È una pagina piena di storie di impegno e di speranza

L'altro giorno uno dei miei bambini di 7 anni di età mi ha chiesto: "cosa fanno gli animali col coprifuoco?" E poi ha aggiunto: "cosa è questa guerra?" Per come potevo, ho spiegato che in una guerra gli uni cercano di far fuori gli altri: gli israeliani i palestinesi e i palestinesi gli israeliani. Allora il bimbo, quasi parlando tra sé, ha commentato: "loro hanno bisogno di vivere, noi abbiamo bisogno di vivere, perché non possiamo stare insieme?"

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Samar Sahbar, 42 anni, insegnante, cristiana, è "mamma" di 108 bambini orfani o abbandonati dalla famiglia - quasi tutti di religione musulmana - che accoglie in un a grande casa a Betania. Accanto alla "casa" (che ha per nome Jeel al Amal, Generazione della Speranza) c'è la scuola che ospita più di 300 ragazzi palestinesi. Betania è sotto l'amministrazione palestinese, ma essendo a pochi chilometri da Gerusalemme è controllata giorno e notte dalle truppe d'Israele. E, da qualche tempo, il lungo muro fatto innalzare dal governo israeliano divide la cittadina che conserva la tomba di Lazzaro dal territorio israeliano a simboleggiare una frattura che rischia di diventare insanabile.

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Come percepiscono la guerra i suoi bambini?

"I bambini vedono. Vedono in tv ogni giorno scene di odio e di sangue, vedono la presenza militare israeliana, vedono il muro che separa il nostro paese dalle zone degli ebrei. Noi, però, vogliamo insegnare ai nostri ragazzi che la guerra non è la cosa giusta: loro sono le ossa del nostro popolo, non possono essere dati alla morte. Se muoiono loro non c'è futuro per la Palestina. Il motivo della vita deve essere un altro: non morire, ma vivere e rendere gloria a chi ci ha creato".

C'è qualcuno che insegna queste stesse cose dall'altra parte del muro?

"Sono stata di recente in Israele a fare un corso di ebraico. La mia insegnante mi ha detto: "Voi insegnate l'odio ai vostri alunni". Anche voi fate lo stesso, ho ribattuto io. E ho aggiunto: due sbagli non fanno una cosa giusta. In ogni guerra non ci sono mai vincitori".

Come si esce dal circolo vizioso degli attacchi kamikaze e della rappresaglia?

"C'è un circolo della violenza, è vero. Sia gli attacchi dei kamikaze, sia i missili sulle case palestinesi non fanno altro che alimentare l'odio fra le due parti. Ma ripeto: due sbagli non fanno una ragione. Dobbiamo ritrovare la via dei dialogo, considerando che in questo conflitto ad avere la peggio sono soprattutto gli innocenti: i bambini, i lavoratori, gli stranieri, gli anziani.

Come è cambiata la vita dopo l'11 settembre nel vostro villaggio?

"La mia famiglia è a Betania da trent'anni. All'inizio eravamo gli unici cristiani in una zona del tutto musulmana, ora ci sono altri 300 cristiani venuti da Gerusalemme Est. In tutto questo tempo mai c'è stato uno scontro fra noi cristiani e i musulrnani. Tutti ci hanno guardato e ci hanno rispettati per quello che facevamo: vedevano, per esempio, che ci prendevamo cura dei loro figli e questo lo apprezzavano. Ora pare che la religione sia diventata uno strumento per motivi politici. Non capisco quello che è successo, mi sembra che il mondo sia in preda a una specie di terza guerra mondiale. E anche noi viviamo in una situazione di pericolo permanente".

Quali conseguenze hanno la guerra e il coprifuoco sulla popolazione?

"Tanti qui non hanno più latte, farina, pane. Arrivano aiuti dall'estero, ma non sono sufficienti".

E i bambini?

Sono quelli che soffrono di più. A Betania, per esempio, non c'è un pronto soccorso o un presidio medico. L'altro giorno un nostro bambino s'è rotto un braccio. In paese non c'era un ombra di medico. Siamo andati ad Abu Dis ma lì i medici non avevano il materiale per ingessare l'arto. Abbiamo dovuto scavalcare il muro - rischiando la vita - e ricorrere a un ospedale di Gerusalemme. Per questo voglio costruire accanto alla scuola una infermeria con un medico e un infermiere fissi.

Chi vi aiuta?

Abbiamo un'associazione a Londra, gli Amici della Casa Lazzaro, che ci aiuta finanziariamente. Ma in Palestina il bisogno è più grande degli aiuti che riceviamo.

Cosa c'è, ancora, nel suoi progetti?

L'opera a cui tengo di più è una struttura per le donne in difficoltà. Non esiste nulla dei genere in tutta la Palestina: è una questione di mentalità. Le donne abbandonate non meritano di essere aiutate. Ma io voglio seguire l'esempio di Gesù. A Betania stiamo già aiutando una decine di donne palestinesi emarginate dalla società, ora confido che si possa comprare un terreno per costruire una grande casa che possa accoglierne molte di più. I musulmani non apprezzano questa mia iniziativa, ma quando ho detto loro che i 100 ragazzi a cui la mia famiglia dà ospitalità sono figli loro, mi hanno lasciato fare.

Cosa accade dei bambini della vostra casa-scuola una volta che sono divenuti adulti?

"Tanti sono già all'università o lavorano. Uno di loro è il nostro avvocato, altri collaborano nella scuola, altri ancora hanno trovano lavoro altrove. Una di loro vuole diventare dottoressa: chissà che non sia il medico dei nostro villaggio in un prossimo futuro. E dire che quando la prendemmo era ancora bambina. Sarebbe la prima donna medico beduina".

Come arrivò da voi?

Una donna che vendeva formaggio trovò in un pollaio quattro bambini abbandonati, una femmina e tre maschi, e venne da noi portandoli su un trattore perché ce ne prendessimo cura.

Come possiamo, dall'Italia, aiutare la sua opera?

"Pregate per noi. Ho fiducia che tutto andrà per il meglio, perché tutto è nelle mani di Dio".

Il suo sogno per Betania? "Comprare un terreno e costruire l'infermeria e un panificio. Vorrei dare a tante famiglie la possibilità di mangiare. E ai bambini la possibilità di essere curati.

 

Bambini arabi ed ebrei fatti recitare insieme: così è nata una tregua sulle barricate                                                                                                   torna su

 BETANIA (Cisgiordania) - A dividere il piccolo teatro di kibbutz dalla casa d'accoglienza di Betania ci sono molti chilometri d'autostrada, il lago di Tiberiade, poi la valle del Giordano. E i cecchini. E il muro di Sharon. E i doppi giochi di Arafat. E i checkpoint che ingabbiano la Cisgiordania. E l' odio della seconda Intifada. E, alla fine, la Storia con la esse maiuscola. Angelica e Samar sono riuscite ad attraversare tutto questo con un abbraccio che dura da due anni. 

