Spunti e annotazioni per un percorso di riflessione 
sviluppato nel corso di un incontro con gli insegnanti di religione della Diocesi di San Remo


N.B.- Non si tratta di un testo qualificabile come "componimento letterario": è una semplice traccia, della quale si riconosce il carattere discorsivo proprio dell'uso colloquiale per cui è stata preparata, che offre lo spunto anche per ulteriori chiarimenti e digressioni a livello verbale, scaturenti dal contesto.


Le origini lontane del popolo ebraico hanno per scenario la Mesopotamia e le terre ai suoi margini, dove intorno al 2000 a. C. vivevano allo stato seminomade alcune tribù semite (da Shem figlio di Noè, il patriarca che secondo il racconto biblico si salvò dal diluvio). Allevavano bestiame, soprattutto pecore e talvolta erano indotte da varie circostanze a sostare più o meno a lungo nei pressi di grandi città. È appunto ciò che fece una di queste tribù quando si stabilì prima nella regione di Ur (la cui identificazione con il grande centro della civiltà sumerica non è sottoscritta da tutti gli studiosi) poi, per motivi imprecisati, ad Harran (Mesopotamia settentrionale). A questa tribù apparteneva Abramo (Avram, Avraham) Egli, con la moglie Sara (Sara, Sarai) e il nipote Lot, recando con sé i suoi servi e i suoi beni, migrò ulteriormente in terra di Canaan, la Bibbia dice per ordine del Signore.

Premetto che qui accenno soltanto la collocazione del popolo ebraico nel tempo e nello spazio storici. Sono lieta di offrirvi, da ora in poi, piuttosto che un asettico percorso storico popolato di fatti e di date riguardanti il giudaismo, un excursus attraverso figure ed eventi tratti dalla Torah, dai quali emerge tutto il significato teologico ma anche antropologico della storia della salvezza, che è la nostra storia e, in prospettiva, quella dell’umanità intera.

Per non impiegare questo nostro tempo solo nell’enumerare dati storici ed altre riflessioni, che ritengo comunque basilari, vi consegno una nutrita documentazione, oltre all'excursus dei momenti più significativi del dialogo ebraico cristiano, che potrà esservi utile per ulteriori approfondimenti. 

La prima grande "icona" dell'uomo in dialogo con Dio: Abramo

Dell’ inserimento di Abramo nella storia del popolo di Israele - nella quale sono riconoscibili anche eventi storici, confermati da scoperte archeologiche, ma che è portatrice soprattutto dei loro significati teologici - viene registrata la grande chiamata: lech lechà: vai verso te stesso : movimento all’esterno (verso la terra promessa) che corrisponde anche ad un movimento all’interno, verso l’interiorità profonda, la cui conoscenza consente di riconoscere e andare incontro agli altri. Abramo, prima di Mosè, è il Patriarca del dialogo con Dio. È una chiamata fondata sulla promessa di Dio “farò di te una grande nazione, benedirò…”. i Padri della Chiesa affermano che Abramo «fu giustificato perché ha creduto nel Cristo venturo».

Accenno a Noè ed ai precetti Noachidi

Noè, ad esempio non dialoga con Dio, che gli si rivela nella sua qualità di Elohim = rigore, non nel senso di severità, ma di ordine (da ristabilire): lo stesso nome di Dio che compare all’inizio, nella Genesi, quando si parla della creazione del mondo ed Egli si rivela in tutta la sua potenza. Noè ascolta e ubbidisce. C’è un’altra sostanziale differenza tra Abramo e Noè, che rispecchiano due diversi stati di coscienza dell’umanità, diversi gradi di maturità spirituale, che qualificano le modalità del rapporto dell’uomo con Dio (un altro è rappresentato da Mosè: vedremo poi). Noè è considerato “perfetto” nella sua generazione. Non si tratta di perfezione assoluta ma limitata al contesto della sua generazione: in mezzo ad un popolo di empi, egli era un uomo naturalmente giusto. Come tale nella tradizione rabbinica viene paragonato alla figura di Giuseppe (che resistette alla tentazione della moglie del Faraone): a Giuseppe perché si riteneva che la generazione di Noè fosse decaduta proprio per il modo disordinato di vivere la sessualità, condannato anche da uno dei sette principi noachidi.

Si tratta di 7 cosiddette mitzvòt (precetti) (il 7 non è casuale, in quanto indica la perfezione)

1. promuovere la giustizia
2. benedire il Signore
3. non farsi condizionare da credenze, superstizioni e segnali fuorvianti
4. etica sessuale
5. non spargere il sangue (non uccidere)
6. non rubare
7. non mangiare la carne con la sua vita (cioè col sangue)

Sono realtà al di fuori della Torah, che per gli ebrei possono costituire una sorta di religione universale che unisce tutti i popoli della terra senza quegli ostacoli ideologici, che generano disprezzo, indifferenza, velleità di proselitismo, incapacità di dialogo, che invece è semmai cercare insieme la verità nella conoscenza e nel rispetto reciproci e che dimostrano l'universalità che gli Ebrei hanno del concetto di salvezza che riguarda tutta l'umanità, nella quale il popolo ebraico si distingue per la sua peculiare chiamata, il suo particolare rapporto con Dio: L'Alleanza. Nelle pagine del Profeta Ezechiele si scoprono passi bellissimi in cui Israele, in quanto popolo di Dio, è "segno" della presenza del Signore nella Storia davanti agli occhi di tutte le Nazioni. La prima e Antica Alleanza, mentre ora vige l'Alleanza Nuova ed eterna in Cristo : Ebrei 8,13: «Dicendo, però, alleanza nuova, Dio ha dichiarato antiquata la prima. Ora, quel che diventa antico e invecchia è vicino a sparire». E sempre Ebrei 13,20-21: «Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti in virtù del sangue di un'alleanza eterna il Pastore grande delle pecore, il Signore nostro Gesù...»

