La Shoah come ombra sul dialogo ebraico-cristiano
e come stimolo ad esso
Massimo Giuliani, 16 novembre 2004

Questo testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito della serie “La Chiesa Cattolica e l'Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.

Non credo sia una forzatura affermare che la shoà o Olocausto (come si preferisce chiamare tale evento nel mondo anglosassone), in quanto culmine di una multisecolare storia di pregiudizio e persecuzione verso il popolo ebraico in Occidente, costituisca il tema più doloroso e la questione che genera più turbamento tra quegli ebrei e quei cristiani impegnati in un serio e sincero dialogo interreligioso. Ma questo dolore, che sgorga da una memoria storicamente illuminata, e questo turbamento che affiora a livello di coscienza - di ogni coscienza moralmente educata - sono già parte integrante dell'impegno dialogico, sono cioè già elementi costitutivi e costruttivi di quell'apertura all'ascolto e di quella volontà di interagire con l'altro senza le quali nessun dialogo, nessun incontro è possibile. Infatti, nell'ascolto interattivo tra cristiani ed ebrei la memoria del dolore inflitto e subìto durante la shoà, e il turbamento indotto dalla presa di coscienza delle cause vicine e remote che quella tragedia hanno reso possibile, rappresentano addirittura condizioni necessarie affinché l'ascolto sia autentico e lo scambio sincero.

Certo, il dialogo ebraico-cristiano non deve focalizzarsi solo su questa memoria, né fermarsi davanti a questo turbamento; tuttavia, in tale dialogo i cristiani "cominciano" da questa memoria, ben espressa dal documento del 16 marzo 1998 Noi ricordiamo: una riflessione sulla shoà, firmato dalla Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo: "Nel dare la sua singolare testimonianza al Santo di Israele e alla Torà, il popolo ebraico ha grandemente patito in diversi tempi e molti luoghi. Ma la Shoah fu certamente la sofferenza peggiore di tutte... Il fatto che la shoà abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei" (1). L'onestà di porre tale questione e di esaminare quegli atteggiamenti implica l'esporsi al giudizio degli storici, se non della storia, e di fatto ha significato un "lavoro su di sé, sulla stessa auto-coscienza cristiana, che a sua volta ha comportato sofferenza e turbamento. Più di una voce, infatti, ha espresso il dubbio che "la storia", sia pure quella scritta in minuscolo, possa elevarsi a criterio di verifica della fede e di valutazione dei comportamenti cristiani nel passato, sottraendo a Dio il diritto di leggere nelle coscienze e di giudicare gli eventi. Per rispondere a questa obiezione, legittima ma troppo spiritualistica, occorre riflettere ancora sull'unicità della shoà e sul senso della testimonianza alla quale ebrei e cristiani sono stati, in momenti e in modi diversi, chiamati da Dio.

1. Chesbon ha-nefesh: esame di coscienza e giudizio storico

La sapienza cristiana ha sempre insegnato il valore del cosiddetto "esame di coscienza", la pia pratica con la quale fino a pochi anni fa il cristiano usava chiudere le sue giornate come se, trovandosi davanti a Dio, dovesse rendere conto delle proprie azioni od omissioni, nella certezza che la sua propria coscienza fosse un tribunale sufficientemente autorevole a valutare e giudicare, appunto come se fosse davanti a Dio. Ma a cosa varrebbe l'ascolto della coscienza se ignorassimo le parole di ammonimento e i giudizi su di noi che vengono dal nostro prossimo? E' verità psicologico-ermeneutica da tutti accettata che noi siamo e cresciamo grazie al riconoscimento e al dialogo continuo che intratteniamo con il nostro ambiente famigliare, sociale, professionale, politico. La nostra vita è costantemente sotto giudizio dei nostri genitori, dei nostri superiori, dei nostri pari, dei nostri sottoposti... e per un credente, la nostra vita è costantemente sotto il giudizio di Dio, fin da ora. Quello che le escatologie teologiche chiamano "il giorno del giudizio" è di fatto anticipato in ogni preghiera o, in forma liturgica, è celebrato in determinati momenti dell'anno religioso.

Prendiamo a paradigma, ancora una volta, l'esperienza di Israele. Nel giudaismo i dieci giorni che vanno da Rosh ha-shanà a Kippur sono appunto ha-jomim ha-nora'im, i giorni terribili in cui ogni ebreo si sente chiamato in giudizio a render conto di sé e a fare teshuvà (ritorno/pentimento). Ma tale chiamata in giudizio non ha valore solo a livello individuale. Essa è ancor più evidente a livello comunitario, attraverso le esperienze dei digiuni che ricordano le tragedie collettive (la distruzione dei due templi, la minaccia di Aman...) ovvero gli atti di punizione e di misercordia divini. La missione di Israele è costantemente sotto il giudizio di Dio, ma in modo non meno costante e urgente si trova sotto il giudizio delle nazioni, che di quella missione restano i beneficiari ultimi (Gen 12,3: "In te [Abramo] saranno benedette tutte le famiglie [le nazioni] della terra"). E' la vocazione universale di Israele, è il significato più profondo della sua testimonianza, ed è ciò che Hitler intendeva sradicare: la memoria dell'elezione e il dovere della testimonianza di Israele. Ora, l'essere sotto il costante giudizio delle nazioni per Israele è quasi una condizione di esistenza, un esame che non finisce mai, il prezzo della stessa elezione. Chiamato ad essere "luce delle nazioni" (Is 42,6; 49,6), Israele in un certo modo deve rendere conto di sé - essere responsabile, direbbe Levinas; "il responsabile delle risorse umane" secondo l'emblematico titolo dell'ultimo libro di Abraham B. Yehoshua - deve rispondere al resto dei popoli, i quali guardano ad Israele come si guarda a oriente in cerca della luce. Cosa vuol dire? Che la testimonianza di Israele deve "passare l'esame" delle nazioni? No, perché la fonte di quella testimonianza è la Parola divina che chiama. Nondimeno, Israele non è libero di sottrarsi a quell'esame, perché lo sguardo fisso delle nazioni custodisce la verità stessa di quella missione, è la contro-prova del valore di quella testimonianza. Nella coscienza biblica e rabbinica, Dio non esita addirittura ad usare le nazioni contro Israele, per ricordare ai bene' Israel la loro chiamata e la loro verità, e per richiamarli alle loro responsabilità.