Tra i frutteti e le torrette militari nel nord di Israele, al confine col Libano degli hezbollah, in quel piccolo teatro che si chiama Arcobaleno, Angelica Calò Livnè insegna a recitare la pace a ragazzini ebrei, arabi, circassi, drusi, cristiani, musulmani; prega a ogni attentato, a ogni rappresaglia, «mio Dio, scaccia l'odio, facci rimanere quello che siamo». Dice: «Cercavo da tanto un'amica palestinese, una come me. Mi hanno parlato di lei, un giorno le ho telefonato, l'ho incontrata: anche tu devi assolutamente incontrare Samar, è speciale»

Sommersa dal mucchio selvaggio dei suoi bambini (lei li chiama «i miei figli») all'orfanotrofio Jeel El Amal di Betania, che ha ereditato dai genitori e ingrandito in un rifugio ancora più temerario - Lazarus Home - in cui si nascondono pure ragazze madri che la società palestinese condannerebbe senz'appello, Samar Sahhar è speciale davvero. Sorride: «Angelica è diventata mia amica, poi mia sorella. Dio ci ha fatte uguali»

Questa è la storia di un'amicizia quasi vietata dalla ragion politica, la storia con la esse minuscola di un'israeliana e una palestinese che forse Dio ha fatto davvero uguali ma che parrebbero quasi opposte: minuta e tutta nervi Angelica, boccoli neri e lunghe ciglia che s'inumidiscono per un nonnulla; quadrata e inaffondabile Samar, capelli corti e braccia da campione della fede. 

Solo con più attenzione si coglie quel loro sguardo, identico, e allora si capisce che quando si chiamano «sorelle» non è tanto per dire. Mercoledì scorso si sono ritrovate a Roma, al teatro Vittoria, davanti a seicento ragazzi di sette licei. Prima dello spettacolo che Angelica sta portando in giro per l'Italia, «Bereshit, In principio», coi suoi diciotto giovanissimi attori che danzano coperti da maschere bianche e recitano frasi come «non c'è nessun posto sicuro! Dev'esserci una soluzione... una speranza!», Samar è salita sul palco. Nemmeno Angelica se l'aspettava. Si sono abbracciate così, davanti ai ragazzi romani che non capivano, poi Samar ha detto che «se tutto il mondo vedrà questo spettacolo tutti sapranno che la pace si può fare». Alla fine, prima di esplodere in un lungo applauso, gli studenti sono rimasti tre minuti senza parole. 

La piccola storia testarda di Angelica e Samar è invece piena di parole. Con le parole Angelica - una romana di 47 anni che appena ragazza è andata a vivere a Sasa, uno degli ultimi kibbutz ancora fedeli agli ideali socialisti delle origini - ha insegnato a Batya e Nemi, Amal e Sharif e a tutti gli altri allievi del laboratorio teatrale di Kerem Ben Zimra che si può fare qualcosa, «che non basta piangere davanti alla televisione». L'idea di «Bereshit», quelle maschere bianche che cadono sul palco «svelando la bellezza di ogni diversità», accompagnate dalle canzoni di Noah («è finita, è tutto passato, toccheremo il sogno»), è nata dai ragazzi, lavorando per sei mesi con loro. «Quando ne parlai la prima volta al consiglio regionale dell'Alta Galilea, quando dissi che volevo anche ragazzi arabi, mi dissero, "beh, l'idea è buona, però con l'Intifada, capisci, politicamente, non è il caso, gli arabi lasciali perdere". Risposi: "O loro o niente". Ci è andata bene». Uno dei suoi attori, Sharif Balut, un ragazzone arabo del villaggio di Fassuta, ha preso così sul serio il copione che è riuscito a far scoppiare la pace, quella vera, tra i suoi compaesani e i ragazzi ebrei di Elkosh: «Eravamo alla guerra tra bande, ma sulla loro barricata ho notato Ofri - racconta - che un giorno era venuto a vedermi a teatro. Mi sono fatto avanti. Gli ho detto: ti ricordi di me, amico? Si ricordava, sì. E tutti assieme abbiamo fatto la sulha , che significa riconciliazione sia in arabo che in ebraico».  

Anche Samar, nei due rifugi gemelli ai lati di una polverosa strada di Betania, lavora con le parole: parole da mamma o da sorella maggiore, per i 70 bambini di Jeel El Amal («Generazione della speranza»), le 33 bambine di Lazarus Home e le donne che, nascoste all'orfanotrofio, trovano riparo dai loro guai - in questo momento sono tre, una prostituta, una appena uscita dal manicomio e una che ha ucciso il suo stupratore.

Samar ha 42 anni, è cattolica, la prima pietra del primo rifugio è stata messa da Alice, sua madre, tanti anni fa. «Sono consacrata con i Memores Domini», dice. Non ha una famiglia sua. «Ma i miei figli sono questi». Abdallah, 10 anni, moncherini al posto delle mani, portato lì che non parlava neppure («ora è il più bravo della quarta elementare») le ha chiesto: «Mamma, come fanno le mucche e le pecore a mangiare, se c'è la guerra?». Tutti assieme, coi bambini raccolti nei campi profughi di Ramallah, di Betlemme, di Tulkarem, hanno deciso che mucche e pecore devono riprendere a mangiare, quindi la guerra deve finire. Samar ci mette del suo: «Un orfano non ha nessuno, quindi i ragazzi della strada sono tutti abili e arruolati per l'Intifada. I miei no. Non voglio che i miei figli muoiano o uccidano», sbotta. 

Contro reclutatori e Autorità palestinese combatte così la sua invisibile guerra, pagando dazio. Ha aperto una panetteria in paese per raccogliere fondi, ma da un anno non le allacciano la corrente elettrica. La gente della strada ha firmato una petizione per chiudere l'orfanotrofio «che nasconde le donnacce». Se lei mollasse, «le donnacce» verrebbero probabilmente lapidate. Quindi tiene duro. E stringe a sé gli ultimi piccoli arrivati, Safiria, 6 anni, trovata in un pollaio piena d'ustioni, Nanni, 7 anni, ch'era incatenato in una grotta a Betlemme. Coccola Nahla, 14, che ha una lunga cicatrice sulla fronte ma è un cannone in scienze e va alle manifestazioni di Peace Now. «Cantiamo insieme, habibti, amori miei», dice. Dal refettorio si alzano voci di cristallo, «Ya raba salam/ imnan biladana salam, Dio della pace/ dà la pace alla nostra terra», e arrivano fino alla lavanderia governata da Alia, la donna che ha ucciso il suo violentatore. I parenti di lui la cercano da quando è uscita di galera. Ha una faccia incartapecorita. Dice: «Sono brava a lavare, sai? Però ho sempre mal di gambe, mal di tutto». Samar le accarezza una mano, «passerà, vedrai, passerà tutto»