Anche per Noè abbiamo una promessa di Dio: quella di non mandare più il diluvio, capace di distruggere l’umanità; il che purtroppo non esclude che l’umanità non corra il rischio di auto-distruzione a causa dei suoi comportamenti. Notoriamente i precetti noachidi sono quelli che gli ebrei attribuiscono ai goym, coloro cioè che loro non considerano appartenenti all'Alleanza che per essi è etnica (basata sul trinomio Dio-Popolo-Terra) e non teologale, come invece è l'appartenenza a Cristo.

Armonia e Benedizione

A proposito della sessualità, cui accennavamo parlando dei tempi de Noè, apro una breve parentesi: essa di per sé non è mai vista con implicazioni negative, a partire dalle dieci Parole. Sottolineo il significato del termine: debarim = Parole, insegnamenti. Notiamo come l'accezione alla quale siamo abituati: Comandamenti ne connoti piuttosto l’aspetto giuridico, rispetto a quello di guida, luce, insegnamento (1). Ma rappresentano pur tuttavia la Legge inscritta nella Creazione.
Rileviamo che il sesto "Comandamento" non vieta la sessualità, ma il commettere adulterio; il che nel contesto ebraico può essere individuato sia come comportamento morale che inquina il rapporto coniugale che come “idolatria” (2)

In ogni caso il disordine nel vivere la sessualità stigmatizzato per la generazione del diluvio, non va visto come fatto a sé stante, ma come un aspetto del disordine di base che si determina quando l’uomo si trae fuori dal progetto di Dio. Questo, secondo gli ebrei, ha risonanza nei mondi superiori, come del resto ne ha in positivo l’osservanza e lo studio della Torah; ed è sotto questo aspetto che il popolo ebraico è un popolo di sacerdoti. Da qui la stupenda liturgia del sabato, la grande ricchezza delle berakòt,(3) le benedizioni che accompagnano ogni evento della quotidianità e della vita intera e coinvolgono e danno voce persino alle cose ed agli elementi.
È da qui che nasce il nostro sacerdozio battesimale, distinto non solo di grado ma anche di essenza da quello ordinato più rapportabile ai cohanìm, ma che ha superato il Sacerdozio di Aronne, perché ogni sacerdote agisce liturgicamente e sacramentalmente in persona Christi ed il nuovo Sommo Sacerdote dell'ordine di Melchisedek è il Signore. Infatti il Sommo ed eterno sacerdozio di Cristo abroga l'ordinamento precedente riferito al sacerdozio di Aronne, a garanzia di un'alleanza migliore... Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva... il Figlio, che è stato reso perfetto in eterno (Eb 7, 22; 26; 28).

Anche nei Vangeli il carattere sacro dell’universo sarà spesso affermato dalle benedizioni pronunciate da Gesù nel corso della sua predicazione. Egli compie allora i riti giudaici che gli sono familiari, il cui scopo è sacralizzare il cibo fornitogli dal creato. Per tre volte benedice il pane e i pesci: Matteo 14,19; 15,36; 26,26 e ancora Marco 6,41; 8,6; 14, 22-25 e ancora Luca in occasione della festa di Pasqua 22,17 e Giovanni 6,11 “Allora Gesù prese i pani, rese grazie e li distribuì a quelli che erano seduti…” Ma il pane che benedice nell'Ultima Cena è il Suo Corpo transustanziato, insieme al Suo Sangue nella benedizione dell'ultima coppa.

Quanto al sabato, “La vigilia del Sabato l’uomo riceve un’anima speciale, che gli rimane fino alla sera successiva: è il “supplemento d’anima” di cui parla Bergson.” Ed è sempre per questo che anche del cristiano apprendiamo che egli è sacerdote profeta e re. Quanti cristiani ne sono consapevoli e vivono questa grande ricchezza e responsabilità, che poi è una particolare chiamata al pari di quella del popolo della prima Alleanza da Cristo Signore portata a compimento in quella Nuova ed Eterna in Lui?


Tornando ad Abram, a differenza di Noè, egli nasce in una famiglia di idolatri (il padre era fabbricante di idoli) considerata luogo impuro. Dalla sua risposta a Dio, che gli si rivela nella sua qualità di El Shaddai= il Potente (con la quale agisce anche nella notte pasquale ebraica) nasce un processo iniziatico, un cammino di trasformazione, che inizia col cambiamento del nome = Abraham l’inserimento della (he) - che ha valore numerico 5 e, fatto significativo, connota energie spirituali prima non presenti; il valore numerico di Abram è 243, aggiungendo 5 =248. È il numero delle membra del corpo umano; quindi riguarda la totalità del suo corpo che viene perfezionata.

È importante sottolineare a questo riguardo che per corpo non si intende la pura carne, materialità, ma quella che Heidegger chiama la “corporeità vivente” della persona, le cui facoltà: (cuore, anima, mente e forze (4) che la nostra cultura connota come intelletto, volontà, libertà e "talenti") nella concezione ebraica sono un tutto inscindibile che si manifesta nell'uomo totale. E così anche quella che l'Apostolo Paolo chiama (sarx), non vuol dire riduttivamente “carne”, cioè solo corpo materiale secondo una inadeguata traduzione letterale, ma denota l’uomo in tutta la sua interezza di corpo e anima dotata di ragione volontà e affettività, sentimento. Noi, per comodità di definizione, le indichiamo separatamente ma forse talvolta le concepiamo e purtroppo le “viviamo” non unificate (quando prevale la razionalità sul sentimento o viceversa, quando il sentimento ci svia o quando lo spirito resta addormentato e la libertà è imprigionata in impulsi non conosciuti e non governati).

