
                                   
                                  
                                  Oltre la porta di Amos Luzzatto                
                                  torna
                                  su
                                  Le due parole - chiave
                                  della prossima Giornata Europea della Cultura
                                  Ebraica sono le “porte aperte” e l’“educazione
                                  ebraica”. Può derivarne l’impressione di
                                  una contraddizione implicita: le “porte
                                  aperte” sono rivolte verso l’esterno,
                                  verso quelli che non appartengono alla
                                  Comunità, verso il grande pubblico dei
                                  non-ebrei. Al contrario, l’“educazione
                                  ebraica” riguarda in primis i bambini, gli
                                  adolescenti, forse anche gli adulti ebrei,
                                  coloro che vivono all’interno delle
                                  Comunità.
                                  
                                  Sono fermamente convinto che le cose non
                                  stiano così.
                                  Noi vogliamo le porte aperte perché
                                  desideriamo che l’atmosfera dolcemente
                                  coinvolgente delle nostre Sinagoghe, delle
                                  nostre case, delle nostre Scuole e dei nostri
                                  libri ebraici possa essere assaporata almeno
                                  una volta all’anno da tutti i nostri vicini
                                  di casa.
                                  Che dire però dell’educazione
                                  ebraica? Ha senso offrirla a chi ebreo non
                                  è?Dipende, evidentemente, dall’obiettivo
                                  che ci si pone.
                                  Se lo scopo è quello di allevare un certo
                                  numero di giovani a vivere da ebrei, la
                                  risposta non può essere che negativa, anzi la
                                  domanda sarebbe priva di senso.
                                  Ma se lo scopo è quello di
                                  fornire anche ai non-ebrei elementi di cultura
                                  ebraica che possano allargare la cerchia di
                                  coloro che desiderano conoscerci e forse
                                  diventarci amici, allora credo che non solo è
                                  lecito, ma è addirittura doveroso farlo.
                                  Un esempio tanto comune da
                                  essere quasi banale è la leggenda della
                                  crudeltà e vendicatività del Dio degli
                                  ebrei, che ci avrebbe elargito la legge del
                                  taglione (“occhio per occhio, dente per
                                  dente”). “Educazione ebraica” significa
                                  in questo caso far leggere le fonti talmudiche,
                                  quelle scritte dai tanto "deprecati"
                                  Farisei, laddove alla ritorsione si
                                  sostituisce il risarcimento, facendo pagare al
                                  colpevole quello che si definirebbe
                                  modernamente il lucro cessante, il danno
                                  emergente, il danno permanente e anche quello
                                  fisiognomico. Secoli prima che l’Europa
                                  affrontasse questi temi!
                                  Un altro esempio è
                                  metodologico e consiste nelle dispute fra
                                  Maestri, che terminano tanto spesso con un
                                  voto di maggioranza sulla norma da rispettare.
                                  Ma citando nel verbale quasi sempre anche l’opinione
                                  di minoranza. Esempio palese di correttezza e
                                  di democrazia.
                                  Gli esempi si potrebbero
                                  moltiplicare, ma forse bastano questi per
                                  sollecitare la voglia di sapere di più, di
                                  cercare testi, di studiare la storia ebraica,
                                  di cercarsi Maestri e, in ultima analisi, di
                                  amare questi ebrei tanto vituperati, questi
                                  ebrei cui tanto spesso si sono attribuite le
                                  colpe di tutti i mali.
                                  In un’Europa che ama definirsi “multietnica”
                                  non è difficile trovare gli ebrei e la loro
                                  cultura. Essi vi sono sempre stati, sarebbe
                                  stato sufficiente non ignorarli. Se avessimo
                                  raggiunto questo obiettivo, questo “far
                                  scoprire gli ebrei” con spirito obiettivo,
                                  alieno da pregiudizi, potremmo dirci
                                  soddisfatti.