Aspettando che tutto passi, Samar e Angelica hanno riempito questi due anni d'amicizia. Il primo incontro a Gerusalemme est, il secondo al Muro del Pianto. Insieme hanno girato scuole e università d'Italia, preso premi, partecipato a dibattiti dal titolo «La sfida di due donne». L'anno scorso «Excalibur» ha dedicato loro venti minuti di speciale. Presto due ragazzi dell'orfanotrofio si aggregheranno alla compagnia dell'Arcobaleno. Ma non è sempre facile. All'università di Bari sono andate a dire «siamo due amiche, non Sharon e Arafat» e qualcuno s'è sdegnato: «Volete scherzare? Non basta un'amicizia per fermare la guerra». Per tipi simili Samar ha una storiella: «Un uomo vide un uccellino steso sul dorso. "Perché stai così?", gli chiese. E quello: "Ho sentito che oggi Dio scaglierà il cielo sulla terra, sto cercando di proteggere la terra". L'uomo rise: "Sul serio? Cerchi di salvare la terra con le tue minuscole zampette?". L'uccellino rispose: "Io voglio fare del mio meglio!"». Goffredo Buccini

A tu per tu con Samar                                       torna su

Perugia, Convento di Monteripido, 10.01.2003

Assuntina. ”La pace”, ci ha ricordato il Papa, “è il bene più prezioso da invocare da Dio e da costruire con ogni sforzo, mediante gesti concreti di pace da parte di ogni uomo e di ogni donna di buona volontà”. Nel messaggio dedicato alla Giornata mondiale della pace, Giovanni Paolo II ha affermato: “A voler guardare le cose al fondo, si deve riconoscere che la pace non è tanto questione di strutture, quanto di persone. Strutture e procedure di pace – giuridiche, economiche, politiche – sono certamente necessarie e fortunatamente a volte sono anche presenti; però esse non sono altro che il frutto della saggezza e dell’esperienza accumulata lungo la storia mediante innumerevoli gesti di pace, posti da uomini  e donne che hanno saputo sperare senza cedere mai allo scoraggiamento. Gesti di pace nascono dalla vita di persone che coltivano nel proprio animo costanti atteggiamenti di pace; sono frutto della mente e del cuore di operatori di pace; gesti di pace creano una tradizione e una cultura di pace”. Samar è l’esempio di una persona che fa della sua vita un’opera così, che costruisce ogni giorno gesti di pace. È direttrice di una scuola-orfanotrofio che è stata fondata a Betania nei primi anni ’70. Comincio col chiederle il nome di questo orfanotrofio, e di raccontarci come è nato.

Samar. Ti ringrazio moltissimo. È un onore per me essere qui tra voi, stasera. La nostra opera si chiama “Jel al Amal”, che significa “Generazione della speranza”. L’opera è nata il 15 Maggio 1971, quando i miei genitori hanno affittato una camera a Betania, vecchia e usata per le pecore, per poter aiutare 10 bambini. Mio babbo diceva sempre: “10 bambini e basta”. Con nostra sorpresa, l’Ufficio sociale cominciò a mandarci continuamente dei bambini. Si rese necessario comprare un terreno a Betania per poter costruire un orfanotrofio per questi bambini abbandonati, trovati nelle strade. Sono passati 30 anni, il 15 maggio scorso abbiamo festeggiato i nostri 30 anni. Adesso ci sono due edifici: un edificio residenziale, che ospita quest’anno 108 bambini orfani, e una scuola, che è aperta per tutti i bambini della nostra zona. Cinque anni fa, dato che l’Ufficio sociale manda sempre le famiglie da noi e noi potevamo accettare solo i maschi, mentre non c’era posto per le femmine, ho cominciato una nuova casa, la “Casa di Lazzaro” per poter aiutare le bambine orfane e le donne in difficoltà.

Assuntina. Tu sei cristiana, i tuoi genitori sono cristiani: questi bambini chi sono, come religione e condizioni?

Samar. Questi bambini sono tutti musulmani, perché siamo in una zona in cui tutti sono musulmani. Quando siamo arrivati a Betania nel 1971, eravamo l’unica famiglia cristiana insieme a un’altra. I cristiani della Terra Santa sono sempre semi. I bambini sono musulmani, vengono tramite l’Ufficio sociale. Sono abbandonati e orfani. Quando i miei genitori hanno cominciato questa opera, si sono chiesti: in che lingua piange un bambino?

Assuntina. Raccontaci, come oggi pomeriggio quando abbiamo chiacchierato, di quando hai trovato i bambini nel pollaio…

Samar. Vorrei raccontare le storie di alcuni bambini, per dare un esempio del nostro lavoro a Betania. Alcuni anni fa una donna che vende formaggio a Betania (camminando a piedi, perché non c’erano le macchine), è venuta a dirmi che aveva trovato tre bambini dentro un pollaio. A quel tempo neppure io avevo una macchina e lei ha trovato un uomo che guidava un trattore. Hanno impiegato tre ore per portare quei bambini da noi. Erano in quel pollaio da un anno, quasi sul punto di morire. Devo ringraziare Dio e questi volontari che mi sono stati intorno per aiutarmi, per dare tutto a questi bambini. La bimba maggiore adesso ha 13 anni e vuole diventare dottoressa. Un’altra storia, che è un vero miracolo dell’amore: avevamo sentito che a Hebron, in Palestina, era stato trovato un bambino sotto un albero. Era molto malato, curvo, orfano di ambedue i genitori. Gli altri parenti pensavano che sarebbe morto, che era impossibile che vivesse. Lo hanno portato in vari posti della Palestina, ma nessuno lo accettava. Allora in pratica hanno pensato: è handicappato, è impossibile tenere un bambino così. Quando noi abbiamo sentito questa storia, lo abbiamo subito accettato. Anche le mamme della nostra casa dicevano “come è possibile tenerlo?” Questo bambino aveva le mani senza vita, era molto molto malato, sembrava solo un pezzo di carne. Non poteva neanche dire una parola, né camminare. Allora l’ho messo in camera mia, sul mio letto e ho cominciato a pregare per lui: l’unica cosa che potevo fare. Dopo alcuni giorni, la prima parola che ha detto è stata “Mamma Samar”, mentre lo portavo in bagno al mattino. Allora mi è venuta la speranza che potesse parlare. Poi ha cominciato a camminare. Adesso parla senza smettere, anche di notte; fa la terza classe della scuola, ama il computer; all’inizio sembrava fosse ritardato, invece è molto intelligente e vivace. Aveva solo bisogno di una mamma, di qualcuno che parlasse con lui. Uno della sua famiglia che è venuto a trovarlo ha detto “È impossibile, è impossibile che cammini!” Questo bambino ha superato 4 operazioni, che sono state pagate da amici nel mondo. Niente è gratis da noi. Insomma, è il bambino più vivace del nostro orfanotrofio. Le storie dei nostri bambini sono così. Sono storie piene di tristezza, ma la nostra casa è piena di gioia. Tutti i volontari che vengono dicono che è il più bel posto della Palestina, che i nostri bambini sono i più felici della Palestina. Un mese fa, a Natale, in un villaggio vicino Betlemme, tre suore hanno trovato una bambina di quattro anni incatenata in una grotta, violentata. Hanno fatto di tutto per salvarle la vita. Adesso questa bimba è con noi, ha otto anni ed è molto vivace. Qualche giorno fa, mentre  eravamo sedute, mi ha detto “io voglio andare all’Università”. I nostri bambini hanno queste storie, ma hanno speranza nella vita. Sono sicura che diventeranno qualcosa di molto importante nella vita. Ho fatto solo qualche esempio: ognuno dei nostri bambini ha una storia simile, ma ha anche la speranza di diventare qualcosa di buono nella società, nel futuro.