Quindi Abramo può iniziare il suo cammino, che certamente è faticoso e impegnativo perché la terra promessa è ancora un luogo ignoto, e non si tratta di omologazione passiva ma della individuazione della propria peculiarità che si delinea nell'ascoltare una voce interna ed esterna : vai, muoviti vai a te stesso e verso la terra promessa. È un cammino caratterizzato e scandito dal dialogo: chiamata-riposta sempre ulteriori.

(Mi viene in mente l’affermazione dei rabbini che Dio ama e ascolta coloro che “si affaticano” nello studio della Torah, mi viene anche in mente l’affaticamento e l’impegno che i cristiani vivono come incarnazione, che ha tappe cruciali immerse nel magma di una quotidianità spesso dolorosa e problematica, ma che sfocia nella Resurrezione).

La seconda grande "icona" dell'uomo in dialogo con Dio: Mosè

Ed ecco l’altro affresco poderoso che si staglia solenne ed incisivo dalla Torah: la chiamata di Mosè e la corrispondente nuova rivelazione di Dio, attraverso una esplorazione del testo biblico nell'originale ebraico. Siamo in Esodo, al Cap.3, 1-18ss.

Mosè era un pastore (nel testo ebraico non è un sostantivo, ma un participio, ad indicare non l’azione di un momento ma la continuità della situazione; il verbo che traduciamo con pascolare significa nutrire, saziare). Egli condusse il gregge al di là del deserto (l’azione del pastore è portare il gregge fuori, al di là del deserto, dove non c’è nutrimento) e venne al monte di Dio.

Gli apparve il messaggero di Adonai in una fiamma di fuoco (stessa radice di leb: nel cuore del fuoco) dal mezzo del roveto, ma il roveto non si consumava.

Voglio (coortativo tipo: let me) andare a vedere la visione quella grande perché non arde il roveto.

Il Signore (Adonai) vide che si avvicinava per vedere e lo chiamò (verbo gridare a voce alta) Dio (Elohim) dal centro del roveto: “Mosè Mosè”. (Adonai [il Signore] vede, Elohim [Dio nel momento della creazione] chiama: vengono usati i termini dell’azione liturgica). Il nome ripetuto indica un contesto solenne. Eccomi, rispose Mosè. Inizia il dialogo incalzante: E (Dio) disse “Togliti i calzari perché il luogo in cui stai è terra di santità (5)  Io sono il Dio di tuo Padre (familiarità)… Mosè nascose il suo volto perché temeva (essere nel timore in senso religioso è essere nella venerazione, atteggiamento di contemplazione e mai indagativo, non scrutare, ma adorare...). Da ora in poi Mosè non vedrà. Ma ascolterà: E Dio parla: Ho veramente visto (guardando, ho visto) l’afflizione del mio popolo, quello che è in Egitto (non un altro) ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Sì, conosco la loro sofferenza (è lo stesso termine delle sofferenze dell’era escatologica, che coincidono con quelle delle doglie del parto). Perciò sono sceso per liberarlo dalla mano (potere) degli egiziani e per farli salire (il verbo dell’alià, la salita a Gerusalemme) da quella terra verso la terra buona (fertile) e ampia, distesa, verso la terra stillante di latte e miele (simbolo di abbondanza).

… “Ora perciò, ecco, il grido dei figli di Israele è giunto fino a me e inoltre ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li opprimono.

Ora perciò va (imperativo non di comando, ma di richiesta perché il profeta è coinvolto nella visione di Dio ed è invitato a prendersi la sua responsabilità) perché ti possa mandare dal Faraone e fa uscire il mio popolo, i figli di Israele, dall’Egitto”.

Chi sono io per andare dal Faraone e far uscire i figli di Israele dall’Egitto?” (Questa domanda dimostra che Mosè ha la consapevolezza della responsabilità della missione e dialoga con Dio).

Nella tradizione di Israele è Adonai che fa uscire; la missione rende partecipe dell’operare di Adonai; consapevolezza che Adonai si serve di chi sceglie. (Il Signore) disse: “Perché io mi faccio presente con te (valore fientico del verbo essere : mi rendo vicino a te) e questo per te è il segno del fatto che io ho mandato te. Quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto servirete Dio sopra questo monte” (garanzia che Mosè è stato mandato da Dio è il culto: la Comunità è portatrice della rivelazione, ha la Torah. Ogni volta che celebra il culto, ha la consapevolezza di essere portatrice della volontà di Dio).

Il segno si trova nel futuro: è realizzando l’esperienza di Dio che si chiarisce sempre di più la chiamata. (faremo e ascolteremo Es, 24,6)

Ecco io vado (lett. sono andante) ai figli di Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi manda a voi. Se mi diranno qual è il suo nome cosa dirò loro?” (Vocazione è un cammino che l’individuo matura prendendo coscienza della responsabilità ). 