Alcuni pensatori contemporanei hanno addirittura applicato questo paradigma tradizionale agli ebrei che vivevano nella Germania nazista e hanno visto in Hitler uno strumento della punizione divina. Non è qui il luogo per discutere e problematizzare tale paradigma teologico, ma esso mostra a quale limite può spingersi la coscienza di essere costantemente sotto il duplice giudizio di Dio e delle nazioni, oggi diremmo di Dio e della storia. La verità su noi stessi dunque non è, non può essere meramente auto-referenziale, ma diventa una "chiamata alla nostra verità" nella misura in cui ci apriamo all'altro, accettiamo di essere nella sua prospettiva e di stare sotto il suo sguardo. In una parola, diventiamo noi stessi quando accettiamo che l'altro ci guardi e ponga così il suo giudizio su di noi. L'auto-coscienza dei cristiani e, in generale, la testimonianza delle chiese non fanno eccezione. La loro verità non è mera auto-referenza ma apertura all'alterità divina e disponibilità/responsabilità verso coloro cui tale verità è destinata. Perché dunque stupirci se le parole e le azioni e le omissioni della comunità cristiana sono vagliate, scrutate, giudicate, criticate, e a volte perfino marginalizzate o irrise? Non è questo l'ordine della cose, ovvero l'ordine di quella diaconìa che offre senza imporre, che dà senza preoccuparsi di avere indietro, che semina su ogni terreno ben sapendo che né il fruttificare né il raccogliere dipende da noi? La richiesta di perdono di Giovanni Paolo II verso gli ebrei discriminati e perseguitati in nome della croce di Cristo è emblematica di questa "maturità" della testimonianza e della coscienza cristiane, che non temono il giudizio storico, anzi che intenzionalmente vi si espongono per "purificarsi" dagli eccessi di auto-refenzialità e per approfondire la verità su se stesse. Quel gesto, culminato nella visita al kottel ha-ma'aravi (Muro Occidentale) di Gerusalemme e simbolo tra i più alti del messaggio giubilare nell'anno 2000 dell'èra cristiana (il 5760 del calendario ebraico), è una pietra miliare del dialogo ebraico-cristiano insieme alla Dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965), alla visita di questo stesso papa alla sinagoga di Roma (1986), all'istituzione ufficiale di rapporti diplomatici tra Stato di Israele e Santa Sede (1993) e al citato documento Noi ricordiamo (1998).

2. shoà: bancarotta dell'insegnamento cristiano?

E' in questa disponibilità a vivere sotto lo sguardo altrui, ovvero disponibili al giudizio dell'altro, che i cristiani possono e devono ascoltare la critica che alcuni autorevoli pensatori del giudaismo contemporaneo hanno mosso alla cristianità in luce della tragedia della shoà. Queste critiche, a differenze della polemica sul "silenzio" e sui presunti "peccati di omissione" di Pio XII, non sono di questi ultimi anni ma datano all'immediato secondo dopoguerra, quando in molti, ebrei e cristiani, in Israele come in Germania e nel resto d'Europa, prevaleva l'istinto della rimozione e il bisogno di dimenticare gli orrori della guerra e l'inferno di Auschwitz. Citerò qui solo poche ma emblematiche voci. A cominciare da quella di Emmanuel Levinas, che nel 1950 scriveva, senza alcun sentimento anti-cristiano ma con distaccato senso della storia europea (corsivi miei):

"In mezzo a tanti altri orrori, lo sterminio di sei milioni di esseri umani senza difesa, in un mondo che il cristianesimo in duemila anni non è riuscito a rendere migliore, sottrae ai nostri occhi [di ebrei] molto del prestigio legato alla sua conquista dell'Europa. Certamente non potremo mai dimenticare la purezza degli atti individuali di cristiani - un numero impressionante - che hanno salvato le nostre vite di sopravvissuti durante quegli anni terribili. Non potremo dimenticare il coraggio della gerarchia [cattolica] francese. Ma non si può contestare l'insuccesso - sul piano politico e sociale - del cristianesimo" (2).