Assuntina. Hai accennato alla diversa situazione dei bambini e delle bambine. Come sono viste lì da voi le donne, e cos’è la “Casa di Lazzaro”, la nuova opera che stai realizzando?

Samar. In Palestina adesso non esistono luoghi per le donne in difficoltà. Ci telefonano sempre per dirci: c’è una donna per la strada, c’è una donna in prigione. Non ci sono luoghi per le donne. È molto difficile per me dormire nel mio letto quando uno, o una, sta per la strada. Così è nata la “casa di Lazzaro” per le ragazze-madri. Le donne da noi non hanno un valore, non possono né vivere né lavorare, non sono come i maschi nella società. Così è nata la “Casa di Lazzaro”: adesso siamo 33, in tre stanze. Da sempre quelli attorno a noi sono contro quest’opera, non la amano. Quando mi trovavo in Italia per un ritiro, hanno fatto una raccolta di firme davanti alla polizia per farla chiudere. Mia madre è stata molto brava e ha detto. “Quando una donna viene ammazzata, nessuno è responsabile, ma quando uno vuole aprire una casa, tutti vogliono chiuderla”. Tutti sono stati zitti! Così andiamo avanti, perché è necessario che noi serviamo queste donne.

Assuntina. Dicevi che la situazione è difficile, c’è poco lavoro. Quando accogliete le donne con i loro bambini, pensate anche a inserirle nel mondo del lavoro?

Samar. Grazie per questa domanda molto importante. Noi siamo gli unici a dare lavoro a queste donne. Molte di esse sono impiegate nella nostra casa. Per me è più importante farle lavorare così che farle uscire per lavorare, perché queste donne vengono sempre messe in prigione e non hanno speranza per la vita. Faccio sempre di tutto per dare loro un qualche tipo di lavoro dentro l’orfanotrofio. Il lavoro è una cosa molto importante.

Assuntina. Tu dai loro un lavoro, ma a te i soldi chi te li dà?

Samar. Dio. Ci sono tanti amici che aiutano la nostra opera ad andare avanti. La nostra non è l’opera di un governo, ma l’opera di umili servi di Dio. Dipendiamo sempre dagli amici, dai volontari che vengono ad aiutarci. C’è sempre qualcuno, ci sono sempre gli amici. Adesso sono in tutto il mondo.

Assuntina. Facci capire bene, perché suona strano che uno mette su un’opera e non è sicuro neanche dei soldi che arrivano. Vuoi dire che non ricevete delle sovvenzioni, né dal governo palestinese né da quello israeliano?

Samar. È così. Non c’è bisogno del governo, perché c’è Dio, che ha più potere degli uomini. Voglio raccontare una storia, che è solo un esempio dei tanti miracoli che accadono da noi. Posso proprio dire che Gesù ama i bambini. Un giorno eravamo rimasti senza cibo, con la cantina vuota. La cuoca venne a dirmi: “A cosa serve una cuoca? Non c’è niente da fare!” E i bambini volevano mangiare. Un’ora dopo è venuta una donna con un sacco di riso e del formaggio. Dio manda sempre la gente da noi. Un’altra volta, avevo un bambino molto malato. Per andare in ospedale, da noi bisogna sempre pagare, e io non avevo soldi. Allora sono uscita e ho visto un uomo, che mi ha chiesto dov’era l’orfanotrofio. Al ritorno, mia madre mi ha detto: “Sai, quest’uomo è un dottore. È venuto a vedere se c’è qualcuno da aiutare”. Ha portato il bimbo in infermeria e ha fatto tutto gratis per lui. Nella nostra vita, noi non pensiamo tanto. Siamo solo servi di Dio, lavoriamo 24 ore al giorno solo per servire, è Dio che fa tutto per noi. Ci sono cose veramente miracolose nella nostra vita. La nostra opera è stata fatta pietra per pietra non da noi: mia mamma dice sempre “Non noi, ma Dio”.

Assuntina. Da una parte ti dicono che è il posto più bello della Palestina, dall’altra, quando hai aperto la casa per ragazze-madri, hanno raccolto le firme per farla chiudere. Non è contraddittorio? Intorno a te sono tutti musulmani: sanno che tu sei cristiana? Ti chiedono perché lo fai? Come sono i tuoi rapporti con la gente di Betania?

Samar. Il rapporto tra noi cristiani e i musulmani del villaggio è buono; però essi non amano il fatto che queste donne siano aiutate, non credono che debbano essere aiutate. È contro la loro cultura, contro  la loro mentalità. Non possono immaginare che ci sia qualcuno che le aiuti. Perciò hanno raccolto le firme per chiudere la casa, ma fino ad ora non hanno vinto. Proprio in questi giorni sto cercando di comprare un pezzo di terreno per edificare un posto per le bimbe e per le  donne. Oltre  a questo, abbiamo in progetto di fare un panificio per i nostri bambini a Betania; servirà a sfamare i bambini, perché durante il coprifuoco la situazione è così difficile che non possiamo uscire neanche a comprare il pane. In secondo luogo, tramite questo progetto del panificio vorrei fare un progetto di pace: sto cercando donne della Palestina che facciano dolci per la pace da vendere in Israele. Cerco volontari che mi aiutino in questo progetto, e anche donne israeliane che mi aiutino a realizzarlo. La cosa importante non sono i soldi, ma creare un rapporto tra donne di Palestina e donne di Israele. Oltre a questo, in tutto il villaggio di Betania c’è la necessità di avere un’infermeria, in primo luogo per i nostri bambini, ma anche per gli altri, perché siamo sempre bloccati e nel villaggio non ci sono servizi. L’altro giorno uno dei nostri bambini è caduto: già trovare un dottore è stato difficile, e quando lo abbiamo trovato ci ha detto che c’era bisogno del gesso, che a Betania non si trova. Allora hanno scavalcato il muro costruito dagli Israeliani, cosa pericolosa, per andare all’ospedale e ritornare. Sono stati salvati da un miracolo. Questi sono i nostri progetti per il futuro.

Assuntina. Abbiamo conosciuto Angelica, che ci ha raccontato che vi siete incontrate. Abbiamo visto a “Excalibur” le immagini del vostro incontro. Puoi dirci come è successo, e che cosa significa per te questa amicizia?