                                  
                                  
                                  
                                  
                          
                          A partire dalla descrizione che la
                          Torah fa di Moshè, il quale quando sta da Jethro
                          porta le greggi al pascolo “ahar hamidbar”: oltre
                          il deserto, al di là del deserto, in un deserto
                          estremo, dove c’ è un particolare silenzio (forse
                          quella “sottile voce di silenzio”, che è la voce
                          del Signore che parla al profeta Elia, che aveva prima
                          creduto che il Signore fosse nel fuoco e nel
                          terremoto), mi sono chiesta perché ci vuole il
                          silenzio che assomiglia al vuoto che Dio creatore deve
                          fare dentro di sé per poter creare il mondo e poter
                          lasciare alle sue creature la libertà di scelta: quel
                          libero arbitrio, che così profondamente caratterizza
                          il suo miglior prodotto, il genere umano. Mi sono
                          chiesta come questo principio di “fare spazio” non
                          rappresenti essenzialmente l’attività educativa,
                          nel suo valore più generale per tutta l’umanità.
                          Questo fare spazio, questo vuoto necessario è ben
                          rappresentato nella copertina di un recente libro di
                          Rachele Furfaro “Le rocce nella scatola” (Bergamo,
                          Erikson), assessore all’educazione del Comune di
                          Napoli e fondatrice di una scuola dell’infanzia ed
                          elementare a misura dei singoli e dei gruppi di
                          bambini: la copertina rappresenta una stanza quasi
                          vuota, con due seggiole stilizzate, di un caldo colore
                          giallo, simbolo del calore della relazione educativa
                          che caratterizza tutta l’esperienza educativa
                          pluriennale di Rachele.La tradizione ebraica considera
                          centrale l’attività di studio, di insegnamento e di
                          apprendimento: tre attività tenute insieme dalla
                          comune radice del verbo “lilmod”, che culmina
                          nello studio del Talmud , che si può iniziare dai
                          quindici anni, considerando che già a cinque anni si
                          comincia a studiare la Legge, non appena si è appreso
                          l’alfabeto, a dieci anni la Mishnah e a tredici anni
                          comincia l’obbligo dell’osservanza dei precetti
                          religiosi. La scuola infantile ebraica, lo heder,
                          presentava l’alfabeto in modo ludico (come biscotti
                          dolci, da imparare nelle loro diverse forme) ai
                          bambini piutttosto piccoli. Ai quali si raccomandava
                          (come dice una canzone jiddisch, intitolata “Nella
                          stufa …della scuola”) di ricordare sempre il
                          valore dell’alfabeto. Una strofa dice infatti:
                          "Quando voi, bambini, vagherete nell’esilio,
                          quando sarete tormentati dal dolore dell’esilio,
                          allora troverete conforto nelle lettere dell’alfabeto
                          ” . Una storia del Ba’al Shem Tov dice che, avendo
                          fatto naufragio su un isola con solo un
                          accompagnatore, non aveva testi né se li ricordava. D’altra
                          parte la conoscenza dell’alfabeto è la condizione
                          prima per poter procedere nello studio, attraverso la
                          lettura e la discussione. Tanto che si deve citare e
                          ringraziare tutti coloro che ci hanno insegnato anche
                          una delle lettere, come fece re Davide nei confronti
                          di uno schiavo, che sempre ricordava e ringraziava
                          perché aveva da lui imparato una sola lettera. E per
                          questo, fa parte delle norme educative tradizionali,
                          citare sempre i maestri e i compagni, da cui abbiamo
                          imparato qualcosa. Infatti il rapporto, simmetrico e
                          asimmetrico, è essenzialmente educativo, per il
                          valore intrinseco della relazione tra due e più
                          allievi e tra un allievo e un maestro.