Èyèh ashèr Èyèh. Io  mi renderò presente nel modo con cui  mi rendo presente

Che meravigliosa certezza di cammino non più solitario, ma con un Compagno di viaggio speciale nella storia di Israele e in quella personale di ogni credente, che dà luce e senso e anche vigore nella fatica e nelle oscurità ed incertezze che si incontrano nel cammino. È ciò che ci rende collaboratori di Dio nella creazione nuova. La risposta vuole orientare la fede di Israele verso il significato teologico del Nome divino.(6)

Quella d'Israele dunque non sarebbe stata una liberazione ottenuta con mezzi e forze umane, perché nessuna forza e nessun uomo avrebbero potuto ottenere quello che Israele disperava ormai di ottenere: "i figli d'Israele dovevano uscire (con l'intervento) della mano eccelsa" (Es. VI, 1) sicché essi avrebbero imparato a conoscere direttamente Dio, non per astratte verità di teorici insegnamenti, ma attraverso quelle verità che balzano evidenti e rivelatrici dai fatti della storia e dalle esperienze della vita.

Così cominciava ad avere un senso reale la visione del roveto; quella visione non era più un simbolo, ma una realtà perché ora Dio cominciava ad essere vicino ad Israele nel cammino della vita. Dice dunque quell'esordio: "E Iddio parlò a Mosè dicendogli: Io sono e mi rivelai a Abramo, a Isacco, a Giacobbe (sotto gli appellativi) di Dio Onnipotente, ma col mio nome non mi feci conoscere a loro" (Es. VI, 2-3).

I Padri - dice il Signore - mi conoscevano anche sotto questo appellativo del mio nome che racchiude la mia essenza, ma a loro non mi rivelai se non nelle forme universali della mia verità, in quelle manifestazioni in cui Dio è "El" e "Shaddaj", Dio del mondo naturale, e Dio della vita. Ora però è venuto il tempo in cui io mi farò conoscere sotto la mia più vera essenza, cioè sotto l'appellativo Jhwh, che non risponde alla realtà visibile e conoscibile, ma a quell'inconoscibile, che pure egualmente si manifesta. E sotto questa realtà che mi farò conoscere ai figli di Israele, è nel creare cose nuove e fatti nuovi, è nel portare a compimento ciò che sembra impossibile, è nel difendere il diritto e la giustizia, nel sollevare dalla schiavitù l'oppresso, è nel redimere voi, Israele, che io mi farò conoscere: "allora conoscerete che Io sono il Signore" - Allora! solo dopo che Israele mi avrà conosciuto attraverso la sua straordinaria liberazione, solo dopo che avrà appreso le più profonde verità di Dio, allora io lo farò mio popolo, perché allora soltanto egli potrà far tesoro di quanto ha imparato, potrà conoscere e sentire Dio, il vero Dio come la più grande verità e come il suo unico bene, allora soltanto egli potrà chiamarsi "popolo di Dio".

L'ebraismo ha sempre saputo rinnovarsi. Abramo ha affermato l'esistenza di un Dio uno e unico, creatore dell'universo. Mosè e i profeti hanno affermato la libertà e la responsabilità individuali, la legge e l'etica come principi fondamentali della società. Più tardi, tenendo conto della distruzione del tempio, i profeti e i rabbini hanno affermato che la preghiera, lo studio e la giustizia sociale sostituivano i sacrifici. Il cuore dell’uomo sostituiva il tempio.
Il nuovo Tempio, Sacerdote, Altare, Vittima e Sacrificio per noi è il Signore.

Quando Israele pronuncia il Nome di Adonai  pronuncia il Nome di Colui che si fa sempre presente.
Oggi l’Israele di Dio siamo noi cristiani e, in Cristo Gesù, abbiamo il Signore Risorto sempre presente.
Riconosciamo il legame diretto con Colui che era, che è e che viene di Giovanni (Ap 1,9) e con Gesù che dice: “Io sarò con voi fino alla fine dei tempi” Matteo 28,20)

Scaturisce la venerazione del Nome, che non può mai essere usato in modo magico, perché il Signore si rende presente liberamente; se Dio viene liberamente, viene per amore. Viene nell’attesa e nella speranza, modo in cui si realizza l’ascolto. Capire ciò che oggi il Signore dice con la sua venuta. Rimanere in vigile attesa per capire cosa il Signore vuole oggi. Ognuno di noi, secondo la sua funzione e situazione, è mandato, oggi.

C’è un famoso midrash molto bello che serve per non fare discorsi troppo astratti. Dice che la Bibbia comincia con la seconda lettera dell’alfabeto: "Bereshit". Per quale ragione? Eppure, dice, comincia con la creazione. E la prima lettera "Alef" quando arriva? La prima lettera apparirà al Sinai, quando verranno dati i precetti, i comandamenti. Per quale ragione? Perché i comandamenti cominciano con la parola "ANOHI"(7), "Io sono". "Io sono il Signore tuo Dio", la prima lettera arriva lì. Come mai la creazione comincia con la seconda lettpoera e i comandamenti con la prima lettera? Perché non ha valore la creazione, non ha senso, se questo senso non le viene dato dai comandamenti. Bellissimo! Il senso di ciò che esiste, l’orientamento, il valore, è dato dai precetti, ma solo se compresi come dicevamo prima, non precetti come norma, ma come chiamata posta dall’evento del Sinai e dall’evento creativo, e per il mondo cristiano dall’evento redentivo, che esigono una risposta adeguata. Non potremo dare un senso all’esistenza, cioè alla creazione, se non a partire da questi precetti, da queste norme date dai fatti, che vengono espressi attraverso la storia anche mediante una precettistica, una normativa specifica.