Samar. È stata una sorpresa. In questa guerra, ci sono muri e posti di blocco che gli israeliani costruiscono per non lasciare che il popolo palestinese vada in Israele. Angelica mi ha telefonato dicendo: “Sto cercano un’amica della Palestina”. All’inizio mi sono spaventata, ma subito mi ha spiegato che era amica del Movimento. Infatti non è una cosa molto normale, in questa guerra,  che uno di Israele faccia amicizia con un Palestinese. È un’amicizia molto bella, è una luce in mezzo al buio di oggi in Palestina. Siamo diventate molto amiche, ma Angelica non può venire a trovarmi perché ha il passaporto israeliano e non può entrare in Palestina. Allora ci siamo incontrate per la prima volta a casa di mia madre a Gerusalemme, ed è stato molto bello. Ho anche un altro amico israeliano, un rabbino, che ho conosciuto quando ha trovato una donna palestinese nel deserto di Gerico ed ha rischiato la vita per portarla in macchina fino alla nostra Casa. Ha davvero rischiato, perché è impossibile per un Israeliano tenere in macchina una donna palestinese. Quando ha bussato alla mia porta, mi sono spaventata, ho pensato che aveva perso la strada, o altro. Ma il fatto era che aveva salvato la vita di quella donna! Cercando nelle tasche della donna, ho scoperto dal passaporto che è una mamma di 10 figli: è stata violentata dal marito e lasciata nel deserto. Il rabbino le ha salvato la vita. Mi ha telefonato tre volte per sapere che fine aveva fatto, e per dirmi: “Dille che noi preghiamo per lei, che la amiamo”. I miei amici poi mi hanno detto: la casa cristiana, la donna musulmana, l’uomo ebreo. Siamo tutti esseri umani.

Assuntina. I tempi sono brutti, ma dai tuoi racconti sembra che ci sia tanta voglia di pace da tutte e due le parti. È vero? Come sono i rapporti tra le persone, intorno a voi? La vostra opera dà veramente la possibilità di tessere dei rapporti?

Samar. Tutti siamo esseri umani, creati da Dio. Però la situazione politica tra Israeliani e Palestinesi è molto, molto difficile. Voglio raccontare di una giornata molto bella a Betania. Una mattina, i soldati  hanno indetto il coprifuoco perché - abbiamo sentito dire - c’era una dimostrazione degli Israeliani di “Peace now”, cioè favorevoli alla pace. Volevano venire a Betania. Per non lasciare che la gente partecipasse a questa dimostrazione per la pace, è stato indetto il coprifuoco. Io allora sono uscita insieme a una volontaria tedesca e a una delle mie figlie, che ha pianto tanto per partecipare a questa esperienza. Per strada, uno dei militari ci ha detto in ebraico “Indietro, indietro!”, ma io ho detto “Avanti, avanti!” I soldati facevano molto rumore per spaventare la gente, ma noi eravamo molto decisi di arrivare fino al muro. Al nostro arrivo, era come in Afghanistan: carri armati, militari israeliani, una cosa incredibile. La volontaria tedesca aveva dei datteri e ha cominciato a offrirli ai militari, che li hanno rifiutati. Dall’altra parte del muro hanno cominciato a venire gli Israeliani, dei giornalisti, mentre i soldati facevano blocco per non lasciarli passare. Allora io ho visto una mia amica israeliana dall’altra parte del muro e ho cominciato a dirle “Shalom, salam!” Mi sono spaventata per mia figlia, perché cominciavano a tirare il gas. Mentre cominciavamo a tornare a casa, con mia grande sorpresa siamo state bloccate da una dimostrazione di Israeliani e Palestinesi insieme, per la pace: tutti quelli che erano in casa per il coprifuoco sono usciti ad abbracciare gli Israeliani, e gli Israeliani abbracciavano i Palestinesi. È stata una giornata bellissima, mentre i militari continuavano a tirare il gas. Ritornando verso l’orfanotrofio, ho visto per strada una donna israeliana, da sola, e sono andata a dirle “Grazie perché sei venuta qui per la pace”. Mi ha risposto “Sono qui perché non posso sopportare il gas. Ma tutti noi, popolo di Israele, vogliamo la pace, ma il nostro governo no”. Ho detto “Neanche il nostro governo”. Le cose stanno così. Siamo tutti esseri umani, ma i governi non vogliono la pace.

Assuntina. Quando a novembre è venuto qui Sobi, un altro amico palestinese, ha parlato dell’importanza dell’educazione dei bambini, sin da piccoli, all’idea di rispetto, di convivenza e di pace. Voi siete lì da 30 anni, alcuni dei vostri bambini sono diventati grandi: che cosa è successo di loro? Li avete incontrati di nuovo? Come sono cresciuti, come ha inciso la vostra scuola su di loro? 

Samar. Vorrei raccontare quello che uno dei nostri bambini, di 6 anni, (ora ne ha 7 - NdR) mi ha detto. Ero andata con lui a fare un giro e a cominciato a chiedermi: “Cos’è questa guerra? Come possono vivere le mucche e le pecore durante il coprifuoco” Era spaventato per gli animali, si preoccupava di come potessero mangiare durante il coprifuoco. Io mi ero stancata di tutte le sue domande e gli ho detto. “In questa guerra, i Palestinesi arabi ammazzano gli Israeliani e gli Israeliani ammazzano gli Arabi. Alla fine non ci sarà più nessuno e la guerra finirà!” Allora spaventato mi ha detto: “Mamma, noi abbiamo bisogno di vivere, e anche loro hanno bisogno di vivere. Perché non viviamo insieme?” Sono rimasta scioccata, perché queste cose, che i grandi non possono dire, le dicono i bambini. Un’altra storia. Uno che è cresciuto con noi è andato in Libano. Quando gli hanno chiesto di uccidere i cristiani, ha risposto: “Come posso ammazzarli quando loro mi hanno salvato? Ero un orfano e stavo in questa famiglia cristiana di Betania”. L’amore è una cosa molto importante. Insegnare a questi bambini onestamente a vivere insieme…

Assuntina. Come sono i rapporti con quelli che da bambini sono stati da voi? vi siete persi di vista?

Samar. La nostra porta è sempre aperta per tutti quelli che diventano grandi e ci lasciano. Tornano sempre a trovarci, perché è la loro casa. Questo posto non è un orfanotrofio o una prigione, ma la casa dove sono cresciuti. Siamo un’unica famiglia, a Betania.

Assuntina. Ma tu dove hai imparato tutte queste cose? Hai nominato i tuoi genitori. Tu non hai dietro una comunità, un’organizzazione, parli di alcuni amici…

Samar. Sempre, per tutta la mia vita, io ho lavorato con i miei genitori, anche informalmente. Questa è la prima cosa. Ufficialmente ho cominciato a lavorare a 20 anni, ma ho sempre sentito una chiamata per servire questi bambini. Amo questi bambini con tutto il cuore, sono i miei figli. La mia storia è una chiamata per servirli.

Assuntina. Com’è organizzata una giornata nel tuo orfanotrofio?