                          Se il primo dovere di un allievo è
                          trovarsi un altro allievo con cui studiare, il primo
                          dovere di un maestro è trovarsi un allievo da cui
                          imparare. Possiamo aggiungere che il maestro deve fare
                          il vuoto per far crescere l’allievo nella libertà e
                          per la libertà. Perché il compito più importante di
                          ciascun uomo è diventare se stesso, come ci ricorda
                          il detto di Rabbi Sussjia che disse prima di morire:
                          “Nel mondo a venire non mi si chiederà: perché non
                          sei stato come Abramo, perché non sei diventato Mosé?
                          Mi si chiederà soltanto: Sussjia, perché non sei
                          stato Sussjia?”. Per diventare se stessi ci vuole l’aiuto
                          di altri allievi e di buoni insegnanti, i quali siano
                          capaci di fare il vuoto dentro di sé per accogliere l’identità
                          in sviluppo degli allievi. Ma vorrei concludere che
                          forse nel vuoto, quindi nello spazio di crescita che
                          ci offre l’insegnante, quello che ci mette l’insegnante,
                          insieme con tutta la tradizione culturale che ci è
                          propria è appunto l’alfabeto ebraico, con tutta la
                          sua pregnanza semantica e numerologica e i suoi
                          infiniti significati: lo strumento essenziale,
                          affinché qualunque allievo possa continuare a
                          studiare e a capire per conto suo.
                          
                          
                          Maestro e allievo nel Talmud Rav Scialom Bahbout      
                          torna
                          su
                          
                          Lo studio della Torà è sempre
                          stato considerato fondamento dell’esistenza ebraica,
                          uno studio non fine a se stesso, ma teso ad apprendere
                          gli insegnamenti di vita e le norme da applicare. In
                          effetti quando si parla dello studio della Torà si
                          intende con questo sia lo studio della Torà scritta
                          che di quella orale: quest’ultima infatti in molte
                          parti completa e chiarisce il testo scritto.
                          Chi studia la Torà però non deve
                          limitarsi a tenere per se stesso quanto ha appreso, ma
                          deve cercare di trasmetterlo ad altri. In effetti uno
                          dei comandamenti più importanti è proprio quello di
                          insegnare la Torà: chi studia la Torà e non la
                          trasmette ad altri è paragonato a un mirto che
                          cresce nel deserto, un luogo in cui nessuno può
                          fruire dell’odore che emana da quell’albero
                          odoroso. Inoltre, chi non trasmette ad altri quanto ha
                          studiato è paragonato ad un ladro, in quanto toglie
                          ad altri l’eredità che i padri hanno voluto
                          lasciare ai propri discendenti.
                          Quindi, l’azione dell’insegnamento
                          deve essere infaticabile e senza fine, e non è
                          concesso, per così dire “ritirarsi in pensione”.
                          Di Rabbi Akivà che aveva allevato centinaia di
                          allievi in gioventù, si dice che se non avesse
                          insegnato anche in vecchiaia, dopo la morte dei suoi
                          numerosi allievi, non avrebbe lasciato alcuna traccia
                          del suo insegnamento. In effetti, gli allievi sono
                          paragonati ai figli e il maestro è considerato pari a
                          un padre, in quanto l’atto dell’educazione è un
                          atto creativo che ha la capacità di cambiare la
                          persona in continuazione.
                          L’obiettivo della creazione di
                          nuove generazioni di allievi, non poteva essere
                          lasciato ai soli genitori o ai maestri privati e per
                          questo motivo la creazione di scuole in cui anche gli
                          allievi più poveri potessero studiare, una sorta di scuola
                          dell’obbligo, è considerata uno dei grandi
                          meriti di Jehoshua Ben Gamla (Talmud Bavà Batrà
                          21a).
                          Non tutti hanno le qualità
                          necessarie per insegnare, come ad esempio la pazienza
                          di ripetere per ben 400 volte un insegnamento a un
                          allievo un po’ duro di comprendonio (Eruvin 54b), o
                          la capacità di capire che certi allievi hanno bisogno
                          di un compagno per ripetere e capire meglio ciò che
                          un maestro non è in grado di trasmettere, o ancora di
                          capire che, per essere ben accetto, l’insegnamento
                          deve partire da un argomento amato dallo studente.