E due anni dopo, nel 1952, parlando del "povero" XIX secolo quando "una coscienza morale europea esisteva davvero", lo definiva, in opposizione al XX, come "epoca felice in cui secoli di civiltà cristiana e filosofica non avevano ancora mostrato, nell'avventura hitleriana, la fragilità delle loro opere" (3). Ancor più severo, nel bilancio sull'esperienza cristiana in prospettiva della shoà, è il pensatore ortodosso Eliezer Berkovits, che si spinge a parlare di "bancarotta morale e spirituale della civiltà e della religione cristiane". Scrive Berkovits nel volume With God in Hell, del 1979:

"Dopo diciannove secoli di cristianesimo, lo sterminio di sei milioni di ebrei, tra cui un milione e mezzo di bambini, eseguito a sangue freddo nel cuore stesso dell'Europa cristiana, incoraggiato dal silenzio criminale di quasi tutti i membri delle chiese (incluso l'infallibile Santo Padre di Roma), fu il culmine naturale di tale bancarotta. Una linea diretta conduce dal primo atto di oppressione contro ebrei e giudaismo nel IV secolo all'Olocausto del XX secolo" (4).

E anche il filosofo Emil L. Fackenheim, che non mancò mai di sottolineare il coraggio cristiano contro il nazismo e a favore degli ebrei perseguitati di personalità come il pastore Julius van Jan di Wurtemberg, o del canonico Bernhard Lichtenberg di Berlino, o del teologo della chiesa confessante Dietrich Boenhoffer, tuttavia, non potè fare a meno di chiedersi: cosa i cristiani avrebbero potuto fare? La risposta fu: forse nel 1942 era troppo tardi, ma non era troppo tardi nel 1935,

"quando le Leggi di Norimberga elargirono lo status di 'ariano' a tutti, tranne ai cristiani 'non-ariani', e la chiesa lo accettò al prezzo di abbandonare i 'non-ariani' al loro destino vogelfrei. Davvero - se il termine kairos designa per il cristiano quei momenti in cui la fede è posta in gioco - davvero il 1935 fu un autentico kairos. Ma la chiesa lo mancò" (5).

Questi giudizi, severi ma moralmente legittimi se si accetta una visione dialogica dei rapporti interreligiosi, mostrano come la shoà sia stata percepita fin dall'inzio come emblema di fallimento e di bancarotta del messaggio cristiano, e come la memoria di tale evento - che il Papa ha definito "indelebile macchia" e "indicibile iniquità" (6) - possa costituire, almeno a livello psicologico ma non raramente anche a un livello più religioso, un ostacolo ad una relazione serena tra le due comunità di fede ed una pietra di inciampo nello stesso dialogo. Ma al contempo, la presa di coscienza di questo ostacolo è stata l'occasione di un cambiamento profondo nella prassi e nella dottrina cristiane, che è divenuto vera e propria svolta epocale. Lo ha riconosciuto prima di morire lo stesso Fackenheim, con parole che inaugurano anche un modo comune, per ebrei e cristiani, di guardare a quell'evento. Secondo il filosofo tedesco-canadese-israeliano, infatti,

"con tale assalto da parte dei nuovi pagani ad entrambe le nostre fedi, quella ebraica e quella cristiana, qualunque cosa ci abbia divisi nel corso di quasi due millenni doveva semplicemente giungere a una fine. Doveva nascere una nuova realtà ebraico-cristiana, un nuovo legame tra le due alleanze, quella ebraica e quella cristiana, tra ciò che, decenni più tardi, il teologo protestante Roy Eckardt avrebbe chiamato il fratello maggiore e il fratello minore" (7).

Noi oggi viviamo, quasi per miracolo, questa nuova realtà - un diverso rapporto storico tra giudaismo e cristianesimo - che è stato forgiato dalla presa di coscienza del significato morale e religioso della shoà, e che ha saputo trasformare quell'evento tragico da supremo ostacolo in organo, in strumento per così dire privilegiato per comprendere ciò che andava assolutamente cambiato e ciò che andava valorizzato e riapprezzato. È quasi impossibile in breve spazio riassumere le molteplici, ubique e complesse tappe di questo processo di trasformazione (dovuto in buona misura alla shoà) che in linguaggio religioso chiamiamo "cammino di teshuvà" cristiana. Per non tacerne del tutto, sceglierò alcuni passi che credo tra i più significativi, e che possono, se letti sinotticamente, giustificare l'espressione sintetica adottata da padre Francesco Rossi De Gasperis, uno dei protagonisti viventi del dialogo ebraico-cristiano e a suo modo una guida in quel cammino di teshuvà: "Mai prima d'ora si era parlato così" nella chiesa, nelle diverse chiese dell'oicumene cristiana, a riguardo di ebrei e di giudaismo. Infatti, "la laboriosità, la lentezza e la fatica dei percorsi seguiti dalle differenti comunità cristiane per correggere il loro cammino e riscoprire, riapprezzare e riconoscere con gratitudine la loro radice santa, testimoniano di quanto ce ne fossimo allontanati lungo due millenni di cristianesimo" (8). Vi sarebbe stata la shoà se tale auto-correzione nelle istituzioni e nelle coscienze cristiane fosse iniziata prima? Mi jodea' - chi sa?

3. "Mai prima d'ora si era parlato così".