Samar. I bambini si alzano ogni giorno per andare a scuola, ma siccome attorno a noi c’è una situazione terribile, dobbiamo sempre vedere cosa succede.  Siamo forse  l’unica scuola che è andata avanti da quando c’è il coprifuoco. Infatti ci sono molti altri bambini che non possono uscire, o perché c’è il coprifuoco o perché gli insegnanti non riescono ad arrivare. La nostra scuola invece è andata avanti bene. È molto importante che questi nostri bambini abbiano uno scopo, un motivo, che è quello di essere educati. I bambini devono anche fare un lavoro all’interno dell’orfanotrofio, perché è importante che abbiano una responsabilità in casa: li facciamo aiutare in cucina, oppure aiutano a prendere l’acqua alla cisterna per la cucina e per la lavanderia (da noi c’è sempre mancanza di acqua, anche all’interno dell’orfanotrofio)…Partecipano sempre con una loro responsabilità a tutta la vita dell’orfanotrofio. Dopo il pranzo c’è la ricreazione: amano molto il calcio…Sono pieni di grande energia!

Assuntina. Mi impressiona, Samar, che fai questi progetti senza avere una sicurezza. Io, se dovessi pensare a mettere su un panificio sapendo che il giorno dopo posso comunque rimanere senza mangiare perché vivo della carità, della provvidenza, mi sentirei morire. Però hai detto che hai tanti amici. La “Casa di Lazzaro”, mi dicevi oggi pomeriggio, è sostenuta da un gruppo di amici di Londra: come mai?

Samar. Quando ho cominciato la “Casa di Lazzaro”, alcuni volontari hanno lavorato a sistemarla. Sono tornati a Londra e hanno fatto un incontro con 100 amici, che hanno sentito la nostra storia e hanno formato un comitato, gli “Amici della casa di Lazzaro a Betania”, formalmente registrato dal governo di Londra. Per 4 anni hanno lavorato 24 ore al giorno, come noi a Betania, per raccogliere soldi per comprare un pezzo di terreno a Betania. Adesso lo stiamo comprando! Sono bravissimi, vendono oggetti…fanno di tutto per realizzare il sogno di edificare un orfanotrofio per le bimbe.

Assuntina. Ma come mai sono venuti a Betania, come li hai conosciuti?

Samar. Sono persone che sono venute a visitare la nostra opera. Dio manda sempre gente da noi. Ognuno è un messaggero nel mondo. Fanno l’esperienza di lavorare nell’orfanotrofio e poi sempre la vanno a raccontare, e ci sono sempre altri amici che vogliono venire ad aiutarci. Anche alcuni italiani sono stati con noi per 10-15 giorni, ed hanno lavorato in un modo molto bello. Anche durante questa guerra, nella nostra casa ci sono sempre amici che lavorano a fare il bene del mondo.

Assuntina. È una specie di passa-parola…Quanti volontari conoscete?

Samar. Tanti. Il tesoro di questo posto è l’amicizia. Abbiamo tanti amici nel mondo. Vengono sempre anche i Coreani con le loro famiglie. Lavorano in cucina, in lavanderia…Abbiamo amici in tutto il mondo.

Assuntina. Tu sei cristiana, i tuoi genitori sono cristiani . Tua madre c’è ancora, tuo papà non c’è più. Sappiamo che i cristiani in Terra Santa sono sempre di meno, e questo non è bello. Qual è secondo te la responsabilità, il compito principale dei cristiani lì?

Samar. I cristiani della Terra Santa sono semi. Durante questa guerra così dura, molti hanno lasciato la Palestina, perché è molto molto difficile vivere con i posti di blocco, senza lavorare, senza mangiare. Mi dispiace dire che molti non hanno potuto sopportare questa situazione. La presenza dei cristiani in Terra Santa, la terra di Gesù, è una cosa molto importante. Nel cristianesimo c’è il perdono, c’è l’amore, cose molto importanti per creare un rapporto tra musulmani ed ebrei che adesso litigano sempre e cercano sempre la vendetta. Il nostro compito come cristiani è fare questo rapporto, essere un esempio bello di pace in questa guerra.

Assuntina. Tu sei del movimento di Comunione e Liberazione: come ci hai incontrato, a Betania?

Samar. È stata una grazia di Dio nella mia vita. Mia sorella era in Olanda a studiare e ha conosciuto il Movimento. Mi scriveva sempre di avere incontrato gente così bella, e che l’amicizia col Movimento non è un’amicizia per un giorno, ma un’amicizia per la vita. Mi scriveva che facevano Scuola di Comunità. Io sono rimasta colpita e ho cominciato a pregare per don Giussani, senza saper cosa fosse il Movimento, ma solo perché mia sorella era contenta di un’amicizia. Un giorno, lei e un’altra amica hanno parlato del nostro orfanotrofio e gli amici dell’Olanda hanno dato il nostro indirizzo a don Ciccio, in Sicilia. Così nel gennaio del 1990 don Ciccio e gli amici del Movimento sono venuti a Gerusalemme. Quando hanno telefonato, ha risposto una donna che è una cara amica di mia sorella e della mia famiglia: si è molto spaventata e ha detto che non conosceva don Ciccio, e che non aveva dato l’indirizzo a nessuno. Mia madre ha pensato che si trattasse di spie, poliziotti segreti. Questa amica olandese e mia madre sono andate a vedere chi fossero queste persone: mia madre è rimasta molto colpita, perché le hanno chiesto di parlare della sua infanzia come cristiana della Terra Santa. Poi l’hanno invitata ad andare a Catania al Meeting del Mediterraneo (mia mamma non ha mai viaggiato). Io li aspettavo all’orfanotrofio, ma non sono potuti venire, perché la situazione cominciava ad essere critica per la guerra. Allora mia madre ha dato a me il suo invito per l’Italia, e così è nata questa amicizia. Lo Spirito Santo ha girato il mondo.

Assuntina. Quanti siete nel Movimento in Terra Santa?

Samar. Adesso siamo 11, facciamo Scuola di Comunità e ci incontriamo sempre, per questa amicizia.

Assuntina. Noi che possiamo fare per aiutarti?

Samar. Pregate per noi, perché pregare è una cosa molto importante: per la nostra vita anche di ogni giorno, per le cose necessarie all’orfanotrofio, perché attorno a noi c’è una incredibile mancanza di tutto: cibo, latte, farina… Pregate per tutte queste cose: noi abbiamo tutto, ringraziamo Dio e non ci lamentiamo, ma la nostra famiglia è grande e c’è sempre molto bisogno. In secondo luogo, pregate per la “Casa di Lazzaro” (è una sfida per me costruirla), per il panificio, per l’infermeria e per realizzare il sogno di aprire una casa dei “Memores” nella nostra zona. Potete aiutarci anche con l’adozione a distanza, che è molto importante per aiutare i bambini a crescere. I nostri bambini hanno sempre bisogno di tante cose. Non è facile tenere un bambino. Ma noi ringraziamo sempre Dio, soprattutto per questa amicizia e questo incoraggiamento.