Le Sacre Scritture

La Bibbia è il Libro per eccellenza, è il volume che raccoglie i capolavori dell'antica letteratura ebraica ed è l'insieme delle leggi del popolo ebraico e, in parte, dell'umanità. Iddio ha ispirato ai profeti la Sua parola e i suoi insegnamenti e i nostri avi ce li hanno tramandati: così dicono i nostri fratelli ebrei e noi con loro perché è in questa realtà che si innesta la nostra vocazione la nostra fede.

La Bibbia, o Scrittura, (Mikrà) si divide in tre parti principali: il Pentateuco (Torà), i Profeti (Neviìm), gli Agiografi (Ketuvìm). La Bibbia si chiama in ebraico " Ta.Nà.Kh ", che è la parola composta dalle iniziali di queste tre parti.

La Torah è formata da 5 libri e per questo essa è anche chiamata Pentateuco. Fu scritta da Mosè su ispirazione divina e contiene le leggi del popolo ebraico e la sua storia fino alla morte di Mosè. I 5 libri sono: Genesi (Bereshìth); Esodo (Shemòth); Levitico (Vaikrà); Numeri (Bemidbàr); Deuteronomio (Devarìm).

La Torah non è un libro di storia; ma le sue storie sono involucri che racchiudono verità, insegnamenti capaci - se accolti e vissuti - di trasformare profondamente l’uomo. In-segnare = “lasciare il segno in”: verità che si inscrivono indelebilmente nelle profondità del nostro essere; nel leb: il cuore, luogo dell’autocoscienza, delle scelte fondamentali, dell’incontro con Dio ed è da lì che esplode il dinamismo delle energie trasformatrici della persona in cammino.

La lingua in cui è scritta la Torah ha un piano di comunicazione diverso da quelle moderne: le sue lettere costituiscono una sorta di DNA spirituale dell’umanità. Essa rivela il disegno di Dio sul mondo e sull’uomo che vi ha posto come “custode” e “amministratore” dei beni che esso racchiude. I rabbini affermano addirittura che Torah e Ha Shem (il Nome) - Egli sia benedetto - sono una cosa sola.

Non sembra quindi estraneo al grande vuoto o eclissi di valori che caratterizza i nostri giorni il fatto che non ci sono più narrazioni, più storie, più punti di riferimento comuni. Non si è più legati agli archetipi che caratterizzano l’esistenza e di cui l’ebraismo è il portatore e che noi abbiamo ereditato in quanto portati a compimento da Cristo Signore che dat figuris terminum.

I rabbini nominano quattro stadi di comprensione, quattro diversi approcci alla Torah, da applicare all'intera Scrittura. Infatti essa si può studiare a quattro livelli, detti complessivamente Pardès, che diviene un acronimo. Secondo il significato letterale: Peshàt; secondo il significato intimo e allusivo: Rèmez; secondo il significato simbolico che genera le spiegazioni allegoriche, omiletiche o esegetiche: derùsh; penetrando il significato più profondo e nascosto e segreto: Sod.

Non dimentichiamo che i primi Padri della Chiesa non disdegnavano di ricorrere ai Rabbini nel loro studio dell’Antico Testamento. Tra essi S. Girolamo, che con la sua Vulgata ci ha dato una traduzione insuperabile degli antichi testi. La sua vita a Betlemme è costellata di incontri con le scuole rabbiniche, di amore anche per la lingua ebraica e di studio profondo e appassionato.

Nella Torah non c’è un prima e un dopo: la cronologia è di superficie. Gli accadimenti sono collocati in spazio e tempo diverso da quello usuale, sono in qualche modo archetipici e racchiudono significati molteplici. Nel suo svolgimento la durata del tempo dipende dagli impulsi dati dall’uomo e non ha valore fisso al di fuori di lui, che lo vive: cronologia del mondo prevista da Dio e dipendente dall’uomo.

È una ragione in più per non sentirsi a disagio nell’universo. Il tempo non è l’ordine di successione nel quale da oltre duemila anni l’umanità annota scrupolosamente le tappe del suo progresso tecnico e della sua decadenza spirituale, ma possiede l’elasticità dell’autenticità della vita, che non è sempre ed esclusivamente razionalità.

Il verbo semitico infatti, non oggettivizza mai l’azione e non serve solo a constatare un fatto, ma connota piuttosto gli impulsi dell’uomo e la qualità degli eventi, mentre le classificazioni grammaticali prevedono spinte sentimentali come il dubbio o il desiderio, od anche la causalità, la fattitività. Il verbo essere, che per noi assume il significato statico di consistenza, in ebraico non è mai una copula che regge una qualità, in genere è accompagnato dal participio presente corrispondente al contesto e che denota uno stato, una condizione che si realizza in continuità e spesso è anche sinonimo di diventare, rendersi presente. Imperfetto, passato remoto, nella lingua ebraica come in quella aramaica non evocano un momento del tempo, ma il suo movimento; la distinzione che conta è tra il compiuto e l’incompiuto: l’imperfetto indica un’azione in corso di sviluppo, ancora “aperta”, il perfetto un atto concluso, cioè un atto “chiuso”.

Prendiamo un esempio tratto dalla Scrittura, citato da Robert Aron - Gli anni oscuri di Gesù . Si tratta delle parole con cui Adonai, dopo la morte di Mosè, conferma al suo successore Giosuè le promesse fatte ad Israele: “ Ogni luogo su cui passerà la pianta dei vostri piedi, a voi io lo darò, come ho promesso a Mosè”. (Giosuè 1, 3) In italiano passerà, darò vengono tradotti al futuro, mentre in ebraico il primo è un imperfetto, il secondo un perfetto: in effetti l’imperfetto si riferisce ad un’azione che può ripetersi parecchie volte e non sarà mai conclusa: in cambio il luogo, una volta concesso dall’eterno, lo sarà per sempre e la promessa a Mosè è stata effettuata in maniera definitiva. Ne deriva così l’uso dell’imperfetto nel primo caso e del perfetto negli altri due.