Documentare l'impatto della shoà sull'auto-coscienza cristiana in generale, e sulla riflessione teologica che l'ha accompagnata in particolare, richiederebbe di percorrere criticamente l'intera storia dei recenti rapporti ebraico-cristiani, soprattutto a partire dagli anni Ottanta. E' in quel decennio, infatti, che si sviluppa a livello mondiale un'attenzione speciale alla tragedia degli ebrei durante la seconda guerra mondiale; è in quegli anni che si svolge il dibattito sull'unicità di quell'evento sia in rapporto alla storia generale sia in rapporto alla trimillenaria storia ebraica; è in quel momento che anche le chiese - la cattolica inclusa - cominciano a mettere la shoà nell'agenda dei colloqui, dei convegni, delle giornate di studio su temi legati al giudaismo. Non che prima il tema fosse del tutto trascurato, ma solo nel corso degli anni Ottanta esso assurge a tema centrale dell'auto-coscienza ebraica contemporanea, e dunque nei rapporti religiosi e culturali, soprattattutto nel Nord America e in Europa, tra cristiani ed ebrei. Vorrei qui accennare ad alcuni passaggi emblematici offerti in ambito cattolico, scusandomi per l'arbitrarietà. Ma spero che questo florilegio possa risultare storicamente illuminante. Nell'agosto 1987 Giovanni Paolo II scrisse al presidente dei vescovi americani Mons. John L. May alla vigilia del suo viaggio negli States, sottolineando come "le sofferenze del popolo ebraico e la shoà siano oggi dinanzi agli occhi della Chiesa, di tutti i popoli e di tutte le nazioni come un ammonimento, una testimonianza e un grido silenzioso... [mostrando] a quali conseguenze può portare la mancanza di fede in Dio e il disprezzo per l'uomo creato a Sua immagine" (9). Contemporaneamente, anche le chiese protestanti si aprono a una revisione della proprie "teologie del giudaismo" con posizioni e documenti molto innovatori. Nel Usa, inoltre, erano state da poco gettate le fondamenta del nuovo Holocaust Memorial Museum, che sorgendo sul Mall di Washington D.C. accoglie di fatto la shoà tra gli elementi della civil religion pluralistica tipica della società statunitense. Questi semi di riflessione sulla shoà sarebbero maturati sia a livello pastorale che a livello più teologico nel corso degli anni Novanta, quando anche alcuni episcopati cattolici prendono posizione sulla questione della shoà (integrando di fatto il mancato riferimento a questa tragedia da parte del Catechismo della Chiesa Cattolica fresco di stampa). Da queste posizioni, si distingue per determinazione il testo redatto nel 1994 dai vescovi ungheresi e firmato insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese in Ungheria dove l'Olocausto è definito "un peccato imperdonabile", espressione tra le più dure che siano mai state usate dalla gerarchia cattolica per condannare la shoà. Nel 1997 furono alcuni esponenti dell'episcopato francese a fare una "dichiarazione di pentimento" verso gli ebrei francesi presso il memoriale del campo di Drancy. In essa si legge qualcosa di molto coraggioso e inedito per lo stile ecclesiastico:

"Oggi confessiamo che questo silenzio fu una colpa. Come pure riconosciamo che allora la Chiesa in Francia venne meno alla sua missione di educatrice delle coscienze, e che per questo essa porta insieme al popolo cristiano la responsabilità di non aver prestato soccorso sin dai primi momenti, quando la protesta e la protezione erano possibli e necessarie, anche se in seguito vi furono innumerevoli atti di coraggio. E' un fatto che noi oggi riconosciamo. La debolezza della Chiesa di Francia e la sua responsabilità verso il popolo ebraico fanno parte della sua storia. Noi confessiamo questa colpa".

Se non vi fosse questa molteplicità di prese di posizione, a volte più sfumate come quelle dell'episcopato polacco, a volte più esplicite come quella sopra menzionata, le parole dello stesso papa sarebbero meno credibili e di circostanza apparirebbe la solenne richiesta di perdono a Dio del 12 marzo 2000, allorché a nome della Chiesa tutta Giovanni Paolo II si dichiarò addolorato "per il comportamento di quanti [cristiani cattolici] nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli [cioè gli ebrei]", una richiesta di perdono che subito si trasformava in impegno per "un'autentica fraternità con il popolo dell'alleanza".
Come non sentire in queste parole l'eco altrettanto coraggiosa della riflessione del pastore protestante Martin Stoehr: "Noi cristiani non potremo mai più lasciarci alle spalle Auschwitz, né potremo andare oltre Auschwitz da soli, ma soltanto in compagnia delle vittime". Davvero, mai prima nella bimillenaria storia della chiesa, o meglio delle chiese, si erano udite cose simili. La magnitudine e la gravità della shoà, esplicitate ormai in una biblioteca di studi storici e di documentazione irrefutabile, in questi gesti e parole della chiesa cattolica - non meno che nei gesti e nelle parole di tutte le altre chiese cristiane - sono indice chiaro della verità di quel che già nel 1950 Levinas scriveva: "L'ampiezza religiosa [della shoà] è destinata a segnare il mondo per sempre" (10). Non diversamente si esprimeva a Gerusalemme nel 1994, in un simposio interreligioso tra esponenti del giudaismo e delle diverse comunità cristiane, il Card. Joseph Ratzinger, per il quale "Auschwitz risulta un punto di non-ritorno per ogni riflessione contemporanea sui rapporti tra ebrei e cristiani" (11). Idea che lo stesso cardinale riprende anche in altro autorevole luogo, come la Prefazione al testo della Pontificia Commissione Biblica su "Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana" dell'estate 2001. Anche in materia di esegesi biblica e di ermeneutica delle Scritture, il Card. Ratzinger riconosce che la shoà ha modificato l'approccio cristiano tradizionale.

"Il dramma della shoà ha collocato tutta la questione [dell'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento] in un'altra luce. Due problemi principali si ponevano [alla Pontificia Commissione Biblica]: Possono i cristiani dopo tutto quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto rispettosamente e umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò che è avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare un'ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo?" (corsivi miei) (12).