Assuntina. Ci sono delle domande?

Francesco. Vorrei fare una domanda un po’ politica. Quando è venuto Sobi, ha detto che in Terra Santa non ci sarà la pace, perché Ebrei e Musulmani non conoscono il perdono. Tu accennavi che Ebrei e Musulmani, come popoli, vogliono fare la pace, ma sono i governi a non volere. Le due cose mi sembrano un po’ in contraddizione…

Samar. Non credo ci sia una contraddizione. Io sono sicura che dentro ognuno di noi, musulmano, cristiano o ebreo, c’è un cuore, perché siamo tutti umani. Tanta gente in Palestina sa cosa è il perdono, e anche tanta gente in Israele. Ma sono anche sicura che i governi devono permettere il rapporto tra un popolo e l’altro: se fanno sempre muri e posti di blocco, come può la gente incontrarsi e parlare? Come posso io, dalla Palestina, sapere qualcosa di un Israeliano dall’altra parte? 

Assuntina. Come è venuto in mente ai tuoi genitori di fare questa cosa?

Samar. I miei genitori hanno cominciato la loro opera con i bambini orfani a Gerusalemme e l’hanno continuata a Betania. Mia madre è cresciuta nel convento delle suore di Carlo Borromeo a Gerusalemme, e anche io. Lì è cominciata la nostra storia: tutto quello che abbiamo imparato per la vita è venuto da queste suore. Sono state la luce che ha illuminato la nostra vita e la nostra educazione.

Francesco C.. Gli ebrei e i musulmani ti chiedono perché lo fai?

Samar. Noi viviamo tra i musulmani: guardano sempre il nostro lavoro e amano quello che facciamo. Per esempio, il direttore dell’orfanotrofio dei musulmani è venuto a trovarmi, ha fatto un giro nell’orfanotrofio e poi, nell’ufficio, mi ha detto “I nostri bambini sono orfani, ma i vostri non sono più orfani” Mi sono spaventata di questa testimonianza così forte!

Assuntina. Non ti chiedono mai cosa ti dà la forza? Non si pongono mai questa domanda?

Samar. Noi siamo molto amici con loro. Io sono amica di tutti, anche dei bambini dell’altro orfanotrofio. Amano moltissimo il nostro lavoro, anche se criticano sempre e non accettano per nulla ciò che facciamo per le donne. In generale, sono molto contenti del lavoro che facciamo da 30 anni. Attorno a noi ci sono anche amici israeliani, ma sono pochi. Io sono amica di tutti.

Alessandra. Le donne del tuo paese cosa dicono della tua vita e della tua opera?

Samar. Molte donne rispettano questo tipo di lavoro, perché sanno che è necessario che qualcuno lo faccia. Io sto lavorando con tante organizzazioni dei dintorni della Palestina, come la ‘Lega delle donne’, per essere aiutata, perché faccio un lavoro personale. Ci sono sempre amici che mi danno il coraggio di lavorare.

Assuntina. Hai mai pensato di andartene?

Samar. Con tutti questi bambini, dove?

Assuntina. Qual è la cosa che, quando vieni qui, ti colpisce? Secondo te, noi come vediamo la tua situazione? Noi abbiamo un’idea sempre molto politica, mentre stasera abbiamo parlato un’ora senza parlare mai di politica. Pensi che noi abbiamo un’idea abbastanza adeguata di quello che succede da voi, o non siamo in grado di capire?

Samar. Tanti amici e parenti sono molto preoccupati per la situazione, perché le cose trasmesse in televisione sono veramente brutte: kamikaze, morti… Si preoccupano anche per noi, di come possiamo vivere e mangiare. Invece ci sono tanti amici che vengono e  vivono con noi, anche in questa situazione di difficoltà, e le cose vanno bene. Le cose che si vedono in televisione non sono del tutto giuste, perché la gente che viene a Betania vede che è molto tranquillo, che almeno da 15 giorni non ci sono militari…C’è veramente una fraternità, i volontari vengono sempre ad aiutarci.

Assuntina. Samar è un esempio concreto. Mi colpisce molto la sua serenità. Ci dà degli esempi concreti di quello che dice il papa, cioè che la pace non si costruisce che con dei gesti concreti di pace. Soprattutto, ciò che mi colpisce è che noi sentiamo alla televisione, politicamente, che prima ci vuole una certa situazione e poi si può raggiungere la pace, che prima ci devono essere le condizioni e poi si può fare…Invece tu, Samar, non aspetti condizioni, il tuo lavoro è concreto, da subito. Non dici: aiuto i bambini se tolgono il posto di blocco…

Samar. No. Anche mentre intorno ci sono tutte queste difficoltà, noi andiamo avanti. Per esempio, la nostra scuola va avanti ogni giorno mentre c’è il coprifuoco…Siamo sempre pronti a lavorare, perché i bambini hanno bisogno di noi. Questo anche è un metodo per costruire la pace. Noi abbiamo sempre il coraggio di andare avanti. Un’ultima domanda…

Antonio. Nei tuoi viaggi sei stata a contatto con degli amici italiani. Che impressione hai di noi, della nostra vita? Cosa porterai di noi nella tua terra, di buono o da cancellare?

Samar. L’amicizia qui ha toccato il mio cuore. Ci sono tanti amici veramente eccezionali. Posso dire che non ho mai visto un popolo così, sempre pronto a fare la pace, a fare amicizia. Ringraziamo Dio per il Movimento, che è davvero una cosa grandissima. Io non ho parole.

Assuntina. La vigilia di Natale su “Repubblica” Galimberti ha scritto che “l’unica novità è il terrorismo”. Invece noi stasera abbiamo imparato che la vera novità è il miracolo della carità, di persone come Samar. Teniamolo a cuore. Vorrei concludere con lo stesso canto con cui abbiamo concluso l’incontro con Angelica, che è un augurio per tutti noi: Il popolo canta la sua liberazione.

Perché il premio ad Angelica e Samar?        torna su

La giuria ha assegnato il premio di 5.000 euro per la “Libertà e promozione dell’uomo” all’educatrice israeliana Angelica Calò Livné e alla direttrice di orfanotrofio la palestinese Samar Sahhar. La giuria era composta da: Franco Mascia (presidente di Difendiamo il Futuro Sardegna), Mario Mauro (presidente di Difendiamo il Futuro), Giorgio Vittadini (presidente Compagnia delle Opere), Luigi Amicone (direttore Tempi), Antonio Socci (vicedirettore Rai Due), Renato Farina (vicedirettore Libero), Alessandro Maida (Rettore Università di Sassari), Cosimo Filigheddu (inviato La Nuova Sardegna), Antonello Arru (presidente Fondazione Banco di Sardegna), Giampiero Farru (presidente CSV Sardegna Solidale), Roberto Perrone (inviato Corriere della Sera), Ubaldo Casotto (vicedirettore Il Foglio), Pierluigi Battista (inviato La Stampa).