                          Il Maestro deve capire che è
                          necessario anche usare tecniche che siano efficaci e
                          che possano imprimere nella memoria l’insegnamento:
                          ad esempio, la ripetizione cantilenata dei passi
                          studiati è uno strumento efficace.
                          Anche se quando si parla di maestro
                          e allievo non ci sono limiti di età, tuttavia è
                          chiaro che i primi ad essere obiettivi dell’interesse
                          del Maestro sono i bambini che rappresentano la vera
                          garanzia della trasmissione della Torà, come risulta
                          da questo brano.
                          “Ha detto Rabbi Meir: quando
                          Israele si trovava di fronte al Monte Sinai per
                          ricevere la Torà, il Signore disse loro: Giuro che vi
                          do la Torà, ma dovete portarmi dei garanti che mi
                          assicurino che voi la conserverete: solo allora io ve
                          la darò.
                          Gli risposero: i nostri padri, i
                          nostri profeti saranno garanti per noi. Il Signore
                          rispose loro: Anche costoro hanno bisogno di garanti;
                          portatemi dei garanti migliori ed io vi darò la
                          Torà.
                          Risposero: Ecco i nostri figli,
                          essi saranno garanti per noi. Il Signore rispose:
                          questi certamente sono dei buoni garanti, per loro io
                          vi darò la Torà. (Shir hashrim rabbà 1).
                          Si è generalmente portati a
                          pensare che il Maestro svolga un ruolo attivo nell’insegnamento,
                          mentre l’allievo è quello svolge un ruolo passivo,
                          in quanto riceve l’insegnamento. Non è così nella
                          tradizione talmudica:
                          L’elemento che maggiormente
                          caratterizza il rapporto tra allievo e maestro è il
                          continuo capovolgersi di ruoli nel corso dell’insegnamento.
                          Il Maestro in una prima fase ha il ruolo di
                          trasmettitore, ma le domande che l’allievo pone sono
                          tali che costringono il Maestro a trovare nuovi
                          argomenti e nuove risposte: “Da tutti i miei maestri
                          ho imparato, ma dai miei allievi più di ogni altro”.
                          Nel corso di una lezione i ruoli si capovolgono in
                          continuazione.
                          Oltre che tra allievo e Maestro, il
                          progresso nello studio può avvenire nel rapporto di Chavruta,
                          cioè di un compagno di studi che ha il compito di
                          mettere in continua crisi gli argomenti del proprio
                          compagno, ponendo domande continue. Significativa è
                          la storia che il Talmud narra a proposito di due
                          grandi Maestri Resh Lakish e Rabbi Jochanan che
                          discutevano continuamente sull’interpretazione dei
                          testi e sulla soluzione dei casi legali che venivano
                          loro presentati.
                          Quando morì Resh Lakish, fu
                          trovato un nuovo compagno per Rabbi Jochanan. Questo
                          nuovo compagno, a ogni domanda, rispondeva che poteva
                          portare argomenti a favore della sua tesi che potevano
                          provare la bontà dei suoi insegnamenti. Rabbì
                          Jochanan si disperò fino alla morte, rimpiangendo le
                          continue obiezioni del suo vecchio compagno di studi.
                          Allievo o compagno di studi, ciò
                          che conta per il Talmud è la capacità di creare nel
                          proprio interlocutore nuove domande: anche se non è
                          possibile immediatamente, le generazione future
                          sapranno trovare una risposta.