Una importante sottolineatura: commemorazione e attualizzazione

Differenza tra commemorazione e attualizzazione, che rende presenti e consente di rivivere con la loro azione trasformante eventi e presenze del passato. La memoria, secondo il sentire ebraico, è intesa nel senso di riattualizzare e far rivivere la stessa realtà, la stessa energia - e gli stati di coscienza ad essa collegati - di eventi passati fondamentali nella «Storia della Salvezza» che si dipana su due versanti: quello individuale e quello collettivo.

Ricordiamo le meraviglie che il Signore ha operato nella nostra vita, la liberazione dai vari tipi di "Egitto" da cui ci ha redento.

L'atto centrale del culto cristiano - l'Eucaristia - trova non solo la sua origine nelle preghiere e nei riti della cena pasquale (benedizione sul pane e il vino) ma anche il suo significato essenziale dal concetto ebraico di « zikkaron » (ricordo e attualizzazione) secondo il quale la presenza salvatrice di Dio è ricordata e attualizzata attraverso il rito di un pasto che sancisce, anticipandola, l'offerta e la consegna di Sé al Padre compiuta sul Calvario e - una volta compiuto il sacrificio redentore reiterato incruentemente su ogni Altare fino alla fine dei tempi - rendendola possibile anche ai Suoi. I Vangeli sinottici implicano che Gesù ha istituito l'Eucaristia durante il Seder pasquale celebrato con i suoi discepoli.

Torniamo al cammino, inteso come percorso personale e storico, individuale e comunitario insieme, che costruisce la persona e il mondo che la circonda e che, come abbiamo visto, è cadenzato dal ritmo diastolico e sistolico dell’ascolto e della risposta: oggetto dell’ascolto è la Parola. Estremamente eloquente è che il termine ebraico Dabàr significa sia parola che fatto: una parola incisiva che produce la realtà che veicola. Le parole della Torah sono pronunciate dalla bocca di Dio. La Torah, secondo l’interpretazione rabbinica del Cantico dei cantici è addirittura il bacio di Dio al suo popolo.

Caratteristica principale della fede ebraica: in ebraico non esiste la parola “fede” nel senso di “credenza”, esiste la parola emunà certezza, da cui deriva Amèn che per un ebreo significa così è (una affermazione, una constatazione che provoca adesione) non così sia (auspicio); certezza che è sperimentazione di una presenza nel mondo e nella storia, frutto di un’Alleanza sancita e rinnovata che implica un coinvolgimento personale di Dio e la risposta dell’uomo “faremo e ascolteremo” Esodo 24,7: così si esprime il popolo dell’Esodo che ha appena ricevuto la Torah. La contraddizione è solo apparente, perché è solo l’azione che rende concreta, trasforma in vita la Parola ascoltata e accolta e così consente di sviluppare sempre più e sempre meglio la capacità di ascoltare e discernere.(8) È una prassi fondata sull’obbedienza (ob audire=ascoltare), un’obbedienza che a sua volta indica e nutre la prassi. È comunque un cammino…

L'Ascolto

Può essere interessante soffermarsi sull’etimologia della parola ebraica orecchio ózen è composta da alef -zàyin - nun. Ogni lettera allude ad un concetto

allude alla divinità
il suo nome è formato dalla stessa radice del parola “zan” = “nutre”
= néfesh che significa anima

L’orecchio (e l'ascolto) è quindi il veicolo mediante il quale il Signore
nutrel’anima

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Israele e la Chiesa

L’importanza dell’apporto giudaico nella genesi e nella formazione della Chiesa conferisce un interesse particolare a quel ramo della cristianità antica chiamato giudeo-cristianesimo. A prima vista lo si potrebbe presentare, come fanno molti autori moderni, come un amalgama più o meno ben riuscito di cristianesimo ed elementi derivanti dal giudaismo. In realtà, gli studiosi che lo esprimono in questo modo, colgono il fenomeno dal di fuori (è come esplorare una miniera da una carta topografica e non cogliere le venature profonde del materiale che si evidenziano e si intersecano differenziandosi dalla struttura più interna delle rocce scavate in profondità sotto la superficie) non riescono a vedere come tra giudaismo e cristianesimo non ci sia cesura, o influssi di vario genere, ma una vera e propria consustanziale continuità. Pur con tutti gli arricchimenti sopravvenuti dall'assimilazione e dagli apporti successivi della filosofie greca e del diritto romano, che fanno del cristianesimo l'unicum che esso è; ma la continuità è nel Figlio Unigenito su cui il cristianesimo si fonda e di cui è portatore..

In realtà la cesura consiste nell’evento di Cristo incarnato nella seno della Vergine, crocifisso, morto e risorto non riconosciuto da una parte dell’Israele di ieri; il che permane nell’Israele di oggi. Si tratta tuttavia di Cristo nato morto e risorto in Israele e nutrito e formato nella sua umanità dalla cultura ebraica e dalla Torah, che Egli non rinnega “non sono venuto ad abolire la legge, ma a portarla a compimento”.
Piuttosto occorre fare la distinzione tra il giudaismo puro, con esclusione di quello spurio, che ha inizio con l'esilio in Babilonia e sfocia, a partire dall’Assemblea di Yavne dopo la distruzione di Gerusalemme, nel giudaismo talmudico o rabbinico, che si è sviluppato contemporaneamente al cristianesimo in una netta differenziazione reciproca.