Sono, queste, domande che spingono i cristiani - che abbiano compreso il senso profondo della più grande tragedia della storia ebraica, e in virtù del legame che unisce spiritualmente e per sempre il popolo della Bibbia e del Talmud ai battezzati nel nome di Gesù Cristo - a ripensare la propria stessa identità, a ripensare la propria interpretazione delle Scritture rivelate e dunque a riscoprire "la radice santa che ci porta", quell'Israele "secondo la carne", ovvero secondo la storia, di cui parla l'apostolo Paolo con il più alto pathos teologico ed esistenziale. La shoà da ostacolo al dialogo ebraico-cristiano è diventata non solo stimolo a riscoprire e riapprezzare Israele, i suoi testi e le sue tradizioni, mettendo i cristiani in grado di dialogare con gli ebrei, ma è divenuta ancor più radicalmente pungolo e chiave per un'auto-analisi e un "lavoro su di sé" che tocca un po' tutte le componenti dell'identità cristiana: dall'ermeneutica delle Scritture alla cristologia, dalla riflessione ecclesiologica alla stessa liturgia.

4. Quali sono le implicazioni della "grande teshuvà" della Chiesa alla luce della shoà?

Prima di riflettere sulle implicazioni teologiche e pastorali, per cristiani ed ebrei, del fatto che la shoà sia stata il culmine della lunga storia di antigiudaismo e antisemitismo dell'Europa cristiana, è forse opportuno fermarsi a riflettere sul significato religioso di quel tentativo di sterminio totale del popolo ebraico. E' solo scrutando quell'abisso di male - indipendentemente dalle nostre teodicee e dalle nostre filosofie della storia - a partire dalla comune radice di fede abramitica che potremo, forse, cogliere la radicalità di quelle implicazioni. È ancora Fackenheim ad aiutarci in questa fatica di "scrutare l'abisso del male" senza perderci in esso, come avviene a chi guardi troppo a lungo la Gorgone. Nel suo intervento al simposio internazionale su "Il bene e il male dopo Auschwitz" tenutosi a Roma, in queste stesse aule dell'Università Gregoriana nel settembre 1997, Emil Fackenheim disse:

"L'Olocausto fu un'aggressione contro l'alleanza di Abramo, l'unica [aggressione] veramente radicale che sia mai esistita. [...] Ma che cosa significa aggredire l'alleanza di Abramo, che rappresenta proprio il punto di partenza di tutta la Heilsgeschichte, e che cosa significa minacciare di porvi fine per sempre? Questo non ha precedenti [nella storia] e la teologia non vi era preparata. Ma il Dio di Abramo non è anche il Dio dei cristiani? E Ismaele [ossia, il capostipite dei musulmani] non è figlio del patriarca? L'attacco dei nazisti contro gli ebrei era anche la loro prova, quella cioè dei cristiani e dei musulmani, ma questi ultimi non l'hanno riconosciuta come tale e hanno abbandonato gli ebrei" (13).

Fackenheim allude in questo passo alla narrazione delle grande prova di Bereshit/Genesi 22, racconto nel quale Dio chiede ad Abramo il sacrificio del suo figlio unico, l'amato Isacco. Una prova durissima, nella quale la risposta positiva di Abramo fu pronta, risposta in virtù della quale Isacco fu salvato per intervento divino dal coltello del padre. Proprio questo racconto, noto come la 'aqedat Jizchaq o "legatura di Isacco", è servito alla teologia ebraica per lamentare che, ad Auschwitz, milioni di giovani Isacco, altrettanto innocenti e altrettanto ignari della "prova divina", non furono salvati come il prediletto di Abramo. Nessuna di quelle 'aqedot ebbe l'happy end del racconto biblico, e oltre un milione di bambini ebrei morirono la morte dei martiri senza neppur poter scegliere il martirio. Ora, Fackenheim si spinge oltre questa lamentazione verso il cielo per il miracolo mancato. Il filosofo ebreo si spinge a coinvolgere cristiani e musulmani nella terribile scena di quella 'aqedà collettiva che fu Auschwitz, chiamando in causa la loro indifferenza se non la loro complicità con il coltello dell'assassino. In tal modo, questi "fratelli minori" del popolo ebraico, le cui rivelazioni - Nuovo Testamento e Corano - affondano le loro radici nella comune eredità biblico-ebraica, hanno in qualche modo mancato la prova, e a differenza di Abramo hanno rischiato - per usare la famosa metafora wittgensteiniana - di recidere il ramo su cui stanno seduti, o se si preferisce, di sradicare l'olivo sui cui sono innestati. Se volgiamo questa riflessione in positivo, Fackenheim sembra suggerire che solo chi sa custodire gli ebrei da simili attacchi, solo chi non abbandona gli ebrei nel momento del pericolo, difende l'alleanza abramitica a cui, per grazia, è stato ammesso.
Proprio per il suo andare alla radice ovvero al patto da cui ebbe origine questa Heilsgeschichte dell'umanità e per il suo connettere, anzi cortocircuitare i tre luoghi-simbolo di Sion, Sinài e Auschwitz, questa riflessione ci permette ora di meglio comprendere che esistono, nel cono d'ombra gettato dalla shoà, alcune implicazioni religiose e teologiche per le chiese cristiane. E non v'è dubbio che la "grande teshuvà" - la richiesta di perdono ma soprattutto il superamento dell'insegnamento del disprezzo verso gli ebrei, tramutato in insegnamento della stima e del mutuo dialogo - sia la prima e la più importante di queste implicazioni. Nondimeno, a partire da questa svolta nuove domande sono sorte, nuovi orizzonti ermeneutici si sono aperti. A tali domande e a tali orizzonti le teologie cristiane fanno ancora fatica a rispondere, e ciò è del tutto comprensibile. Infatti, mentre quasi tutti i teologi e i pensatori cristiani concordano che, dopo la shoà, non si può più "fare teologia" come se Auschwitz non ci fosse stata, tuttavia pochi hanno saputo indicare in quali nuove direzione costruire percorsi teologici capaci di integrare la lezione della shoà, capaci di ripensare l'identità cristiana alla luce dell'insegnamento di stima degli ebrei, capaci di articolare l'unicità della redenzione cristiana con il riconoscimento dell'autonomia e della legittimità dell'economia redentiva/santificatrice del popolo ebraico.
Se la shoà ha costretto i cristiani a ritrattare il ruolo degli ebrei all'interno stesso dell'economia cristiana di rivelazione e redenzione, e a rivalutare in nuova prospettiva i diversi significati delle Scritture ereditate dalla tradizione ebraica, è inevitabile porsi - come ha fatto il Gruppo interconfessionale Teshuvà di Milano (14) - le seguenti domande:

1. Quali conseguenze comporta l'accettazione della perennità del Sinài per la definizione dell'identità cristiana?

2. Quali conseguenze per la fede cristiana vi sono quando si riconosce l'autonomia dell'Antico Testamento rispetto al Nuovo? E quale rapporto, allora, stabilire tra i due Testamenti in sede ermeneutica?

3. Quale la possibilità ecumenica che le Chiese hanno nell'affrontare insieme il processo di ridefinizione della propria identità rispetto a Israele?

Certo, rispondere a queste domande ed esplorare il nuovo orizzonte di "senso religioso" aperto dalla shoà è compito arduo e fonte di inquietudine, perché si tratta di ripartire da una crisi, da un "giudizio storico" che per il cristianesimo, come abbiamo visto sopra, si è rivelato molto severo. Ma proprio la tradizione biblica ci insegna che ricominciare è esperienza tipica dell'alleanza con il Dio di Israele, che fare teshuvà significa cambiare strada, che avventurarsi nel deserto delle nostre certezze e affidarsi alla sola forza della Parola è appunto il cuore dell'esperienza di fede. Valgono allora qui le parole emblematiche del pastore evangelico Martin Cunz, protagonista europeo del dialogo ebraico-cristiano, troppo precocemente mancato. Cunz fu non solo un practitioner di questo dialogo, ma anche un teorico, un critico, un teologo in senso forte del nuovo rapporto tra l'Israele vivente e i credenti nell'Evangelo di Cristo. Nelle sue parole c'è la sferza verso la pigrizia teologica di chi ha paura di mettersi in discussione e crede più facile difendere le mura della propria cittadella identitaria, ma v'è anche il balsamo dell'intuizione vera, della visione purificata, dell'intelligenza che va oltre se stessa. Nelle parole di Cunz, dunque

"dopo Auschwitz, ci troviamo come il popolo di Israele che, sotto la guida del più alto funzionario della religione [Aronne], aveva fatto la danza attorno al vitello d'oro, dinanzi alla parola di Dio frantumata in mille pezzi. Ebrei e cristiani oggi devono salire sul monte Sinài per incontrare di nuovo il Dio d'Israele e per riscrivere la Torà, non più scritta dalla mano di Dio ma dalle nostre mani" (15).

Non si tratta, come personalmente ho detto altre volte, di scrivere una "teologia della shoà" e neppure, a ben vedere, una "nuova teologia cristiana del giudaismo" (seppure, forse, di questa si senta in effetti il bisogno, appunto in quanto nuova). Mettere la shoà nell'agenda di ogni futura teologia non significa aggiungere un tema in più alla riflessione cristiana, ma aggiustare l'intera prospettiva del fare teologia: l'incontro con Israele e con la sua sofferenza, causata da secoli di pregiudizio antiebraico di matrice cristiana, costringe la comunità dei seguaci di Gesù a ripensarsi alla radice, anzi a ripensare la radice stessa che la porta, secondo l'espressione paolina (Rom 11,18). In questo senso davvero la shoà è un evento tanto ebraico quanto cristiano. Essa appartiene all'unica storia di salvezza dell'umanità in cui credono, seppur in modi diversi e sulla base di diverse Scritture, gli ebrei, i cristiani e i musulmani.