                          
                          
                          Acquisire un'identità Rav Benedetto Carucci           
                          torna
                          su
                          (Direttore delle Scuole Ebraiche di Roma)
                          L’educazione, per l’ebraismo,
                          è uno dei valori fondamentali e fondanti. Non a caso
                          all’inizio dello shema‘ , il brano biblico
                          diventato testo liturgico per eccellenza, dopo l’affermazione
                          dell’unicità di Dio e dell’amore per Lui, si
                          passa immediatamente all’obbligo della trasmissione
                          dei valori, una trasmissione che è e deve essere
                          costante nel tempo e nello spazio: “Ripeterai queste
                          parole ai tuoi figli e ne parlerai quando sei in casa
                          e quando cammini per strada; quando ti corichi e
                          quando ti alzi”. La interpretazione rabbinica, con
                          uno spostamento ardito ma assai significativo, include
                          nell’espressione i tuoi figli anche i
                          discepoli. In questo senso il rapporto
                          maestro-discepolo è omologo, se non addirittura
                          superiore, al rapporto padre-figlio: ciò che fonda l’essere
                          nel mondo dell’ebreo è la sua esistenza,
                          naturalmente, ma in particolare la adesione ad una
                          visione del mondo e ad un sistema di comportamento che
                          sono trasmessi dai genitori e, con più completezza,
                          dai maestri; ed il rabbino, figura centrale dell’ebraismo
                          senza santuario, è essenzialmente un maestro.
                          E’ sull’educazione e la
                          formazione costante, d’altra parte, che si è
                          fondata la storia dell’ebraismo e su di essa si
                          gioca il suo futuro: educazione è infatti
                          fondamentalmente lo strumento per la acquisizione di
                          una identità di appartenenza – in questo senso si
                          possono interpretare i diversi precetti dei genitori
                          nei confronti dei figli –, il mezzo per il
                          riconoscimento del proprio sé coniugato con la
                          apertura all’altro: così forse si debbono leggere
                          sia gli inviti alla santità collettiva nella Bibbia,
                          sia le indicazioni rabbiniche come quella di Hillel,
                          che insegna “se non sono per me, che è per me? e se
                          sono solo per me, cosa sono io?”
                          Per riflettere sull’educazione
                          ebraica in termini generali, sintetici e non
                          eccessivamente tecnico-normativi si può, tra le
                          altre, seguire una strada testuale: si può cioè
                          cercare nella Bibbia la prima volta che compare la
                          radice da cui deriva la parola educazione, in ebraico chinukh.
                          Inaspettatamente questa radice è presente la prima
                          volta nel libro della Genesi ed è all’origine di un
                          nome proprio, Chanokh – nella pronuncia
                          latina Enoc – colui che prima del tempo fu portato
                          in cielo da Dio. Secondo i commentatori classici
                          questa assunzione da vivo è una forma di protezione:
                          Dio prende Chanokh ancora giovane per evitare
                          di farlo peccare; per altri interpreti è il segno di
                          un compito portato a termine. In base a queste due
                          linee interpretative si potrebbe dire che educare è
                          tanto preservare quanto mettere nelle condizioni di
                          portare a compimento un incarico, di arrivare alla
                          fine di un percorso. La radice di chinukh
                          compare poi nella Torah, in relazione al
                          tabernacolo desertico, nella accezione di inaugurare:
                          a questo proposito il più importante commentatore
                          medioevale della Torà, Rashì, suggerisce come
                          significato principale della radice proprio l’inizio,
                          il dare avvio a qualche cosa, il porre un oggetto o
                          una persona nella condizione di portare a compimento
                          la propria specifica funzione. Educazione è allora, a
                          partire da queste limitate e scarne riflessioni di
                          partenza, un insieme complesso di compiti: è iniziare
                          una altra persona – un figlio o un discepolo – ad
                          un percorso senza però limitarsi a questo; è anche
                          accompagnare l’educando, almeno inizialmente anche
                          preservandolo, affinché – con i suoi ritmi ed i
                          suoi parametri ed i suoi stili di apprendimento –
                          arrivi ad un traguardo. Esattamente quanto si può
                          desumere da uno dei due punti della Bibbia in cui la
                          radice chnkh rinvia specificamente all’ambito
                          semantico dell’educare: il termine compare in
                          riferimento ad Abramo ed ai suoi famigli/discepoli.