La terza grande icona: Maria

Dopo le icone di “chiamata” più significative che ci offre l’Antico Testamento: abbiamo contemplato quella di Noè e più dettagliatamente quelle di Abramo e Mosè - più coinvolgenti perché sono quelle che fondano la Storia della Salvezza e delle quali abbiamo colto le caratteristiche salienti del peculiare incontro con Adonai che esse rappresentano - ci si impone, nel Nuovo Testamento, la chiamata di Maria, quella che - per noi cristiani - porta a compimento la Storia della salvezza.

Teniamo presente l’Annunciazione di Luca (1, 26-38). L’annuncio dell’angelo trova una creatura completamente aperta e consapevole di quanto le veniva annunciato: era una ragazza ebrea, e proprio in quanto tale, la sua spiritualità, la sua vita erano intrise di dialogo col suo Signore e di attesa. Dopo il saluto dell’angelo: “Rallegrati (il verbo della gioia messianica), o piena di grazia, il Signore è con te”, a differenza di Mosè, Maria non discute, non mostra dubbi o perplessità; rimane “turbata”, entra cioè in un profondo atteggiamento di “timore” nel senso di venerazione rispetto alla Presenza di Dio e con semplicità “si domandava che significato avesse tale saluto”. La fanciulla  figlia di Sion sa già che la stessa formula “il Signore è con te” è densa di implicazioni forti e coinvolgenti. Quando l’angelo le rivela “Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo Regno non avrà fine”, Maria sa bene cosa significa quel che le viene detto e, dimostrando di essere in dialogo con il suo Signore nel quale ha da sempre riposto tutta la sua fiducia, dialogo pieno di intelligenza e di confidenza, chiede soltanto il “come” il Signore avrebbe operato. È, insieme, un segno di grande consapevolezza e disponibilità a collaborare al meglio, in totale fiducia, sapendo che alla sua povertà di creatura supplisce la Grazia immensa del Signore. E poi ecco la sua risposta che introduce l’umanità nel Regno, nella “creazione nuova” che troverà il suo compimento nell’ottavo giorno, il primo dopo il sabato (Giovanni 20,19) il giorno della Risurrezione: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, che sana per sempre il tragico “non serviar” della caduta.

L'icona della Trasfigurazione

Nell’ultima icona significativa, quella della Trasfigurazione, contempliamo Cristo che, dopo aver adombrato la sua passione, si rivela ai discepoli che dovranno esserne i primi testimoni, nella sua gloria di Risorto (possiamo vedervi il Nuovo Testamento) in un dialogo, che non verrà mai meno e dal quale non si potrà mai prescindere, con Mosè ed i Profeti (l’Antico Testamento)

Nel caso di Gesù la rivelazione è quella della sua persona: la trasfigurazione è lo svelamento del suo essere più profondo. Lo splendore del suo volto e delle sue vesti è l'irradiazione della sua trascendenza e la conferma e la realizzazione delle Scritture, rappresentate da Mosè (la Legge) (cf. Es 34,29ss: lo splendore del volto di Mosè) ed Elia ( i Profeti). Pietro, Giacomo e Giovanni sono ricettori di questa grande visione che li fa simili a quelle grandi figure del passato che gli ebrei del loro tempo facevano destinatari di altrettante rivelazioni celesti: Enoch. Abramo, i 12 Patriarchi, Mosè.

Conclusione

Immaginare la Torah di Cristo, chiamiamola così, cioè la dottrina cristiana e l'etica che ne scaturisce, l'insegnamento che nasce da Cristo, immaginare senza quello del Sinai, (una chiamata che viene dall’incontro con Dio al Sinai, che esige una risposta non tutta contenuta nel Decalogo, ma nel codice dell’Alleanza), dice un grande scrittore "è come immaginare un campanile in cui squillano le piccole campane mentre tace la grande. Non c’è più armonia e non c’è più completezza se si staccano questi contenuti di rivelazione e quindi di etica".

In tutta la sua predicazione e in tutto il suo agire Gesù esprime fedeltà alla Torah e il suo legame con il pensiero rabbinico, che oltrepassa, ma da cui parte. Due significative esemplificazioni, tra le tante che potremmo indicare, fittamente intessute nella trama narrativa dei Vangeli.

Tutto il Discorso della montagna è denso di riferimenti talmudici

“"Con la recita dei «cantici », di cui parlano gli evangelisti e nei quali dobbiamo ravvisare i salmi di lode, che chiudono il banchetto pasquale, ha termine l'Ultima Cena; si conclude cioè quel rito, antico e nuovo nello stesso tempo, quel rito che permette a ogni fedele di partecipare alla nuova e definitiva liberazione, operata dal Signore a vantaggio del Suo popolo. Se l'azzima benedetta e il vino benedetto erano per l'ebreo il modo di riattualizzare in se stesso la redenzione di Israele, anticipando nell'invocazione e nel desiderio il completamento di quella redenzione che il Messia avrebbe portato, le parole nuove, pronunciate da Gesù durante la Cena, il fatto nuovo da Lui operato, il Sacrificio supremo da Lui compiuto, rendono presente quel completamento, culminato nella Risurrezione e nella ricollocazione dell'umanità redenta alla destra del Padre con l'Ascensione e con l'invio del Suo Spirito nella Pentecoste. Quella sera nel Cenacolo gli apostoli hanno potuto rivolgere a una persona divino-umana chiaramente individuata quell'invocazione, nella quale ogni ebreo esprimeva il massimo dei suoi desideri: " Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore! " .