5. Per una "memoria religiosa" della shoà: alcune avvertenze per i cristiani

Negli ultimi anni l'Europa ha dato segnali forti per impedire che la shoà, con il suo carico di sofferenze e di ammonimenti affinché una cosa simile non si ripeta mai più, cadesse nell'oblio e diventasse solo una delle tante memorie del nostro passato. Grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, al lavoro degli storici e alla accresciuta "coscienza etica" di tutto il mondo occidentale - coscienza che nasce non da ultimo da una assunzione di responsabilità e di colpe verso quel passato - la shoà viene ricordata ogni anno con cerimonie pubbliche, con lezioni scolastiche a tutti i livelli, con articoli e libri. L'istituzione del 27 gennaio come giornata della memoria è un fatto che parla chiaramente di questa acquisita consapevolezza: la shoà fa parte della nostra storia e la sua "triste lezione" è ormai parte dell'identità civile dei cittadini europei. Ma proprio questo fatto così politicamente nuovo e culturalmente avveduto non può non far sorgere la seguente domanda: stiamo forse correndo il rischio che la memoria civile oscuri e rimuova l'altrettanto doverosa memoria religiosa di questo evento? Che la dimensione culturale, necessaria e universalizzante, offuschi la dimensione più specificamente teologica di quest'evento dimenticando appunto la dimensione essenzialmente religiosa - cioè ebraica - delle vittime del nazismo? Certo, non tocca alle autorità civili ricordare questa dimensione o lavorare perché si sviluppi, accanto a quella civile, una memoria religiosa della shoà. Tocca invece e in maniera urgente alle autorità religiose, e segnatamente alla leadership pastorale e teologica delle chiese, non trascurare che si sviluppi una nuova consapevolezza del legame profondo tra ebrei e cristiani nel solco di quel terribile tentativo di recidere per sempre, alla radice, la pianta di Israele. In Italia, il 17 gennaio è una giornata istituita apposta per meglio far conoscere ebrei e giudaismo ai cattolici, e dunque è sede appropriata per ricordare anche la tragedia della shoà. Ma forse altro resta da fare affinché accanto alla memoria civile sorga una più ampia memoria religiosa, tesa a rinsaldare il legame di affetto e di stima che unisce il variegato mondo cristiano all'altrettanto variegato mondo ebraico.

A questo proposito è sempre utile rileggere i consigli dati, venticinque anni or sono, da Alice Eckardt in un articolo che metteva in guardia i cristiani da un modo sbagliato di fare memoria della shoà. Proprio la storia quasi bimillenaria dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo (e non la recente manìa del politically correct applicata alla vita delle chiese) suggerisce che esistono modi appropriati e modi non appropriati di presentare e parlare della shoà e della sofferenza ebraica. Dopo aver spiegato come tale evento non debba essere separato dal ritorno degli ebrei a una vita nazionale autonoma in terra di Israele, con la rinascita di uno stato indipendente (1948), la Eckardt insiste che entrambi questi eventi storici del popolo ebraico di oggi vengano considerati "faith-orienting experiences" ovvero esperienze capaci di orientare, anzi di ri-orientare, la fede non solo ebraica ma anche cristiana. Ciò premesso, quali sono i consigli per i cristiani che, avendone colto l'importanza, si accingono a fare una memoria non solo civile ma anche religiosa della shoà, sia durante incontri educativi sia durante cerimonie o atti liturgici in luoghi sacri? In questa sede vorrei sottolineare almeno tre consigli dati dalla Eckardt, che nel corso del tempo non hanno a mio avviso perso valore.

  1. Anzitutto, i cristiani che facciano una memoria religiosa della shoà debbono stare attenti a non "cristianizzare" quest'evento. Cosa vuol dire? Semplicemente, stare attenti a non usurpare il carattere storicamente ed essenzialmente ebraico di una tragedia nella quale, come ricorda spesso Elie Wiesel, "se non tutte le vittime erano ebree, nondimeno tutti gli ebrei erano vittime". È facile, a livello religioso, appropriarsi della memoria altrui a fin di bene, per sottolineare che anche noi siamo coinvolti. Vero, Auschwitz fu anche un evento cristiano nel senso che abbiamo visto sopra: l'antigiudaismo cristiano non è estraneo alla pavimentazione della strada che ha condotto gli ebrei europei nei ghetti, nei campi di concentramento e infine nelle camere a gas e nei crematori... E cristiani, o figli di cristiani, erano gli assassini. E cristiani erano i cosiddetti by-standers, gli osservatori indifferenti e passivi di quella tragedia. Nonostante ciò, la memoria della shoà resta prima di ogni altra considerazione una memoria collettiva e inalienabile dell'odierno popolo ebraico, e come tale un patrimonio di dolore sacro che non va violato neppure in nome di Dio, peggio ancora in nome di una diversa interpretazione - cristiana appunto - del Dio di Israele e della sua rivelazione. Saggia e teologicamente significativa fu la decisione di questo papa di chiedere alle carmelitane di Auschwitz di spostare il proprio convento per non "occupare", anche solo fisicamente, lo spazio del dolore e della memoria delle vittime ebree, che in quel campo furono la stragrande maggioranza. Accettare la shoà come sfida per la teologia cristiana significa non de-ebraicizzare l'evento ed aprire la mente e la prassi della chiesa a un diverso rapporto con il popolo dell'alleanza biblica mai revocata, anzi rinnovata dagli ebrei nonostante Hitler e a dispetto del progetto nazista di sterminio.
  2. Secondo, i cristiani che facciano memoria religiosa della shoà si guardino dal trasformarla in una dimostrazione trionfante della verità del cristianesimo sul giudaismo. Non si tratta qui solo di mettere al bando ogni atteggiamento per il quale la shoà dimostri che gli ebrei sono stati "puniti" da Dio per aver rifiutato il cristianesimo - sarebbe il peggior continuismo teologico - idea inaccettabile proprio come "causa indiretta" della secolare sofferenza ebraica culminata nei campi di sterminio nazisti. Si tratta soprattutto di evitare gli eccessi cristologici per i quali le sofferenze ebraiche siano considerate significative alla luce della passione di Cristo, come se Auschwitz non fosse che una tappa dell'economia di salvezza cristiana. Anche il ricordo, per altro pienamente legittimo, della santità di Massimiliano Kolbe o di Edith Stein non può far obliare il quadro generale di Auschwitz, dove agli ebrei venne impedito non solo di vivere ma anche di morire da martiri. Un troppo disinvolto uso del racconto del bambino impiccato ad Auschwitz, narrato da Elie Wiesel nel suo libro-testimonianza La Nuit, può incorrere in questo rischio.
  3. Da questo esempio si ricava un terzo consiglio, che la Eckardt riassume così: non usare testi ebraici per poi criticarli o interpretarli allo scopo di soddisfare una (presunta) prospettiva cristiana. Forse si tratta di un'estensione dei primi due principi, ma che vale la pena sottolineare come tale anche alla luce della tendenza, frequente a livello liturgico, ad usare simboli della liturgia ebraica: dalla menorà alla celebrazione della pasqua ebraica [Pesach] tra cristiani, al tallit... Si tratta piuttosto di rispettare l'alterità ebraica, la parola dei testimoni, il senso delle loro scritture. Usare la shoà come esempio per contrapporre l'amore, presentato quale valore specificamente cristiano, alla giustizia - quando non alla vendetta - quale valore/disvalore tipici del giudaismo, ma inferiori all'amore, è un modo erroneo di usare la memoria della shoà, che offfende tra l'altro anche la verità teologica sia del giudaismo che del cristianesimo. Anche l'uso della Bibbia per spiegare la shoà può essere pericoloso, in quanto tentativo maldestro ed inefficace di giustificare l'ingiustificabile.