                          Abramo, che si assume il compito di diffondere l’idea
                          monoteistica tra le genti (e non solamente tra i
                          componenti della sua famiglia), le inizia ad un
                          percorso, le aggrega a sé, le accompagna, le
                          indirizza. E probabilmente adotta una prospettiva
                          individualizzata, come suggerisce il libro dei
                          Proverbi – l’altro punto della Bibbia in cui la
                          radice compare con la accezione di educazione –
                          quando recita “educa il ragazzo secondo la sua strada”.
                          Queste declinazioni del concetto di
                          educazione trovano particolare realizzazione in quel
                          complesso esempio di pedagogia ebraica che è il seder
                          di Pesach: gli strumenti articolati che si
                          usano in esso per ricordare l’uscita dall’Egitto e
                          per trasmetterne il senso ai figli – i protagonisti
                          principali dell’evento – sono testimonianza dell’attenzione
                          assoluta che la tradizione ebraica ha per le forme
                          dell’educazione insieme alla cura dei contenuti. E d’altra
                          parte le diverse tipologie di figli previste dalla haggadah,
                          insieme alle diverse risposte e ai diversi
                          atteggiamenti dei genitori, indicano l’impossibilità
                          di un’unica opzione pedagogica valida per tutti.
                          Un altro spunto di riflessione di
                          interesse educativo deriva dalle parole ebraiche che
                          indicano la giovane età e la adolescenza: quella fase
                          della vita che, non certo unica in questo, sembra
                          essere oggetto particolarmente critico dell’educazione.
                          In ebraico, come in tutte le altre lingue, esistono
                          più sinonimi per indicare la giovinezza. Tre sono
                          principalmente le parole che indicano l’essere
                          ragazzo o ragazza: naar, elem, bachur.
                          Il primo termine deriva da una radice che significa
                          agitarsi, scrollarsi di dosso, liberarsi: l’adolescente
                          è senza dubbio molto di questo; si agita in diverse
                          direzioni, vuole scrollarsi di dosso il controllo,
                          vuole essere libero da una autorità limitante, spesso
                          si contrappone. Elem, il secondo termine,
                          comunica invece un ambito assai diverso di
                          significati; la radice, infatti, richiama il senso del
                          nascosto, dello sparire, dell’ essere ignoto e
                          dimenticato. Ed in effetti spesso il disagio giovanile
                          discende da una percezione di sé come essere
                          invisibile, nascosto, quasi dimenticato dal mondo
                          degli adulti. Una modalità esistenziale che ha anche
                          il suo lato volontario: quello di volersi nascondere,
                          di ritagliarsi uno spazio individuale sconosciuto agli
                          altri, in particolare al mondo dei grandi. Vi è
                          infine l’ultimo termine, bachur, che rimanda
                          all’idea di scegliere ma anche, per certi versi, di
                          essere scelto. Nella prospettiva ebraica il ragazzo, l’adolescente,
                          è posto all’incrocio di questi significati; li
                          racchiude in sé e cerca di organizzarsi all’interno
                          di tensioni che spesso sembrano in contrasto tra loro.
                          Chi educa, in questa prospettiva, deve tenere a mente
                          l’insieme di queste componenti. Deve svolgere un
                          ruolo di limite, senza però con questo soffocare l’ansia
                          di libertà che ogni ragazzo ha; deve aiutare l’adolescente
                          ad orientare le energie che si agitano al suo interno.
                          Il buon educatore deve riuscire a non far sentire
                          invisibile nessun ragazzo, non deve dargli la
                          sensazione di essere dimenticato, pur lasciandogli uno
                          spazio esistenziale proprio, riservato, accessibile ad
                          altri solo per sua scelta. Ed infine deve aiutare il
                          giovane a compiere le sue scelte, cosciente di essere
                          oggetto di un affetto volontario.