Ancora una volta Gesù inserisce il fatto nuovo che egli compie nel quadro della liturgia giudaica. Come a Nazareth aveva voluto che il culto sinagogale costituisse lo sfondo, su cui annunciare che la salvezza preannunciata dai profeti era presente nella sua persona, così anche il momento essenziale della sua vita terrena, quel momento in cui egli celebra il suo Sacrificio sotto il velo dei segni, lo vuole inserito nella cornice del culto ebraico, culto che egli vive, assomma in sé e perfeziona.

Quella storia della salvezza che il capo della mensa riassumeva brevemente per i suoi commensali, menzionandone l'inizio e il momento determinante dell'esodo, quella storia di cui la predicazione dei profeti faceva intravedere una conclusione al tempo messianico, aveva raggiunto l'epilogo che Israele aveva per secoli invocato. La religione ebraica è essenzialmente messianica, cioè volta all'avvenire, tesa dinamicamente verso il futuro; la storia passata non viene evocata che per rivolgersi verso le cose che avverranno; la storia passata non si riattualizza nel rito che per portarla avanti, verso il momento della sua maturazione. Quella sera, nella "stanza superiore" di una casa di Gerusalemme, quel momento è arrivato; un nuovo periodo della storia della salvezza è iniziato, punto di maturazione e nello stesso tempo punto di partenza, volto all'attesa del completamento finale, verso il ritorno glorioso di Cristo, la parusia.

Se fino a quel momento Israele aveva cercato, attraverso i molteplici mezzi suggeriti dalla Legge, l'unione con Dio, da allora in poi tutti questi mezzi si sarebbero riassunti in due elementi soltanto, quelli pasquali del pane e del vino. Tutte le prescrizioni legali (la circoncisione, il sabato, i filatteri, ecc.), eseguite in obbedienza alla volontà esplicita di Dio, avevano avuto fin allora un valore che potremmo chiamare quasi “sacramentale" per Israele, nel senso che si trattava di segni ( othoth ) esteriori che esprimevano l'unione del popolo con il suo Dio. Da allora in poi tutto ciò si sarebbe ricapitolato nella Persona stessa di Cristo, che lega la sua presenza ai veli del Pane e del Vino, in quella Persona in cui l'unione con Dio diviene reale, in quella Persona che è il Verbo stesso di Dio, cioè l'espressione vivente della Sua volontà, Colui che non è venuto ad abolire la Legge, ma a sintetizzarla in se stesso. “” (ultime notazioni riprese da: Sofia Cavalletti, Ebraismo e spiritualità cristiana, Editrice Studium, Roma 1966, p.172-173)

Maria Guarini per "Le nostre Radici" - San Remo 27.02.2002


NOTE

(1) Notiamo come anche il cristianesimo, a proposito delle prescrizioni evangeliche, parla piuttosto di "consigli evangelici". C'è tutta la libertà dell'uomo, che non è soggiogato dalla legge morale, ma chiamato a rispondervi, corrispondendo così al progetto di Dio per sé e per il mondo in cui è collocato.

(2) In numerosi passi della Scrittura (nei profeti e soprattutto nelle vette irraggiungibili del Cantico dei Cantici considerato dai Rabbini il Santo dei Santi tra i cantici, dei quali è il nono, ed è ritenuto profetico, dal momento che il decimo sarà cantato all’avvento del Re Messia) il rapporto tra Dio e la Comunità del suo popolo assume tutte le caratteristiche e le ricchezze, le tenerezze e la profonda poesia di un rapporto sponsale.

(3) Berakà = benedizione è l'espressione con la quale nel giudaismo è intesa un'offerta di gratitudine, che loda Dio per un beneficio ricevuto, oppure per un grande evento sperimentato.

(4) Per  forze, "talenti", si intendono non soltanto le doti peculiari della personalità di ognuno, ma anche tutta le capacità e potenzialità, anche materiali, di cui ogni persona è portatrice.

(5) adamàh= suolo, terreno fertile, da cui è stato plasmato Adam, l'essere Uomo. Non è usato qui il termine eretz, molto presente sulla bocca e nel cuore del popolo ebraico, che vuol dire patria: Eretz Israel= Terra d’Israele.

(6) Il testo ebraico ci fa uscire dalla nostra traduzione del Nome nella secca espressione  verbale del verbo essere "Io sono colui che è" e  ci introduce in uno spessore, in un dinamismo e anche in un particolare rapporto con il Signore, che - espresso in una traduzione più fedele - si rivela a Mosè dicendo: "Io mi rendo presente come mi rendo presente". È la affermazione di un coinvolgimento che non può lasciarci indifferenti, attraverso una Presenza sempre nuova, in ogni momento della storia del popolo dell'alleanza  e di ogni persona. Essa ci introduce anche nel Mistero inafferrabile, non scrutabile ma soltanto venerabile e da attendere con fiducia, nella consapevolezza di entrare sempre di più nella comprensione della nostra vocazione man mano che si dipana la nostra risposta e si sviluppa il nostro cammino-insieme, la nostra storia personale e di popolo con Lui, nei modi imperscrutabili che solo Lui conosce.

(7) È un enfatico: io è semplicemente anì; anohì sta per "proprio io", "io e non un altro")

(8)  "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica (Giov 13,17)". "Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre" (Mc 3,35: Mt 12,50). Ricordiamo anche l'invocazione del Padre Nostro "sia fatta la tua volontà (Mt 6,10)"

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