Vorrei, in conclusione, riprendere le parole finali del documento Noi ricordiamo, che nella sua sobrietà esprime bene anche quel senso della misura - la fuga da ogni trionfalismo e l'astensione dagli eccessi teologici e anche dagli abbracci soffocanti - di cui il dialogo ebraico-cristiano ha bisogno per crescere e rafforzarsi a tutti i livelli, là dove si auspica che "il nostro dolore per le tragedie che il popolo ebraico ha sofferto nel nostro secolo [il XX secolo] conduca [i cattolici, ma anche credo tutti i cristiani] a nuove relazioni con il popolo ebraico. Desideriamo - si legge in questo testo - trasformare la consapevolezza dei peccati del passato in fermo impegno per un nuovo futuro nel quale non ci siano più sentimento antigiudaico tra i cristiani e sentimento anticristiano tra gli ebrei, ma piuttosto rispetto reciproco condiviso..." (17). Il testo Dabru Emet, le ripetute visite di vescovi alle sinagoghe e alle comunità ebraiche nel mondo, la fattiva collaborazione quotidiana tra ebrei e cristiani per costruire una vera "amicizia" tra le due fedi abramitiche, aperte al dialogo con con l'Islàm in questo difficile momento della storia mondiale, sono segni di speranza che ci dicono: sì, stiamo facendo la cosa giusta. Davvero uno spirito nuovo aleggia sul mondo: "Ed ecco, io faccio una cosa nuova nel mondo" (cfr Is 65,17).


Note

1. Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla shoà, Città del Vaticano 1998, par.2.
2. Emmanuel Levinas, Difficile Liberté, Paris 1963. Tr. it. Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004, pp.127-128.
3. Ibidem, p.19.
4. Eliezer Berkovits, With God in Hell. Judaism in the Ghettos and Deathcamps (1979). Cit. in Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2003, p.418.
5. Emil L. Fackenhein, Jewish-Christian Relations After the Holocaust. Toward Post-Holocaust Theological Thought, The Joseph Card. Bernardin Jerusalem Lecture, Chicago 1996, p.15.
6. Lettera di Giovanni Paolo II al Card. Edward I.Cassidy, in: Noi ricordiamo, pp.3-4.
7. Emil L. Fackenheim, Jewish-Christian Relations After the Holocaust, p.2.
8. Francesco Rossi De Gasperis, "Una rilettura da Gerusalemme", in: Gianfranco Bottoni, Luigi Nason (a cura di), Secondo le Scritture. Chiese cristiane e popolo di Dio, Edizioni Dehoniane, Bologna 2002, pp.372-373.
9. Per questo e per i successivi riferimenti a documenti cristiani sulla shoà si veda la sintesi di Cesare Stephan-Ragazzi in: Gianfranco Bottoni, Luigi Nason (a cura di), Secondo le Scritture, pp.183-253.
10. Emmanuel Levinas, Difficile Libertà, p.28.
11. Cfr Joseph Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.
12. Joseph Ratzinger, Prefazione a: Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001, p.11.
13. Emil L. Fackenheim, "L'aggressione all'alleanza di Abramo" in: Emilio Baccarini, Lucy Thorson (a cura di), Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l'oggi, Edizioni Paoline, Roma 1998, p.43.
14. Gianfranco Bottoni, Luigi Nason (a cura di), Secondo le Scritture, p.247.
15. Cit. in Massimo Giuliani, Cristianesimo e shoà. Riflessioni teologiche, Morcelliana, Brescia 2000, p. 23. Su Martin Cunz si vedano in particolare le pagg. 72-79.
16. Cfr Alice Eckardt, "Creating Christian Jom HaShoah Liturgies" in: Marcia Sachs Littell, Sharon Weissman Gutman (eds), Liturgies on the Holocaust. An Interfaith Anthology, Trinity Press International, Valley Forge, Penn. 1996, pp.6-12.
17. Noi ricordiamo, par.V.

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