Nella drammatica storia di Abramo - che è alle origini di tutti noi - si legge che il patriarca, davanti alla prospettata distruzione di Sodoma, si lanciò in una vertiginosa trattativa con l’Onnipotente. Fino a ottenere da Lui che la città non fosse distrutta se vi si fossero trovati dieci giusti. Aleksandr Solzenicyn, evocando questo episodio biblico in un suo racconto, La casa di Matriona, conclude che proprio quella donna, Matriona, era colei grazie alla quale il villaggio poteva esistere. Ho voluto ricordare queste due immagini perché sono quelle che a me vengono sempre in mente quando penso ad Angelica e Samar. 

Una città, un popolo, una nazione, uno Stato, non sono solo entità politiche, istituzionali, economiche. Si dissolverebbero se fossero solo questo. Hanno bisogno di un’anima che dia loro vita. Per chi si sia imbattuto nei volti di queste due donne, nelle loro storie, appare evidente che esse fanno emergere l’anima luminosa dei loro popoli. Il fatto che esistano persone come loro significa che il Buon Dio ha un progetto buono per i loro due popoli, che hanno una speranza, che hanno un destino di pace. E che ce l’hanno insieme. 

Per chi abbia colto la luce dei loro occhi e la luce che rappresentano per i bambini e i giovani vulnerati dal dolore con cui vivono e lavorano - vivendo entrambe una maternità spirituale che è forse ancora più grande della pur grandissima maternità biologica - risulta chiaro che odio e violenza non sono l’ultima parola sul mondo. 

Non c’è una maledizione su quella terra che ha dato tanto alla storia umana, non c’è una maledizione che condanna tutto e tutti alla distruzione. Si ritiene sempre che siano le élite politiche a dover risolvere i problemi. Ma invece quello che è veramente decisivo, su tutto, è ciò che viene seminato nei cuori, soprattutto nei cuori dei bambini, nelle anime dei giovani. Angelica e Samar sono delle silenziose seminatrici di umanità, quindi sono il volto della speranza. Penso che il Buon Dio vedendo i volti di persone come loro benedica i loro popoli.

Antonio Socci


Una testimonianza di Angelica Calò Livnè         torna su

L'educazione è speranza. È l'ultima speranza che è rimasta al mondo per sopravvivere. Educazione dei figli, educazione di noi stessi. Alcuni giorni fa ero con un gruppo di vecchi amici. Ci si incontra ogni anno, veniamo da tutta Israele e camminiamo per km tra rocce e boschi per conoscere di più questa piccola terra e attraverso il dialogo con la natura il nostro legame si fa sempre più saldo.

Sembrava che nulla potesse intaccare lo spirito di questi sabre inossidabili straordinariamente abbronzati tutto l'anno per il lavoro all'aria aperta, era impensabile che l'amarezza e l'incredulità per la situazione in Israele potesse disegnare nemmeno per un attimo un'ombra di sconforto anche nei loro occhi. Durante la gita tra una scalata e l'altra sulle rocce del deserto nel Wadi Daraje davanti al Mar Morto, mi sembrava di non riconoscere più gli amici di sempre, questo gruppo di persone di grande qualità e spessore umano che 25 anni fa aveva liberato a Misgav Am, un kibbutz sulla frontiera con il Libano, 11 bambini di tre anni che due terroristi avevano preso in ostaggio.

Mentre camminavamo tra due pareti immense di rocce maestose raccontavo loro dei miei viaggi in Italia e nel mondo insieme a Samar Sahhar, la mia amica palestinese, direttrice di un orfanotrofio a Betania, del nostro impegno per la pace e dell'affetto con cui veniamo accolte ovunque raccontiamo la nostra esperienza educativa.

Avi, agronomo, mi interrompe: "È bellissimo sentire le tue storie sul tuo teatro di ragazzi ebrei ed arabi e sui tuoi sforzi per avvicinare i cuori, ma non c'e' niente da fare cara amica: loro, gli arabi, ci vogliono morti, non ci vogliono qua in Israele, non hanno nessuna intenzione di vivere al nostro fianco! Non ci sarà mai pace con i palestinesi. Non si potrà mai dialogare con questa gente, so che lo desideri molto ma non è un sogno realizzabile!"

Sono uomini di 45 anni che ho conosciuto ragazzi, quando avevano l'età che ha ora mio figlio. Padri senza un futuro, che costruiscono case e famiglie a cui non possono promettere nulla. Comincia una discussione accesa, dolorosa, di gente che si sente tradita e io mi rendo conto che non posso essere sopraffatta dalla tristezza, dai fatti, da immagini di attentati, di barriere. Mi rendo conto che hanno bisogno di sentire la mia voce. Una voce che era anche la loro e che hanno perso perché non hanno la fortuna come me di credere profondamente nella forza e nel valore inestimabile dell'educazione.

Di sapere di avere la responsabilità di una generazione da crescere. "E allora perché restare qui? - domando -"Perché rimanere attaccati a questa terra così profondamente? Perché insegnare ai nostri figli a conoscerne ogni piccola pietra? Abbiamo il dovere di sperare, di continuare a provare a cercare il modo di vivere insieme a loro, alla gente che abita al di là della barriera. Di convincerli e convincerci che si può. Di trovare il modo di crescere i loro e i nostri figli normalmente! Dobbiamo fare il possibile! E dobbiamo iniziare dall'educazione, nostra e loro, lo stiamo facendo e continueremo a farlo, non possiamo arrenderci. Solo noi possiamo insegnare a questa gente il coraggio di amare la vita, il segreto della laboriosità che crea lavoro, pane, speranza!"

La mia voce echeggia come a supplicare i miei interlocutori di non mollare, non loro per favore! "Ma oggi la Galilea è la culla di Hamas...." mi dice Hanoch. "Lo so, io ci vivo in Galilea ma gli arabi di Fassouta e di Jish sono di casa da noi. E tanti di loro cercano la tranquillità come la cerchiamo noi. La vita da vivere è molto meno complicata della vita che si racconta!"

Al momento di lasciarci Amos, il più disincantato, con un passato ricco di storie, uno che gli arabi li conosce bene, per averci lavorato insieme, per averci vissuto insieme mi abbraccia e mi dà una specie di benedizione a modo suo........ "Continua cosi, ce ne vorrebbero tanti che ancora credono..."

Vi mando questa benedizione, questa preghiera. Questa urgenza: credere!

E la profezia avvererà se stessa! È cosi!

Angelica Calò Livnè
(Kibbuz Sasa Alta Galilea )


v. anche:
Un'altra 'perla' di Angelica Calò Livnè. I misteri della Kabbalah e Padre Pio
Conoscersi per convivere e costruire la storia insieme
Angelica Calò Livnè, Questo dialogo con voi, la mia speranza
Progetto semplice e coraggioso: israeliani e palestinesi riuniti in un panificio
Una ebrea e una cristiana palestinese vincono il premio per la Pace

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