Storia del mondo giudaico, SEI, Torino 1976, pp.229-259. La sezione è interamente dedicata al rapporto fra sacro e profano, puro e impuro. Per l’approfondimento di questo aspetto rimando anche a: E. BARTOLINI, La santità del Dio dell’Alleanza radice della reciprocità verginità-matrimonio, in AA. VV., La reciprocità Verginità-Matrimonio. Il dono dell’alterità nella Chiesa Una Santa (Atti del Seminario di Studio CEI - USMI - CISM, Chianciano, 4-8 Dicembre 1998), Cantagalli, Siena 1999, pp.37-63.

64 La tradizione rabbinica riterrà opportuno invitare il popolo a non utilizzarlo più in segno di lutto dopo la caduta del Tempio del 70 E.V. Talmud Babilonese, Sotah 49a. Il rito dell’incoronazione è ancora oggi in vigore nella celebrazione del matrimonio cristiano-ortodosso.

65 Nozze ebraiche, a c. di E. PACIFICI, La Giuntina, Firenze 5744 – 1984, p.19. Riguardo il significato della liturgia e dei simboli delle nozze ebraiche rimando a: E. BARTOLINI, Segni e simboli nel rituale ebraico del matrimonio, cit., pp.201-231.

66 G. PAOLO II, in Il Cantico dei Cantici, a c. di M. BETTETINI, Rusconi, Milano 1996, pp.84-85.

67 P. GRELOT, Le sens du Cantique des cantiques d’après deux commentaires récents, in Revue Biblique 71(1964), 46.

68 K. BARTH, Die Kirchliche Dogmatik, Zürich 1932ss., III vol., tomo 2, p.354. (Trad. italiana: Dogmatica ecclesiale, EDB, Bologna s.d.).

69 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, a c. di A. GALLAS, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p.386.

70 Il canone ebraico è suddiviso in tre parti: la Torah (Pentateuco), i Nevi’im (testi profetici) e i Ketuvim (testi agiografici).

71 Cf.: Mishnah, Avot IV,1.

72 Significa “sorti”, in quanto la sorte del popolo ebraico condannato ingiustamente allo sterminio cambia in positivo.

73 Il libro dei Giudici nella Bibbia ebraica fa parte dei libri profetici

74 Midrash Tehillim, LIX, 2. Mie le precisazioni iniziali fra parentesi.

75 La Tradizione rabbinica ha continuato ad utilizzare questo procedimento anche nel periodo post-biblico, mentre l’esegesi cristiana, inculturatasi con le categorie del pensiero greco, ha cominciato a distinguere fra “figura” e “realtà”. Riguardo il mashal nella Bibbia e nella letteratura post-biblica in riferimento al suo utilizzo nel Cantico dei Cantici Cf.: A. LUZZATTO, Il Cantico dei Cantici, cit., pp.38-44.

76 Cr:.Cantico Rabbah, introduzione.

77 Il “Libro della consolazione” comprende i capitoli 30 e 31, la cosidetta “aggiunta” comprende invece i capitoli 32 e 33.

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[Fonte: Convegno SAE

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